Responsabilità patrimoniale delle associazioni non riconosciute, dei partiti politici e sottoponibilità a fallimento delle fondazioni d’impresa

Responsabilità patrimoniale delle associazioni non riconosciute, dei partiti politici e sottoponibilità a fallimento delle fondazioni d’impresa

La responsabilità delle associazioni non riconosciute è, indubbiamente, il tratto di maggior differenza con le associazioni che hanno ottenuto il riconoscimento di persone giuridiche.

In via preliminare, si dà atto che il diritto di associarsi è riconosciuto espressamente dall’art. 18 Cost.: la disposizione, infatti, stabilisce che i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale, con il divieto di istituire associazioni segrete e quelle che perseguono scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare.

In entrambi i casi, i partecipanti, nell’esercizio del diritto di associarsi, nonché in ossequio alla propria autonomia contrattuale privata (art. 1322 c.c.), possono stipulare il contratto associativo, riconducibile al cd “contratto aperto” di cui all’art. 1332 c.c. Infatti, qualunque soggetto, purché sia in possesso dei requisiti indicati nell’atto costitutivo, può manifestare la volontà di aderire al contratto associativo. A tal proposito, i criteri di partecipazione nonché lo scopo dell’associazione possono essere liberamente fissati, purché non siano contrari a norme di legge o all’ordine pubblico. Con la precisazione, però, che l’atto costitutivo delle associazioni riconosciute deve rivestire la forma di atto pubblico (art. 14 c.c.)

Premesso ciò, come si è accennato, la maggiore differenza tra enti riconosciuti e non riconosciuti si coglie sotto il profilo della responsabilità patrimoniale.

Gli enti che hanno ottenuto il riconoscimento, infatti, godono della cd autonomia patrimoniale perfetta: il patrimonio dell’ente è nettamente separato rispetto a quello dei singoli soci. Di conseguenza, i creditori societari possono soddisfare le proprie pretese soltanto sul patrimonio dell’ente e giammai sui patrimoni dei singoli soci. Viceversa, i creditori personali dei partecipanti possono rivalersi soltanto sui patrimoni di questi ultimi, senza poter escutere il patrimonio associativo.

Gli enti non riconosciuti, invece, godono di un autonomia patrimoniale soltanto imperfetta: l’art. 38 c.c., infatti, stabilisce che per le obbligazioni assunte “dalle persone che rappresentano l’associazione”, i terzi possono far valere i loro diritti sul fondo comune, con la precisazione, però, che di tali obbligazioni rispondono anche “le persone che hanno agito in nome e per conto delle associazioni”.

Tale rigorosa responsabilità patrimoniale si giustifica alla luce di molteplici elementi. In via preliminare, viene in rilievo la mancanza di separazione tra i due patrimoni, separazione che discende dal riconoscimento della personalità giuridica, che qui difetta. Ancora, dall’assenza di riconoscimento deriva una mancanza di pubblicità legale del patrimonio dell’associazione: di conseguenza, soltanto la previsione della responsabilità solidale del fondo e dei singoli associati è idonea a tutelare l’affidamento nel soddisfacimento delle proprie pretese da parte dei terzi creditori. E, a tal proposito, non a caso l’art. 38 c.c. non menziona “gli amministratori o i rappresentanti”, ma coloro “che hanno agito in nome e per conto dell’associazione”. Pertanto, ciò che configura la responsabilità non è la carica di amministratore oppure aver assunto un formale incarico gestorio, ma l’aver concretamente agito in nome e per conto dell’associazione.

Di conseguenza, circa la natura di tale responsabilità – palesemente personale e solidale con il patrimonio comune – dottrina e giurisprudenza sono solite inquadrarla nelle ipotesi di responsabilità ex lege, nello specifico riconducendola alla fideiussione, pertanto considerando il terzo contraente come creditore garantito.

Altresì, dalla predetta natura personale di tale responsabilità discende la non trasmissibilità al successore particolare nella posizione giuridica di chi, originariamente, ha agito in nome e per conto dell’associazione.

Infine, meritano un piccolo accenno i profili concernenti l’onere probatorio, che, in base ai principi generali, non può che gravare su chi fa valere il diritto, ossia il terzo creditore. Poiché, come si è avuto già modo di sottolineare, la responsabilità non è collegata alla rappresentanza dell’associazione ma alla concreta attività svolta, sarà allora onere del creditore provare che l’obbligazione è stata contratta in nome e per conto dell’associazione. Di conseguenza, anche colui che gestisce la società soltanto in via di fatto, senza essere investito da una rappresentanza formale, potrà essere chiamato a rispondere solidalmente e personalmente se ha concretamente agito in nome e per conto dell’associazione medesima.

Ebbene, un’associazione riconducibile al novero di quelle non riconosciute è senz’altro il partito politico.

Deve necessariamente premettersi che i partiti politici godono di una rilevanza costituzionale “doppia”: infatti, oltre alla generale riconducibilità all’articolo 18, essi sono espressamente menzionati nell’arti. 49, che riconosce il diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale.

La scelta dei Padri Costituenti di riconoscere la pluralità dei partiti corrisponde ad una precisa volontà di porsi in una posizione di discontinuità rispetto al precedente regime fascista caratterizzato dal partito unico, che rendeva perciò impossibile e irrealizzabile qualunque confronto politico democratico.

Ed invero, nonostante la riconducibilità dei partiti politici alle associazioni non riconosciute, la responsabilità dei medesimi si atteggia in modo parzialmente differente rispetto alla generale responsabilità delle associazioni non riconosciute sopra esposta. Infatti, l’art. 6bis L. 157/97 stabilisce che i creditori dei partiti non possono agire contro gli amministratori di questi ultimi per l’adempimento delle obbligazioni contratte se gli amministratori medesimi non hanno agito con dolo o colpa grave.

Emerge chiaramente come la voluntas legis sia di tutelare e rafforzare le associazioni politiche, le quali rivestono un ruolo di indubbio rilievo istituzionale nella programmazione dell’indirizzo politico del Paese. Pertanto, il soddisfacimento delle pretese dei creditori del partito è limitato ad uno​ specifico ambito applicativo​ oggettivo (soltanto le obbligazioni contratte dagli amministratori) e soggettivo (dolo o colpa grave).

E pur tuttavia, proprio l’ambito applicativo ristretto di tale disposizione comporta l’impossibilità di escludere a priori l’operatività nei confronti dei partiti politici del generale regime di responsabilità delle associazioni non riconosciute di cui all’art. 38 c.c.

Come si è già chiarito, l’art. 38 c.c. – oltre a non fare riferimento ad alcun elemento psicologico – non menziona gli amministratori dell’associazione, ancorando la responsabilità al solo aver agito in nome e per conto dell’associazione medesima. Di converso, il citato art. 6 bis individua, oltre al predetto elemento psicologico, una categoria di soggetti responsabili ben precisi, ossia gli amministratori. Se così è, allora le due norme non sono incompatibili, ma semplicemente rivolte a regolare un ambito applicativo diverso. Così opinando, qualora l’obbligazione sia stata contratta dall’amministratore del partito, troverà applicazione la legge del ‘97, con conseguente onere del creditore di provare il dolo o la colpa grave di quest’ultimo. Se, invece, l’obbligazione è stata assunta in nome e per conto del partito da chi non ricopre il ruolo di amministratore, troverà applicazione la disciplina generale di cui all’art. 38 c.c.

Se così è, appare allora di primaria importanza decodificare con attenzione il termine “amministratori”, al fine di individuare correttamente il regime di responsabilità applicabile.

Una prima tesi offre un’interpretazione ampia, definendo come “amministratori” non soltanto coloro investi di tale qualifica dall’atto costitutivo, ma anche chi agisce per il perseguimento delle finalità istituzionali del partito.

Tale interpretazione è avversata da un secondo orientamento, che ritiene che una lettura così estensiva comporterebbe un abrogazione tacita dell’art. 38 c.c., che quindi non troverebbe mai applicazione. Altresì, gli associati “non amministratori” andrebbero incontro ad un regime di responsabilità completamente differente a seconda se fanno parte di una associazione politica o non politica, con un vulnus al principio di uguaglianza ex art. 3 Cost. Infine, la difficile prova dell’elemento psicologico frusterebbe non poco le esigenze di accesso al credito.

Per tali ragioni, la seconda tesi ermeneutica riconosce la qualifica di “amministratori” soltanto a coloro i quali sono qualificati come tali direttamente dallo statuto del partito, in quanto investiti da precisi compiti politici, consistenti nella realizzazione delle finalità del partito medesimo, nonché investiti del potere di manifestare la volontà del partito all’esterno. Soltanto in tali ipotesi opererà il regime di responsabilità più favorevole per il partito, poiché subordinato alla prova del dolo o della colpa grave. Qualora, invece, l’obbligazione non sia stata assunta da un amministratore nel senso sopra chiarito troverà applicazione l’art. 38 c.c., pertanto il creditore dovrà provare solamente l’assunzione dell’obbligazione in nome e per conto del partito.

Ebbene, da quanto esposto emerge palesemente lo stretto collegamento tra regime di responsabilità patrimoniale e riconoscimento della personalità giuridica. Infatti, soltanto le associazioni riconosciute godono di autonomia​ patrimoniale perfetta, che permette ai partecipanti di mantenere il proprio patrimonio separato da quello dell’associazione.

Ed invero, dottrina e giurisprudenza consolidate concordano nel ritenere disapplicabili le norme che riconoscono la personalità giuridica ogni qualvolta se ne riscontra un abuso, al fine non soltanto di applicare un regime di responsabilità patrimoniale più severo ma soprattutto al fine di provocarne il fallimento dell’associazione. E ciò si è riscontrato soprattutto con riguardo ad una figura associativa ben specifica: le fondazioni di impresa.

Com’è noto, le fondazioni sono associazioni riconosciute che non perseguono finalità di lucro (e quindi di distribuzione di utili) bensì finalità altruistiche e “no profit”, differenziandosi così dalle società.

Ebbene, è stata ritenuta ammissibile una “fondazione di impresa”, cioè una fondazione che svolga anche un’attività commerciale, purchè però tale attività non miri ad una distribuzione di utili, ma sia rivolta esclusivamente a finanziarsi e ad ottenere liquidità per il raggiungimento dello scopo no profit. Poiché, quindi, lo scopo altruistico resta lo scopo principale, la fondazione potrà continuare a beneficiare del regime più favorevole discendente dal suo status di fondazione no profit riconosciuta.

A conclusioni opposte deve giungersi qualora l’associazione sia da configurarsi come fondazione d’impresa tout court poiché persegue lo scopo di lucro come scopo principale, svolgendo, quindi, esclusivamente un’attività commerciale. In tale ipotesi, la scelta del modello di fondazione piuttosto di quello più appropriato di società si spiega in ragione della volontà di ottenere vantaggi altrimenti negati. Le fondazioni, infatti, non soltanto non sono soggette all’obbligo di tenuta delle scritture contabili e di redigere il bilancio, ma, soprattutto, non sono sottoponibili al fallimento, al quale sono esposte le sole imprese commerciali (art. 1. R. D. 267/42).

Di conseguenza, l’esigenza di impedire condotte abusive e, soprattutto, di tutelare l’affidamento dei terzi contraenti con l’apparente fondazione, hanno indotto dottrina e giurisprudenza a far ricorso all’abuso della personalità giuridica al fine di sottoporre al fallimento la fondazione di impresa e i suoi partecipanti.

L’abuso della personalità giuridica è da ricondurre al più generale abuso del diritto, che, come è noto, nonostante la mancanza di un divieto discendente espressamente da una norma, è ormai ritenuto clausola generale dell’ordinamento, ricavabile dai principi di buona fede, correttezza, lealtà e solidarietà.

Si ha infatti abuso quando un diritto – riconosciuto dall’ordinamento – viene esercitato in modo formalmente conforme all’ordinamento, ma, in realtà, sostanzialmente in contrasto con lo scopo per il quale è stato conferito, oppure per uno scopo diverso oppure in modo sproporzionato rispetto alle finalità perseguite. L’ordinamento sanziona l’abuso con la disapplicazione delle norme che riconoscono e tutelano quel diritto, con il conseguente disconoscimento dei vantaggi che deriverebbero da un esercizio del diritto conforme ai parametri dell’ordinamento. In altre parole, l’abuso rende quel diritto non più meritevole di tutela.

Applicando tale principio alle fondazioni di impresa, si ha abuso della personalità giuridica qualora la fondazione eserciti un’attività in contrasto oppure diversa rispetto a quella per la quale era stato concesso il riconoscimento.

Se, pertanto, la fondazione ha ottenuto il riconoscimento per lo svolgimento di un’attività non lucrativa (beneficenza, scientifica, culturale, di ricerca, ecc…) e risulta, invece, in concreto, l’esercizio di un’attività di impresa come attività esclusiva, sarà configurabile un abuso. Analoga conclusione è da ravvisarsi nell’ipotesi in cui l’attività di impresa era stata originariamente concepita come solamente strumentale all’autofinanziamento e poi è divenuta attività esclusiva.

Di conseguenza, l’abuso rende disapplicabili le norme sul riconoscimento della personalità giuridica e, tramite il superamento dello schermo di tale personalità, la fondazione perde il beneficio discendente dal diritto (il riconoscimento) del quale ha fatto un uso distorto: la responsabilità patrimoniale limitata e l’autonomia patrimoniale perfetta. In conseguenza di ciò, non vi sarà netta separazione tra patrimonio della fondazione e patrimonio dei singoli partecipanti, i quali quindi risponderanno delle obbligazioni contratte in nome e per conto dell’associazione in via personale e solidale con il patrimonio comune. Ancora, in caso di insolvenza, la mancata separazione rende sottoponibile al fallimento sia l’apparente fondazione sia coloro i quali hanno agito in nome e per conto della medesima.

In via di conclusione, al termine della complessa disamina, emerge come la più rigida responsabilità patrimoniale delle associazioni riconosciute (inclusi i partiti nel senso sopra chiarito) sia a garanzia dei terzi creditori. Ma un affidamento in tal senso può venire in rilievo anche nell’ambito delle associazioni riconosciute, ogni qualvolta si configuri un abuso, come per esempio nelle ipotesi di fondazioni di impresa. Occorrerà pertanto un attento lavoro di interpretazione al fine di individuare il confine oltre il quale il riconoscimento, a causa dell’abuso, non è più meritevole di tutela.

G. M.

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