Ordine pubblico economico e tutela del consumatore
FLAVIA MARIA LUISA MODICA
Corso ordinario magistratura online 2016/2017
Ordine pubblico economico e tutela del consumatore
SVOLGIMENTO
La tematica dell’autonomia contrattuale, quale species dell’autonomia negoziale, e dei suoi limiti, è stata oggetto, nel corso degli anni, di un processo di evoluzione e costante modifica, alla luce delle sensibilità giuridiche del periodo storico di riferimento. E’ in questo ambito d’indagine che deve inserirsi la riflessione sull’ordine pubblico economico, quale limite all’autonomia negoziale, e sulla tutela del consumatore quale esempio di disciplina legislativa finalizzata a realizzare un equo bilanciamento tra interessi commerciali e negoziali, da un lato, e interessi generali e di protezione, dall’altro.
Nello stato liberale ottocentesco l’autonomia negoziale era considerata lo strumento principe di affermazione dell’individuo e di esercizio delle libertà allo stesso riconosciute. L’intervento statale, inteso in termini prettamente negativi, concepiva come marginali ed eccezionali le limitazioni imposte dal legislatore all’autonomia dei contraenti. Né è una riprova la norma del Codice Civile del 1865 che, in tema di integrazione del contratto, presentava una gerarchia delle fonti invertita rispetto a quella che oggi conosciamo, riscontrabile all’art. 1374 c.c., e che metteva al primo posto, l’equità, seguita dagli usi, e da ultimo dalle leggi. Tale disposizione giustificava l’eterointegrazione del contratto ad opera di norme di legge, solo laddove non fossero operanti i primi due criteri, al fine di limitare il più possibile l’incidenza del legislatore sul regolamento contrattuale.
Con il Codice del 1942, che segna il passaggio ad uno stato sociale ed interventista, e che mira altresì a mantenere un controllo sull’operato dei privati, strumentale al mantenimento del regime dittatoriale, se da un lato si afferma e si riconosce l’autonomia dei contraenti, dall’altro si impongono quali limiti espliciti alla stessa le leggi e le norme corporative. Si riconoscono altresì al giudice poteri d’intervento sul regolamento contrattuale, come nelle ipotesi del contratto concluso in stato di pericolo o di bisogno, entrambi rescindibili rispettivamente, ai sensi degli artt. 1447 e 1448, o di eccessiva onerosità sopravvenuta del contratto, ex art. 1467. Sono tuttavia ipotesi in cui l’intervento del giudice è di norma consentito solo su istanza di parte.
Con l’entrata in vigore della Costituzione l’impianto del Codice Civile non viene modificato, ad eccezione dell’abrogazione dei riferimenti alle norme corporative, ma è semmai oggetto di un processo di interpretazione costituzionalmente orientata delle sue disposizioni. La Carta costituente se da un lato fornisce un fondamento costituzionale all’autonomia negoziale, individuato dalla dottrina nell’art. 41, che tutela l’iniziativa economica privata e dunque indirettamente l’autonomia contrattuale, quale strumento di esercizio della stessa; dall’altro pone ulteriori limiti alla libertà dei contraenti, da individuarsi nei diritti fondamentali della persona.
Anche il diritto comunitario ha giocato un ruolo tutt’altro che secondario nel delineare la disciplina degli atti negoziali, in generale e relativamente a specifici settori. A tal proposito può darsi atto di un’evoluzione interna al diritto comunitario in materia di limitazioni all’autonomia contrattuale. Mentre queste, infatti, in un primo momento erano dettate principalmente da esigenze economiche, di armonizzazione delle legislazioni al fine di facilitare i traffici commerciali, nonché di tutela della concorrenza, nel tempo si è registrata una maggiore sensibilità alla tutela della persona e della sua dignità, oggi sancita dal Tratto di Lisbona e dalla centralità assunta dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (Carta di Nizza) nell’ordinamento comunitario. L’affermarsi di questa concezione personalista del diritto ha portato ad un mutamento degli interventi del legislatore comunitario in materia contrattuale, orientati, oggi, a garantire, non solo la tutela dei traffici commerciali, ma, in primis, il rispetto dei diritti fondamentali della persona.
La disciplina in materia contrattuale può quindi definirsi il risultato di interventi multilivello, che delineano un quadro ben più complesso di quello risultante all’indomani dell’entrata in vigore dell’attuale Codice civile.
La valutazione di conformità del regolamento contrattuale all’ordinamento giuridico nel suo complesso, non può che muovere da un’indagine sulla causa del contratto. Indagine che si pone necessaria, oltre che per i contratti atipici, rispetto ai quali si è sempre data per scontata, anche per i contratti tipici, dato che l’autonomia dei contraenti si esplica anche nella libertà di utilizzare schemi tipizzati dal legislatore per raggiungere finalità in parte differenti da quelle proprie del contratto tipico. Per causa, nell’accezione oggi maggioritaria della c.d. “causa in concreto”, deve intendersi la funzione economico-individuale svolta dal contratto, ossia la sintesi degli interessi che le parti mirano a conseguire con lo stesso. È stata dunque abbandonata la tesi della “causa in astratto” che identificava tale elemento essenziale del contratto, ex art. 1325 c.c., con la funzione economico-sociale dallo stesso svolta, ossi con gli effetti connessi a quel tipo contrattuale e astrattamente perseguibili dalle parti. Oggi si richiede un’indagine che valuti nel concreto, nello specifico del regolamento negoziale considerato, alla luce di una valutazione sostanziale e complessiva dell’operazione negoziale posta in essere dalle parti, gli interessi realmente perseguiti. L’interprete deve formulare un giudizio di meritevolezza sul contratto in esame, per definire se lo stesso persegua interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento (art. 1322 co. 2 c.c.). In tale giudizio, come detto, l’indagine sulla causa gioca un ruolo fondamentale e l’art. 1343 viene in aiuto dell’interprete laddove stabilisce che la causa è illecita, e dunque causa nullità del contratto ex art. 1418 co. 2, laddove è contraria a norme imperative, ordine pubblico o buon costume. Ecco dunque i limiti all’autonomia negoziale sanciti dal Codice. Per norme imperative deve intendersi una categoria aperta di norme, inderogabili dalle parti, in quanto espressione di principi fondamentali dell’ordinamento. Rientrano nel novero di questa categoria, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione in esame, anche le norme costituzionali che tutelano i diritti fondamentali della persona. Con l’espressione “buon costume” si fa invece riferimento alla morale etico-sociale riferibile ad una certa collettività collocata in un contesto spazio – temporale determinato. Esso è un concetto destinato fisiologicamente a mutare nel tempo, con il cambiamento dei costumi e delle sensibilità sociali. Per ordine pubblico si intende invece il complesso di principi fondamentali che contribuiscono a definire le fondamenta del nostro ordinamento giuridico-democratico.
Tradizionalmente la nozione di ordine pubblico è stata intesa in termini prettamente “politici”, con esso riferendosi alle norme generali che definiscono l’assetto democratico del sistema giuridico e che ne individuano i principi fondamentali. Con l’entrata in vigore della Costituzione il concetto di ordine pubblico ha inglobato al suo interno anche i diritti fondamentali della persona, che, alla luce della concezione personalista fatta propria dai padri costituenti, costituiscono oggi, in quanto espressione della dignità umana, i capisaldi del nostro sistema giuridico, nazionale, e comunitario.
Di recente si è assistito ad un’ulteriore evoluzione della categoria, che, recependo le riflessioni del pensiero giuridico di matrice francese, si è altresì specificato nel concetto di ordine pubblico economico, con ciò riferendosi a quei principi che regolano i rapporti tra privati, gli scambi commerciali, quale componente rilevante dell’attività umana, quale espressione rilevante della libertà dell’uomo e della sua capacità di determinarsi e di relazionarsi con i terzi. Allo stesso è attribuita una funzione propulsiva, positiva, di conformazione del mercato e di razionalizzazione dello stesso. All’interno dell’ordine pubblico economico, secondo questi recenti ricostruzioni, sulle quali hanno avuto un influsso notevole gli interventi di diritto comunitario e le normative interne di recepimento, è ulteriormente possibile individuare un ordine pubblico di direzione e un ordine pubblico di protezione. Il primo ricomprende gli interventi normativi finalizzati a definire determinate politiche economiche di settore, come le politiche del credito, e a dettare direttive in materia, al fine di garantire una conformazione alle stesse degli operatori commerciali.
Per ordine di protezione si fa invece riferimento a tutti quegli interventi, in primis in ambito comunitario, ma successivamente anche in ambito nazionale, volti a garantire una tutela efficace delle parti deboli nella transazioni commerciali e nelle fattispecie contrattuali. Ne è un esempio tipico la disciplina dettata a tutela del consumatore, nei contratti conclusi con soggetti professionisti. La particolarità di questa categoria è che essa si compone di norme dettate a tutela, non tanto di interessi generali, come è proprio dell’ordine pubblico nella sua accezione tradizionale, ma di interessi specifici, di categoria. Questo incide su profili della relativa disciplina, come vedremo in materia di tutela dei consumatori con le nullità di protezione. E se in un primo momento la tutela della parte debole era dettata da esigenze meramente economiche, quali la facilitazione degli scambi commerciali, l’uniformazione delle discipline nazionali, oggi il riconoscimento del valore primario della persona e delle sue manifestazioni individuali e sociali ha dato nuovo impulso a questa categoria di norme e principi che mirano a razionalizzare il mercato alla luce di criteri personalistici e di solidarietà sociale.
A ciò segue la messa in crisi, avvenuta già da tempo in realtà, del dogma dell’intangibilità della volontà negoziale dei contraenti e la legittimazione di un controllo più penetrante da parte del giudice sull’equilibrio contrattuale e sulla conformità ai principi di “giustizia contrattuale”. L’equilibrio contrattuale è un concetto che ricomprende al suo interno sia l’equilibrio normativo, riferito alla ripartizione dei diritti e obblighi giuridici tra le parti di un contratto, sia l’equilibrio economico, inteso quale proporzionalità o equivalenza tra il valore economico delle prestazioni assunte dalla parti. Nell’impostazione tradizionale si legittimava un intervento del giudice su situazioni di squilibrio normativo esclusivamente laddove lo stesso fosse il frutto di un processo viziato di formazione della volontà contrattuale, o in presenza di eventi peculiari (come lo stato di bisogno o lo stato di pericolo). Successivamente invece, grazie alla valorizzazione delle categorie di equità e buona fede, nonché all’influenza del diritto comunitario, si è riconosciuta la sindacabilità da parte del giudice dell’equilibrio normativo del contratto, laddove lo stesso sia la risultante di asimmetrie informative, disparità di potere commerciale, al fine di garantire una conformità dell’assetto contrattuale definito dalle parti, o da una di esse, come avviene nei contratti tra professionista e consumatore, ai principi generali dell’ordinamento. In alcuni casi, gli impulsi provenienti dal legislatore comunitario, hanno portato ad estendere il controllo del giudice anche all’equilibrio economico contrattuale. È quanto avvenuto in materia di “terzo contratto”, ossia di contratto stipulato tra due imprenditori o professionisti, dei quali uno risulti in posizione di dipendenza economica rispetto all’altro, per ragioni di ordine prettamente economico-organizzative. La normativa comunitaria ha iniziato a prestare attenzione a queste tipologie di “contraenti deboli” a partire dagli anni ’90. In tale settore, di cui sul piano interno troviamo profili di disciplina interessanti nella Legge sulla subfornitura n. 182/1998, nonché nel decreto lgs. 231/2002 sui ritardi nei pagamenti nelle transazioni commerciali, si ammette la sindacabilità da parte del giudice della proporzionalità del rapporto esistente tra le prestazioni delle parti, per valutare se il contratto risulti eccessivamente sbilanciato a favore di un contraente ed imponga all’altro sacrifici economici eccessivi, che non trovino un’adeguata contropartita.
La disciplina a tutela del consumatore è figlia di questa attenzione del legislatore comunitario per la figura del contraente debole, ossia di quel contraente che, per asimmetrie informative, per difetto di competenze tecniche o commerciali, per mancanza di esperienza, si trovi ad essere in una posizione di subordinazione rispetto al contraente forte, che, in virtù delle informazioni e della competenze di cui è in possesso, può dettare unilateralmente le condizioni contrattuali, rispetto alle quali, per la controparte, non rimarrà che decidere se aderire o meno. E’ questo lo schema tipico che si riproduce nei contratti tra professionista e consumatore, dove per il primo si intende, ai sensi dell’art. 3 co. 1 let. c) del d.lgs. 206/2005 (Cod. Consumo) il soggetto, persona fisica o giuridica, che agisce nell’esercizio della propria attività d’impresa, commerciale o artigianale, professionale, o un suo intermediario; per consumatore si intende invece, come indicato dalla let. a) della medesima disposizione, la persona fisica che agisce per scopi estranei alla sua eventuale attività commerciale, artigianale, imprenditoriale o professionale eventualmente svolta. In ambito comunitario, un primo accenno alla problematica della tutela dei consumatori, è emerso già all’interno del Trattato di Amsterdam e successivamente nel Trattato di Maastricht. Ma per la disciplina organica e specifica sul punto deve attendersi il 1993, anno di emanazione della prima direttiva a tutela dei consumatori, recepita in Italia con Legge n. 52/1996, che introdusse al Titolo II del Libro IV del Codice Civile il capo XIV bis rubricato “Dei contratti del consumatore”. La disciplina, oggetto successivamente di modifiche ed integrazioni, venne coordinata e condensata in un unico testo legislativo, il d.lgs. 206/2005, che diede vita al Codice del Consumo. La disciplina in esso contenuto prende atto dell’esistenza di una serie di contratti in cui viene a mancare, per la loro stessa natura, la condizione di parità tra le parti contrattuali, considerato un caposaldo delle teorie economiche liberali che si limitavano a garantire l’eguaglianza formale dei contraenti, senza verificare l’esistenza di elementi in grado di ostacolare una reale parità di ruoli. Nell’ottica di uno Stato sociale, che ha quale scopo quello di eliminare gli ostacoli che di fatto limitano la libertà e l’eguaglianza dei cittadini (art. 3 co. 2 Cost), il legislatore è chiamato a farsi carico di tali differenze, laddove si manifestino all’interno di un regolamento negoziale, e ad introdurre nel sistema giuridico gli strumenti atti a ricondurre ad equilibrio il contratto.
In sintesi, gli strumenti introdotti dal legislatore comunitario, e quindi da quello nazionale, al fine di tutela la parte debole del rapporto nei contratti de quo possono ravvisarsi, da un lato nella previsione di pregnanti oneri d’informazione in capo al professionista; dall’altro nel diritto di recesso riconosciuto in capo al consumatore, e da ultimo nella disciplina delle clausole vessatorie e nei rimedi approntati avverso di esse. Tali previsioni mirano a ridurre l’asimmetria esistente, fisiologicamente, tra le due parti contrattuali, e a fornire al consumatore gli strumenti necessari ad ottener tutela avverso situazioni di abuso .
Per quanto riguarda l’onere d’informativa posto a carico del professionista, gli artt. 5 e ss. del Codice del Consumo stabiliscono dettagliatamente una serie di obblighi relativi alla forma e al contenuto dell’informazione. La forma, in questo contesto, assume un ruolo centrale, in quanto costituisce strumento per portare a conoscenza del consumatore una serie di aspetti del regolamento contrattuale. Alla luce di questo neo-formalismo comunitario, l’istituito della forma ha finito per mutare natura e funzione rispetto a quella originariamente assunta nella prospettiva propria del Codice Civile: da regola eccezionale e posta a tutela di interessi generali, a regola generale posta a tutela degli interessi del contraente debole. L’art. 5 co. 3 prevede, al riguardo, che le informazioni risultino adeguate alla tecnica di comunicazione impiegata dal professionista, siano espresse in modo chiaro e comprensibile, alla luce delle caratteristiche del settore e delle modalità di conclusione del contratto. Tali precisazioni mirano a garantire che l’informazione sia fornita in modo tale da risultare comprensibile da parte del consumatore e di consentire il formarsi di una consapevolezza in capo allo stesso circa la natura e gli effetti del contratto che lo stesso sta per concludere. Le informazioni hanno ad oggetto, oltre alle caratteristiche del prodotto o servizio oggetto del contratto, altresì i diritti di cui il consumatore gode. Il legislatore ha previsto apposite sanzioni amministrative per la violazione del dovere de quo oltre a specifiche ipotesi di responsabilità.
Per rafforzare ulteriormente la posizione del consumatore e sottrarre costui ad eventuali abusi della controparte, il legislatore ha attribuito al primo un diritto di recesso, la cui disciplina deroga ai principi generali in materia di recesso fatti tradizionalmente propri dal nostro ordinamento. Gli ordinamenti civilistici di tradizione romanistica, come il nostro, mostrano un certo disfavore nei confronti dell’istituto in esame, che costituisce un’eccezione alla valenza generale del principio “pacta sunt servanda” e dell’efficacia vincolante del contratto, ex art. 1372 c.c. Costituisce applicazione di tale principio la subordinazione, ex art. 1373 c.c., dell’esercizio dello ius poenitendi, all’esistenza nel contratto di una previsione pattizia che attribuisca tale facoltà ad una o entrambe le parti, e a condizione che il contratto non abbia avuto un principio di esecuzione. Si prevede inoltre la possibilità per le parti di stabilire un corrispettivo per il recesso, una sorta di prezzo dello ius poenitendi, per controbilanciare il disagio che la controparte interessata al mantenimento del vincolo dovrà subire. In modo diametralmente opposto, nei contratti tra consumatore e professionista, il Codice del Consumo prevede, a favore del primo, un diritto generale di recesso, che trova il suo fondamento in una norma di legge, l’art. 52 Cod. Cons., e non in una previsione pattizia. Tale diritto può essere esercitato alle condizioni e nei termini stabiliti ex lege. Inoltre, quale ulteriore deroga alla disciplina civilistica ordinaria, si esclude che il consumatore debba sostenere dei costi per l’esercizio di questo diritto, ad eccezione di quelli di natura restitutoria previsti dall’art. 57. Il consumatore ha inoltre diritto ad essere informato, da parte del professionista, su tale facoltà ad esso spettante ex lege. La violazione di tale obbligo da parte di quest’ultimo, comporta un allungamento dei termini ordinari per esercitare il diritto di recesso, ai sensi dell’art. 53 Cod. Cons.
Infine, gioca un ruolo fondamentale, nell’operazione di riequilibrio dell’assetto contrattuale, la disciplina delle clausole vessatorie, dettata dagli artt. 33 e ss. In primis, possono definirsi vessatorie quelle clausole che, “malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto” (art. 33 co.1 Cod. Cons.). Come si evince dalla disposizione appena citata, il giudizio di vessatorietà prende in considerazione il solo equilibrio normativo del contratto, facendo riferimento espresso ai soli “diritti e obblighi”, e non anche l’equilibrio economico. Ne è una conferma il disposto di cui all’art. 34 co. 2, che stabilisce che la valutazione del carattere vessatorio di una clausola non deve effettuarsi con riguardo alla determinazione dell’oggetto contrattuale o all’adeguatezza del corrispettivo. Unica ipotesi in cui si ammette un sindacato giudiziale altresì sull’equilibrio economico del contratto, si ha nel caso in cui l’oggetto e il corrispettivo non siano individuati in modo chiaro e comprensibile. In tal caso dunque l’obbligo informativo posto a carico del professionista si trasforma da regola di comportamento, in grado di far sorgere un’ipotesi di responsabilità precontrattuale, a regola di validità, la cui violazione comporta una dichiarazione di nullità della clausola relativa all’oggetto o al prezzi, ex art. 36 co.1. La nullità in questione rappresenta una forma di tutela, la più pregnante, per il consumatore avverso le clausole vessatorie. Essa si definisce “nullità di protezione” e rappresenta una sottocategoria della più ampia e generale categoria della nullità, pur con alcune peculiarità di disciplina che la differenziano da quest’ultima. Differenza più rilevante è indubbiamente quella in punto di legittimazione attiva. Mentre infatti la nullità, oltre che rilevabile d’ufficio, può essere eccepita da chiunque vi abbia interesse, l’art. 36 co. 3 stabilisce la legittimazione relativa ad esperire l’azione di nullità in capo al solo consumatore e ne prevede la rilevabilità ex officio dal giudice, ma solo a condizione che la stessa risulti conforme all’interesse del consumatore. Inoltre la nullità in esame è una nullità parziale, che colpisce cioè solo la clausola definita vessatoria, e lascia in vita ciò che resta del regolamento negoziale.
Per alcune clausole il legislatore ha stabilito una presunzione di vessatorietà, che è relativa per le clausole elencate all’art. 33 co. 2 ed assoluta per quelle di cui all’art. 36 co. 2. Per quanto riguarda le prime, è onere del professionista superare la suddetta presunzione, dimostrando che le clausole hanno costituito oggetto di trattativa individuale, ossia che sulle stesse via sia stata una discussione con il consumatore, questi ne abbia potuto prendere consapevolezza e discutere di eventuali modifiche, e le abbia, da ultimo, accettate.
Avverso le clausole in esame, oltre la tutela apprestata tramite l’istituto della nullità di protezione, il Codice del consumo ha previsto ulteriori strumenti di tutela, ai quali in questa sede si può solo accennare. Essi devono individuarsi nell’azione inibitoria, di cui all’art. 37 Cod. Cons., concessa alle associazioni rappresentative dei consumatori, o dei professionisti, nonché alle Camere di commercio, al fine di adire il giudice affinché questi inibisca l’uso di clausole ritenute vessatorie da parte di professionisti o associazioni di professionisti. È altresì prevista una tutela di tipo amministrativa, ex art. 37 bis, che consente di ricorrere all’Autorità Garante della concorrenza e del mercato per far dichiarare la vessatorietà di clausole inserite nei contratti tra professionisti e consumatori. Infine sono previste due particolari tipologie di azioni giudiziali dal Titolo II della Parte V del Codice, delle quali, la prima, disciplinata dagli artt. 139 e 140, può essere esercitata dagli enti rappresentativi della categoria dei consumatori, a tutela degli interessi collettivi della categoria; la seconda, disciplinata dall’art. 140 bis (introdotto nel 2008), va sotto il nome di class action e può essere esercitata oltre che dai singoli consumatori, anche da associazioni o comitati a cui essi diano rappresentanza, per la tutela di interessi individuali omogenei dei consumatori, ovvero per la tutela di interessi collettivi della categoria.
Gli aspetti della disciplina in materia di contratti dei consumatori, fin qui esaminati, mettono in luce lo sforzo compiuto dal legislatore, comunitario e nazionale, per ripristinare un equilibrio tra le parti nei contratti c.d. “asimmetrici” e per garantire una conformità dell’assetto contrattuale ai principi generali dell’ordinamento, come delineatisi nel tempo alla luce dell’interazione multilivello tra le diversi fonti normative.