Nullità del preliminare di vendita di beni immobili per cause inerenti la regolarità amministrativa.
CORSO ON LINE PREPARAZIONE CONCORSO IN MAGISTRATURA 2013/2014
svolgimento a cura di Danila Romano
Nullità del preliminare di vendita di beni immobili per cause inerenti la regolarità amministrativa.
La problematica connessa al vizio che colpisce il contratto preliminare di un bene immobile a cagione della irregolarità amministrativa del bene stesso è stata oggetto, da un lato, di distinte disposizioni normative, dall’altro, di un accesso dibattito tanto dottrinale quanto giurisprudenziale allo stato ancora lontano dal rendere una univoca e consolidata risposta.
L’analisi del problema involge, pertanto, sia una disamina la natura giuridica del contratto preliminare ed, al riguardo, si sono medio tempore succedute tre distinte ipotesi che, su ognuno degli aspetti ti tale figura, danno vita ad altrettante risposte, sia l’analisi della normativa ad hoc intervenuta nel tempo.
Il contratto preliminare, cui il codice civile dedica una scarna disciplina, è il contratto con cui le parti si impegno a concludere un successivo contratto, che assumerà la denominazione di contratto definitivo, i cui elementi essenziali sono stati già definiti nel contratto preliminare stesso. È una delle varie forme di esplicazione della volontà e della autonomia negoziale delle parti che decidono di rimettere la regolamentazione definitiva, o meglio l’efficacia definitiva, dell’accordo raggiunto ad un momento successivo.
Il codice civile si limita a stabilire, all’art. 1351, la nullità del contratto preliminare nel caso in cui non sia stato stipulato nella stessa forma che la legge prescrive per il contratto definitivo, con speculare previsione sotto il profilo probatorio ai sensi dell’art. 2725, secondo comma, del codice civile. L’essenzialità della disciplina si individua nell’art. 2932 del codice civile a tenore del quale, se la parte che si è obbligata a concludere un successivo contratto resta inadempiente, l’altra parte può ottenere una sentenza che andrà a produrre gli effetti del contratto non concluso, una sentenza quindi dalla efficacia costitutiva che comunque non inciderà sulla natura del rapporto intercorrente fra le parti che è e resta una natura negoziale. Le condizioni di ammissibilità per la proposizione dell’azione ex art. 2932 del codice sono la possibilità di addivenire al contratto definitivo e che ciò non sia escluso dal titolo, inoltre, qualora l’oggetto del contratto sia il trasferimento della proprietà di una cosa determinata ovvero la costituzione o il trasferimento di un altro diritto, la parte che agisce, deve, salvo che la sua prestazione non sia esigibile, eseguire la prestazione stessa o farne offerta nelle forme di legge.
Nel silenzio della legge, è stata la dottrina e dipoi la giurisprudenza ad individuare la natura giuridica del contratto preliminare, individuazione che si rende necessaria per comprendere i termini cui la giurisprudenza è pervenuta per la risoluzione della problematica oggetto di attenzione. Al riguardo si sono succedute tre diverse tesi.
La tesi tradizionale ritiene che il contratto preliminare sia un contratto dall’efficacia meramente obbligatoria, dalla cui stipula sorge esclusivamente l’obbligo di concludere il contratto definitivo. Tale tesi sostiene quindi l’assoluta autonomia -rispetto al contratto preliminare- del contratto definitivo, la cui causa sarà autonoma, corrispondente a quella sua tipica, in relazione allo specifico schema negoziale adottato (vendita, mutuo, permuta, comodato). Stipulato il contratto definitivo sarà adempiuto l’obbligo a contrarre insorto con la stipula del contratto preliminare. Inoltre, in ipotesi di mancata corrispondenza fra il contenuto dei due contratti, prevarrà quando stabilito dalle parti nel contratto definitivo.
Le Sezioni Unite del 1990 hanno sostenuto una tesi innovativa e discordante rispetto a quella tradizionale, introducendo nel dibattito l’idea del doppio contratto; il contratto preliminare produrrà un doppio ordine di effetti: l’obbligo di contrarre il contratto definitivo e l’obbligo di eseguire le specifiche prestazioni, di dare e di fare, che saranno già in questa sede determinate e definite. Il contratto definitivo quindi sarà privo di una natura negoziale, ponendosi solo come uno strumento di controllo delle sopravvenienze, potendosi apportare delle modifiche solo nel caso in cui siano sopravvenute nuove circostanze che legittimino le parti a discostarsi da quanto in precedenza stabilito, laddove, in assenza di tali sopravvenienze, in caso di mancata coincidenza fra i contenuti dei due contratti, prevarrà quanto stabilito dalle parti in sede di stipula del contratto preliminare. Secondo tale teoria il contratto definito avrà una doppia causa, quella sua propria interna, determinata dallo specifico schema negoziale adottato, ed una causa esterna, consistente nell’adempimento delle prestazioni come specificamente individuate dal contratto preliminare. L’eventuale presenza di vizi nel contratto preliminare vizierà il contratto definitivo qualora in questo debba considerarsi prevalente la causa esterna, se invece sarà prevalente la causa interna propria del contratto definitivo, questo sarà immune ai vizi del precedente contratto.
Tesi minoritaria tanto in dottrina quanto in giurisprudenza è l’idea per cui il contratto preliminare sia invero un contratto definitivo a tutti gli effetti con l’ulteriore efficacia obbligatoria di concludere, solo formalmente, un contratto successivo, il quale si porrà come semplice adempimento ed esecuzione del contratto preliminare e che avrà una causa solutionis, per cui il solo scopo del contratto sarà adempiere all’obbligo insorto dalla stipulazione del contratto preliminare.
La tesi tradizionale, che vede il contratto preliminare come un contratto dai soli effetti obbligatori,ha portato per lungo tempo ala giurisprudenza a risolvere la problematica circa il vizio che affligge un contratto preliminare relativo ad un immobile che presenta delle irregolarità amministrative nel senso di escludere la nullità del contratto de quo sì come individuata dalla normativa di settore.
In particolare, l’art. 15 della legge Bucalossi, n. 10 del 1977, legge sulla edificabilità dei suoli, prevedeva la nullità degli atti giuridici degli immobili costruiti in assenza di concessione nel (solo) caso in cui da essi non risultasse che l’acquirente era ben a conoscenza della mancanza della concessione.
Ciò a portato la giurisprudenza a ritenere che la finalità primariamente ed unicamente perseguita dalla legge fosse quella informativa, mirante a tutelare l’acquirente e facendo solo attenzione che lo stesso fosse a conoscenza dell’abusività dell’immobile. Pertanto, ove tale consapevolezza risultasse espressamente dall’atto, l’atto stesso era da considerarsi valido.
Nel 1985 viene emanata la seconda legge sul condono edilizio, n. 47, che all’art. 2 abroga la precednete normativa richiamata e che all’art. 40 sancisce la nullità degli atti fra vivi aventi ad oggetto diritti reali se da essi non risultano, per dichiarazione dell’alienante, gli estremi urbanistici dell’immobile, ovverosia gli estremi della licenza o della concessione ad edificare o della concessione in sanatoria rilasciata ovvero in caso di mancata allegazione della domanda in sanatoria presentata con la prova della presentazione.
Una sostanziale differenza fra le due normative è il richiamo a diverse categorie di atti, o meglio, la legge Bucalossi individuava la categoria più generale degli atti fra vivi, fra cui, la giurisprudenza ha fatto rientrare il contratto preliminare, la norma del 1985 contempla esclusivamente gli atti ad effetto reale, circostanza che ha fatto dubitare della annoverazione altresì del contratto preliminare nei termini che di seguito si specificheranno.
Circa la portata della normativa in dottrina ed in giurisprudenza si sono fronteggiare due diverse ed opposte tesi, nessuna delle due impostasi nettamente sull’altra: da un lato, la tesi che ha sostenuto la natura “formale” della nullità individuata dalla legge, dall’altro, la tesi che ne ha sostenuto la natura “sostanziale”.
Secondo i fautori della tesi che sostiene la natura formale della nullità, questa viene comminata come strumento di sanzione a tutela dei diritti di informazione ritenuti sussistenti in capo all’acquirente, così che sarà necessario inserire gli estremi urbanistici dell’immobile per assicurare la validità dell’atto, tali dichiarazioni permetteranno poi all’acquirente stesso di svolgere ogni opportuno controllo. Ciò non toglie che, se è pur vero che in ipotesi di immobile abusivo non ci sarà alcuna dichiarazione da poter rendere, così individuandosi subito la nullità dell’atto, non può escludersi che, per adempiere alla mera formalità, l’alienante inserisca nell’atto degli estremi urbanistici falsi ed inesistenti. È ovvio che in tal caso, oltre a non aversi una piena tutela dell’acquirente si va a frustrare un’altra esigenza che in realtà si ritiene sottesa alla normativa in esame, ovverosia quella di prevenire l’abusivismo edilizio cui consegue la non commerciabilità degli immobili irregolari.
È questa la ratio sottesa alla opposta tesi sostanziale, i cui fautori infatti pongono l’attenzione non tanto o non solo sul mero inserimento dei dati urbanistici dell’immobile all’interno dell’atto, quanto e soprattutto sulla necessità che quelle dichiarazioni siano veritiere e non mendaci e che effettivamente l’immobile sia regolare e conforme alla disciplina urbanistica, ab origine o per effetto di una sanatoria.
E la nullità cui si perviene non è tanto e solo quella comminata dalla normativa in esame che guarda al solo dato letterale, quanto quella più generale: se il bene è irregolare non potrà essere oggetto di commercializzazione, ponendosi come oggetto impossibile od anche illecito per violazione della normativa urbanistica.
Le ipotesi concrete che possono verificarsi, infatti, sono molteplici.
Può accadere che le dichiarazioni richieste dalla legge non siano rese ma l’immobile sia invero regolare e conforme a legge: sostenendo la tesi della nullità formale, il contratto dovrebbe essere, per il solo fatto della mancanza della dichiarazione, nullo, ma non v’è modo di non vedere che in concreto non c’è abuso, quindi non c’è violazione dell’interesse pubblico e non c’è lesione della posizione dell’acquirente, anche nella considerazione che la legge del 1977 poneva l’attenzione sulla consapevolezza dell’acquirente, mentre la legge del 1985 pone l’attenzione sul dato oggettivo dell’atto e dell’immobile.
Può anche verificarsi che il bene sia irregolare e che manchi, ovviamente, la dichiarazione: in questo caso c’è nullità dell’atto non tanto e non solo per la previsione di cui alla legge 47/1985 ma ai sensi dell’art. 1418 del codice civile per impossibilità ovvero illiceità dell’oggetto.
Può infine accadere l’ipotesi, già richiamata, che l’immobile sia irregolare e che l’atto contenga dichiarazioni false, tanto comporterà la regolarità formale ex art. 40, ma la nullità secondo i dettami del codice civile.
A far propendere per la tesi sostanziale è altresì il disposto di cui all’art. 17 della legge del 1985 ovvero art. 46 del t.u. 380/2001, tale per cui in deroga al principio della insanabilità della nullità exart. 1423, norma che fa salva la deroga legislativa, la nullità degli atti in questione può essere sanata se non dipende dalla manata concessione edilizia al momento della stipula degli atti: è il caso in cui la regolarità sostanziale va a prevalere sulla mera nullità formale; una ulteriore prova che la normativa abbia come fine primario il prevenire l’abusivismo edilizio.
Uno degli aspetti più problematici che ha interessato la giurisprudenza e che questa ha risolto in maniera tutt’altro che univoca è il dubbio se la normativa in esame, e le conseguenze patologiche prospettate, possa essere applicata anche ai contratti preliminari, problematica di non poco momento, nella evidente considerazione che la prassi contrattuale vede il ricorso alla dicotomia preliminare/definitivo particolarmente frequente in materia di compravendita di immobili.
Tale aspetto, in uno con la successione temporale delle due normative richiamate è stata oggetto di un revirement giurisprudenziale particolarmente recente.
Nel 2011, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 11391, nel decidere sul vizio affliggente un contratto preliminare costruito in data antecedente al 1985, ha concluso nel sostenere l’inapplicabilità della normativa di cui alla legge 47/1985 alla fattispecie in esame atteso il carattere non retroattivo della norma, tuttavia si è espressa in termini di ultrattività della legge Bucalossi che contemplando genericamente “gli atti giuridici” ben annoverava il contratto preliminare.
Nel 2012, la Corte, con la sentenza n. 14579, affrontando un caso di contratto preliminare stipulato nel 1990, sotto la vigenza della legge del 1985, ha negato l’applicabilità delle nuove disposizioni alla fattispecie del contratto preliminare perché contratto ad effetti obbligatori non contemplato dalla norma, ma, contrariamente al precedente arresto, in merito il rapporto fra le due norme, ha sottolineato come la legge emanata proprio in quell’anno avesse in toto abrogato le disposizioni della legge del 1977, da considerarsi quindi non più applicabili.
Circa la posizione del contratto preliminare nella fattispecie in esame differenti e non univoche le pronunce rese.
Nel 2007, la Corte di Cassazione, aveva rimarcato, accogliendo sul punto la posizione del ricorrente, che il contratto preliminare produce meri effetti obbligatori, come tali non direttamente contemplati dalla normativa vigente, tuttavia, non può disconoscersi, ad avviso della Corte, che il contratto preliminare comunque mira ad addivenire ad un contratto definitivo che avrà, quello sì, effetti reali, ovvero, in caso di inadempimento dell’altra parte, il contraente non inadempiente può agire ex art. 2932 del codice civile ed ottenere una sentenza che tenga luogo del contratto definitivo e che quindi produca effetti reali. Pertanto, negare la sanzione della nullità del contratto preliminare, farà sì che si potrà infine giungere al completamento, in via contrattuale o in via giudiziale, della fattispecie di vendita andando così a frustrare le esigenze pubbliche sottese alla normativa, ovverosia quelle di contrastare e sanzionare l’abusivismo edilizio.
Nel 2012, invero la Corte di Cassazione, analizzando la lettera della norma, ha invece sostenuto l’inapplicabilità del disposto di cui all’art. 40, comma 2, della legge 47/1985 ai contratti preliminari poiché aventi carattere meramente obbligatorio e quindi non annoverati dalla lettera della norma.
Nell’anno 2013, la Corte di Cassazione si è nuovamente espressa sull’argomento esprimendosi, pur a distanza di poche settimane, in maniera del tutto difforme.
Due sentenze, una dell’ottobre ed una del dicembre 2013, invertendo il precedente orientamento che si esprimeva in termini di inadempimento quando per l’irregolarità amministrativa non poteva addivenirsi alla stipula del contratto definitivo, ha abbracciato la teoria della nullità sostanziale, ritenendo che non rileva tanto la mera presenza o mancanza della dichiarazione in seno all’atto degli estremi urbanistici dell’immobile, quando l’effettiva conformità della costruzione alla normativa in materia. Circa la posizione del contratto preliminare, in entrambi i casi, la Corte ha sottolineato la mera natura obbligatoria dello stesso che lo renderebbe prima facie immune dal dettato della legge, tuttavia, ragioni di logica e giustizia sostanziali vogliono che la nullità involga anche il contratto preliminare considerata la necessaria completezza della fattispecie che perverrà, con il definitivo, a produrre effetti reali.
Di tutt’altro avviso la sentenza sempre del dicembre 2013, successiva di pochi giorni a quella da ultimo richiamata, la quale ha nuovamente posto l’attenzione sul mero carattere obbligatorio del contratto preliminare tale da rendere inapplicabile la normativa espressamente riservata ai contratti ad effetti reali.
Da ultimo si intende richiamare il dibattito dottrinale sulla natura del rapporto fra contratto preliminare e contratto definitivo in materia urbanistica.
In particolare, alcuni autori hanno posto l’attenzione sulla evoluzione dell’elemento patologico nello spazio temprale fra la stipula del contratto preliminare e la successiva stipula del contratto definitivo, ovvero sulla possibilità, anche nella consapevolezza delle parti, che la irregolarità sussistente al momento del preliminare venga sanata in tempo utile per stipulare un regolare contratto definitivo.
Al riguardo, gli orientamenti che negano la configurabilità della nullità in esame in relazione al contratto preliminare, pongono l’attenzione sulla oggettiva possibilità che, per l’intervento della parte o per una modifica normativa, in pendenza del termine per la stipula del contratto definitivo, la nullità venga meno.
Possono quindi verificarsi diverse ipotesi.
Nel caso in cui le parti stipulino un contratto preliminare nella duplice consapevolezza della attuale irregolarità nonché della certa persistenza della medesima nullità anche nel successivo momento in cui perverranno a stipulare il contratto definitivo, non v’è dubbio che l’intera operazione contrattuale sarà investita dalla nullità e questo già nella fase di stipula del contratto preliminare. Tanto a prescindere dall’accoglimento della tesi formale della nullità in esame o di quella sostanziale, infatti, la nullità sarà determinata dalla operatività delle regole generali, da un lato, ponendosi l’oggetto come impossibile ovvero illecito, nei termini sopra esplicitati, dall’altro, considerando che così operando le parti si saranno obbligate a stipulare un contratto già ab origine contrario a norme di legge e l’ordinamento non riserva alcuna tutela ad un tale comportamento o interesse delle parti.
Diverso il caso in cui al momento della stipula del contratto preliminare le parti sono a conoscenza della irregolarità, ma non hanno alcuna consapevolezza circa gli eventi futuri, ovverosia ritengono in astratto di potere intervenire con una regolarizzazione. In questo caso, se alla regolarizzazione non si perviene, o perché in tal senso non si è attivato il venditore a tanto obbligato, ovvero, a prescindere da una di lui diretta imputabilità, la pubblica amministrazione è intervenuta con un provvedimento di diniego alla sanatoria, la problematica che affliggerà il contratto non è data dalla patologia del preliminare, che resta valido, ma dall’intero evolversi della vicenda obbligatoria, da risolvere in punto di inadempimento del promittente venditore, ovvero di impossibilità sopravvenuta della prestazione. Circostanze queste che possono essere valutate solo all’atto della scadenza del temine per la stipulazione del definitivo.
Giova infine rilevare come parte della giurisprudenza nel tempo, a fronte della irregolarità che impediva la commercializzazione e quindi la stipula di un contratto definitivo avente ad oggetto un immobile non conforme alla disciplina urbanistica, risolveva la vicenda proprio in punto di inadempimento del promittente venditore.