Rilevanza degli accordi degli associati nell’ambito degli enti riconosciuti, con particolare riguardo al problema dell’esclusione dell’associato e all’applicabilità di sanzioni disciplinari

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Il diritto di associarsi liberamente per raggiungere determinati scopi è un diritto fondamentale di ogni soggetto dell’ordinamento giuridico, riconosciuto e tutelato addirittura a livello costituzionale. L’art. 2, infatti, garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia “nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”. Ancora più specifico appare l’art. 18 che stabilisce che i cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini non vietati dalla legge penale, con il divieto, altresì, di dar vita ad associazioni segrete e a quelle che perseguono scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare.

Ebbene, ferma restando la diffusione ormai ampia del fenomeno associativo in tutti i rami dell’ordinamento, è doveroso soffermarsi sulla portata di tale fenomeno nell’ambito del diritto privato.

In tale settore, infatti, ai singoli è riconosciuta la facoltà di accordarsi per i più disparati scopi (di lucro o anche di utilità sociale) dando così vita ad un ente giuridico. A loro volta, gli enti si possono distinguere in riconosciuti e non riconosciuti, distinzione tutt’altro che teorica per le importanti conseguenze giuridiche che ne derivano.

E, difatti, gli enti che ottengono il riconoscimento di persone giuridiche, saranno considerati, al pari delle persone fisiche, titolari di diritti e di doveri, con capacità giuridica e capacità di agire. Pertanto, gli enti riconosciuti si considerano centri di imputazione di diritti e doveri autonomi rispetto ai propri partecipi. Da qui, la conseguenza indubbiamente più importante è il riconoscimento della cd. “autonomia patrimoniale perfetta”: gli associati risponderanno dei debiti contratti dall’ente soltanto con il patrimonio societario, senza che i loro patrimoni personali possano essere intaccati dai creditori dell’ente. Viceversa, i creditori personali dei singoli soci possono rivalersi soltanto sui patrimoni di questi ultimi, con l’impossibilità di escutere il patrimonio dell’associazione.

Gli enti non riconosciuti, invece, non hanno richiesto o ottenuto il riconoscimento e, pertanto, non potranno considerarsi persone giuridiche. In via conseguenziale, essi non sono centri giuridici autonomi rispetto agli associati, potendo usufruire di un’autonomia patrimoniale soltanto “imperfetta”: i creditori societari, infatti, possono far valere le proprie ragioni anche sui patrimoni dei singoli, se pur soltanto dopo la previa escussione del patrimonio societario. Ancora, nonostante tali enti non possano considerarsi persone giuridiche, hanno comunque soggettività giuridica e sono, di conseguenza, titolari di diritti e di doveri riconosciuti dall’ordinamento.

Ed invero, nonostante le indubbie differenze, enti riconosciuti e non riconosciuti presentano un aspetto in comune di primaria importanza: la natura contrattuale dell’accordo associativo. È infatti innegabile che i singoli abbiano deciso di dar vita ad una associazione comune tramite l’esercizio della propria autonomia contrattuale ex art. 1322 c.c. E ancora, l’accordo associativo non è altro che un’ipotesi significativa di “contratto aperto” ai sensi dell’art. 1332 c.c., poiché al contratto di associazione possono aderire, in futuro, altri soggetti interessati. Se così è, allora il contratto di associazione sarà sottoposto alla disciplina del contratto in generale, di cui agli artt. 1321 e ss c.c.

Or dunque, a tal punto della trattazione, prima di proseguire oltre, si impone, ai fini di una maggiore comprensione, una breve disamina della disciplina codicistica prevista in tema di associazioni riconosciute, per l’indubbio ruolo da esse rivestito nell’ordinamento giuridico.

Le associazioni, infatti, devono essere costituite con atto pubblico (art. 14 c.c.). Gli organi necessari dell’associazione sono l’amministratore (organo rappresentativo) e l’assemblea (organo esecutivo).

Il codice, dopo aver dedicato una compiuta disciplina alle ipotesi di responsabilità dell’amministratore e alle modalità di deliberazione dell’assemblea, analizza anche i casi di estinzione dell’ente, in modo particolare in materia di liquidazione e devoluzione dei beni residui.

Premesso ciò, se, come si è visto, il contratto che dà vita all’ente è da ricondursi al contratto per adesione, allora meritano attenzione le condizioni previste perché l’aspirante associato possa partecipare alla compagine associativa.

L’art. 16 c.c., infatti, stabilisce che l’atto costitutivo e lo statuto devono contenere la denominazione dell’ente, l’indicazione dello scopo, del patrimonio e della sede, nonché le norme sull’ordinamento e sull’amministrazione. Altresì, essi devono contenere i diritti e gli obblighi degli associati e le condizioni della loro ammissione.

E, a tal proposito, occorre bilanciare, da un lato, la volontà dei singoli di entrare a far parte dell’associazione, dall’altro lato, l’interesse dell’ente di selezionare soltanto quei candidati realmente meritevoli, poichè possiedono le competenze e le qualifiche necessarie per assicurare il raggiungimento degli obiettivi prefissati dallo statuto.

Se così è, innanzitutto deve negarsi che l’aspirante associato possa vantare un vero e proprio diritto all’ammissione, dovendo considerarsi pienamente legittimo il diniego dell’ammissione qualora il richiedente non possieda i requisiti richiesti. Nello stesso tempo, però, tali requisiti non possono essere pretestuosi o meramente arbitrari, dovendo presentare un contenuto obiettivo e ragionevole, dovendo essere unicamente rivolti ad assicurare il perseguimento degli scopi programmati tramite la selezione degli aspiranti associati realmente in grado di assicurarne il soddisfacimento.

Ed invero, il predetto bilanciamento appare ancora più doveroso nel caso di esclusione dell’associato, apparendo tale atto particolarmente afflittivo.

A tal proposito, l’art. 24 comma 3 c.c. si limita a stabilire che l’esclusione dell’associato può avvenire soltanto “per gravi motivi”, con facoltà dell’associato di adire l’autorità giudiziaria entro sei mesi dalla notifica. Ed invero, il contenuto palesemente lacunoso della disposizione può essere sanato tenendo in considerazione la natura contrattuale già evidenziata dell’accordo associativo.

Se, infatti, all’accordo associativo deve riconoscersi natura di contratto per adesione, allora non soltanto l’intero rapporto associativo ha natura contrattuale ma anche tutte le vicende che in qualche modo incidono su di esso, compresa la delibera assembleare di esclusione. E allora, l’autorità giudiziaria, chiamata in sede di reclamo del socio escluso, non potrà di certo sostituirsi all’assemblea nel valutare la fondatezza dell’esclusione, pena un’ingerenza eccessiva e non autorizzata nell’autonomia privata. Ma qualora l’A. G. ritenesse incongrua la motivazione oppure la stessa esclusione del tutto arbitraria o discriminatoria, quindi in contrasto con i principi di buona fede, correttezza, lealtà, solidarietà (artt. 1375, 1175 c.c. e 2 Cost.), allora potrà dichiararne l’invalidità, servendosi delle norme codicistiche in tema di invalidità del contratto (per esempio dichiarando la nullità per difetto di causa o per causa illecita). Ancora, il predetto bilanciamento tra diritti dei soci e interessi societari impone che l’atto di esclusione sia sorretto da una motivazione particolarmente analitica e rigorosa. Pertanto, la delibera assembleare di esclusione non potrà limitarsi a richiamare in modo generico o parziale i motivi di esclusione, dovendo, al contrario, indicare i medesimi in modo specifico e puntuale. Ancora, ai fini della legittimità dell’atto di esclusione, tali motivi devono essere necessariamente “gravi”: un grave inadempimento (da valutarsi alla stregua dell’art. 1455 c.c.), una causa di indegnità oppure la perdita comprovata e definitiva delle condizioni di ammissione.

Infine, si dà atto di una tendenza pretoria a riconoscere la validità delle clausole statutarie che devolvono tutte le controversie associative ad un comitato interno, qualificando la relativa controversia come un arbitrato irrituale. A dire il vero, la prassi è fortemente criticata dalla dottrina, che ritiene giammai qualificabile tale comitato come arbitro, attesa la mancanza assoluta di terzietà ed imparzialità. Pertanto, tali clausole violerebbero palesemente il diritto di difesa e il diritto ad un giusto processo dinanzi a un giudice terzo e imparziale di cui agli artt. 24, 103 e 113 Cost.

Ancora più problematica è l’applicazione delle sanzioni disciplinari, facoltà, anche questa, demandata ad uno specifico comitato esecutivo interno.

La mancanza di terzietà viene, in tale ipotesi, sanata innanzitutto prevedendo che la sanzione possa essere comminata soltanto in presenza di una violazione individuata nello statuto o nel codice disciplinare e soltanto a seguito della contestazione dell’addebito. A sua volta, l’addebito non può limitarsi ad un richiamo generico della violazione, dovendo formulare la stessa in termini chiari e precisi, motivando, altresì, sulle ragioni che ostano alla prosecuzione del rapporto associativo.

Infatti, soltanto l’esatta conoscenza della violazione oggetto di contestazione è idonea ad assicurare al soggetto destinatario una effettiva difesa nonché l’esatta instaurazione del contraddittorio. Ancora, qualora si aderisse alla tesi secondo la quale il giudizio di emanazione del provvedimento sanzionatorio è da qualificare come arbitrato irrituale, allora esso sarà impugnabile dal socio inciso illegittimamente dalla sanzione ai sensi dell’art. 808 ter comma 2 n. 5 c.p.c., ossia “se non è stato osservato nel procedimento arbitrale il principio del contraddittorio”.

Soltanto così opinando si bilancia il potere di “autodichia” con le garanzie processuali costituzionali.

Da quanto esposto sino ad ora, emerge come l’affermazione della rilevanza contrattuale dell’accordo associativo se, da un lato, ha comportato il riconoscimento ai soci della più ampia autonomia contrattuale, dall’altro lato ne ha subordinato la validità a quei principi ritenuti ormai invalicabili anche per l’autonomia contrattuale e che giustificano, seppur con i dovuti limiti, un sindacato del giudice sul contratto, al fine di eliminare la frizione con l’ordinamento. Or dunque, qualora il provvedimento di esclusione o sanzionatorio sia in contrasto con i principi di buona fede, correttezza, solidarietà, parità di trattamento e diritto al contraddittorio esso potrà essere dichiarato dal giudice invalido oppure nullo.

In un’ottica di maggiore tutela, l’interessato potrà, qualora ritenga che il provvedimento configuri un illecito aquiliano, chiedere il relativo risarcimento del danno. L’associato dovrà quindi provare, ai sensi dell’art 2043 c.c., innanzitutto il carattere vessatorio o arbitrario del provvedimento di esclusione o sanzionatorio, che ha leso la sua dignità personale o comunque un diritto inviolabile dell’uomo (serietà della lesione) comportando un vulnus ritenuto dall’ordinamento eccessivo in quanto superiore rispetto alla soglia di normale tollerabilità, da effettuarsi in base ai suindicati principi di solidarietà (gravità del danno), qualora chieda il risarcimento del danno non patrimoniale, da ravvisarsi nelle sofferenze subite a causa dell’illegittima esclusione/sanzione. Ancora, è a carico dell’associato la prova dell’elemento psicologico (dolo o almeno colpa) dell’assemblea nonché il nesso di causalità tra fatto e danno. Ovviamente, resta ferma la risarcibilità del danno patrimoniale, eventualmente subito e provato.

Per finalità di completezza, sì dà atto che un danno ingiusto che viene frequentemente in rilievo in ambito associativo è il danno “da discriminazione”.

Tale danno ha fatto il suo ingresso nell’ordinamento italiano grazie all’influsso dell’Unione Europea che, in prima battuta, all’art. 3 parag. 3 comma 2 TUE stabilisce che “l’Unione combatte l’esclusione sociale e le discriminazioni”. Ma il diritto unionale è intervenuto in materia anche con una vasta gamma di direttive, recepite debitamente dall’ordinamento italiano. A titolo esemplificativo, il d.lgs 215/2003 sancisce il principio di parità di trattamento, vietando le pratiche rivolte a trattare una persona meno favorevolmente, per le sue condizioni personali, rispetto ad un’altra (discriminazione diretta) nonché le pratiche apparentemente neutre che celano in realtà una discriminazione (discriminazione indiretta). Ancora, il d.lgs 286/98 definisce discriminazione qualsiasi comportamento operante distinzioni e limitazioni a causa di condizioni personali del singolo.

Ebbene, nonostante, in un primo momento storico, si ritenesse che il divieto discriminazione operasse soltanto nei contratti di scambio e soltanto in ipotesi di dichiarazione rivolta al pubblico, oggi si ritiene esistente un diritto antidiscriminatorio, operante nell’intero ambito contrattuale, che invero non limita l’autonomia negoziale ma viceversa la tutela, lasciando che essa si esplichi nel modo più ampio possibile.

È evidente, infatti, che il singolo atto di discriminazione impedisce ai consociati di realizzare la propria personalità nell’ambito dei propri interessi e delle proprie aspirazioni, con una evidente sofferenza anche del sistema. Se così è, allora il diritto antidiscriminatorio trova applicazione non soltanto nella fase genetica del contratto ma anche in quella della sua esecuzione, compreso il potere di scioglimento dal vincolo contrattuale.

Quindi, tornando all’ipotesi oggetto di trattazione, qualora l’associato venisse escluso per motivi discriminatori (per esempio razziali o religiosi) l’esclusione configurerà un illecito aquiliano, con contestuale obbligo di risarcimento del danno.

Per completezza, merita un piccolo accenno il “quantum debeatur” del danno risarcibile, danno che, quasi sempre, si atteggia come non patrimoniale, ferma restando, nel caso oggetto di trattazione, la possibilità di richiedere il ristoro del mancato incremento patrimoniale che l’associato avrebbe conseguito in mancanza della discriminazione. Con riguardo al danno non patrimoniale, esso, generalmente viene rapportato al “valore e economico dell’affare” e non alla gravità dell’offesa arrecata, con grande biasimo di quell’orientamento che ritiene tale tecnica risarcitoria non conforme alla natura punitiva del danno da discriminazione e, più in generale, con quella del danno non patrimoniale, a sua volta punitiva.

Comunque sia, in conclusione della presente disamina, emerge come i principi e i doveri di solidarietà nonché il divieto di discriminazione devono ricevere il doveroso rispetto anche in ambito associativo, attesa la natura contrattuale dell’atto associativo. Pertanto, nemmeno gli accordi stipulati in ambito societario possono mai rivelarsi idonei a scalfire tali principi che, proprio per la loro rilevanza, non possono mai subire deroghe o violazioni.

                                                           G M

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