Rilevanza degli accordi degli associati nell’ambito degli enti riconosciuti, con particolare riguardo al problema dell’esclusione dell’associato e all’applicabilità di sanzioni disciplinari
Rilevanza degli accordi degli associati nell’ambito degli enti riconosciuti, con particolare riguardo al problema dell’esclusione dell’associato e all’applicabilità di sanzioni disciplinari
di Carmen Oliva
Le associazioni sono enti costituiti da più persone per il raggiungimento di scopi ben definiti, di regola altruistici e ideali. La presenza di un nucleo più o meno esteso di associati è quindi fondamentale e la loro volontà preminente. Lo scopo delle associazioni ,è quello di soddisfare i bisogni di natura ideale, o comunque non economica, dei propri membri; tale scopo non è in antitesi col fatto che spesso l’associazione eserciti un’attività economica, purché questa attività sia il mezzo per raggiungere lo scopo.
Con l’associazione (sia essa riconosciuta che non riconosciuta) dunque i singoli associati si prefiggono di cooperare al fine di realizzare interessi e valori comuni. Proprio per questo il loro diritto è garantito dalla Costituzione nell’art. 2 (in cui si riconoscono e garantiscono “i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali12 ove si svolge la sua personalità”) e nell’art. 18 in cui ai cittadini è garantito il diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati dalla legge penale. L’associazione, deve inserirsi nella più ampia categoria dei contratti: prende vita a seguito di un atto di autonomia privata fra più associati, il contratto di associazione appunto, a cui nuovi membri possono aderire ai sensi dell’art. 1332 c.c.. Nello specifico, deve intendersi quale contratto associativo con comunione di scopo in cui le prestazioni di ciascuna delle parti non procurano un vantaggio diretto alle altre (come nei contratti di scambio) ma sono finalizzate allo svolgimento di un’attività finalizzata a realizzare il comune scopo dei contraenti (art. 1420 c.c.). Ne consegue che, ai sensi dell’art. 1323 c.c., anche il contratto di associazione (sia essa riconosciuta che non riconosciuta) è sottoposto alle norme sul contratto in generale.
Che l’associazioni non abbiano finalità di lucro emerge dalle disposizioni di legge in materia: anzitutto i conferimenti degli associati sono fatti a fondo perduto, non avendo diritto l’associato alla restituzione di quanto aveva versato al momento dello scioglimento del rapporto e in secondo luogo i beni che residuano dall’estinzione dell’associazione non possono essere divisi tra gli associati ma devono essere devoluti ad enti che perseguono finalità analoghe a quelli dell’associazione estinta.
In generale, le associazioni si dividono in due grandi categorie: le associazioni riconosciute come persone giuridiche sono quelle alle quali la competente autorità (prefettura della provincia ove l’ente ha sede) ha concesso il riconoscimento, che si ottiene con l’iscrizione nel registro delle persone giuridiche; le associazioni non riconosciute sono quelle che non hanno richiesto il riconoscimento o comunque non lo hanno avuto.
Per la costituzione delle associazioni riconosciute è necessario l’atto pubblico (art. 14 c.c.), obbligatorio anche per la modifica o l’integrazione dell’atto costitutivo o dello statuto che ne regola la vita e l’attività . L’atto pubblico, grazie al controllo preventivo di legalità effettuato per legge dal notaio, contiene dati certi e attendibili e consente, quindi, l’iscrizione nel registro delle persone giuridiche dell’associazione. Da tale momento, l’ente acquista personalità giuridica.
Il procedimento di riconoscimento si inserisce tra la fase della stipula e quella dell’iscrizione: si tratta di un procedimento molto oneroso e complesso che ha luogo presso la Prefettura o la Regione competente, in ossequio all’art 11 c.c. a mente del quale “le associazioni, le fondazioni e le altre istituzioni di carattere privato acquistano la personalità giuridica mediante riconoscimento concesso dal Presidente della Repubblica”
Un’ associazione riconosciuta è dunque un’associazione che ha piena capacità giuridica. È quindi un centro di imputazione di diritti e obblighi totalmente distinto dagli associati. Ciò comporta un’autonomia patrimoniale perfetta tra il patrimonio dell’associazione e quello personale dei singoli associati, nonché degli altri soggetti. Gli associati rispondono poi delle obbligazioni dell’ente solo nei limiti della quota associativa versata e degli ulteriori contributi elargiti, e non possono essere richiesti del pagamento dei debiti contratti dall’associazione dai creditori di quest’ultima. A loro volta i creditori personali dei singoli associati non possono pretendere dall’associazione il soddisfacimento delle loro ragioni. Questo vuol dire che creditori dell’associazione possono rivalersi solo sul patrimonio di quest’ultima, senza intaccare il patrimonio del presidente o dei membri del consiglio direttivo.
Il riconoscimento alle associazioni riconosciute della personalità giuridica comporta che esse possano compiere alcuni negozi di diritto privato: hanno, infatti, la capacità di ricevere eredità e donazioni o di comprare immobili. Inoltre, possono usufruire di particolari benefici previsti dalla legge, come la possibilità di richiedere contributi da parte di enti pubblici.
La disciplina che regola la fase successiva alla costituzione prevede particolari obblighi e limiti in tema di amministrazione e di rappresentanza, di assemblea e di deliberazioni degli associati, nonché di recesso e di esclusione degli stessi, di diritti sul patrimonio comune, di trasformazione, di estinzione e di devoluzione dei beni.
A differenza delle associazioni riconosciute, quelle non riconosciute (di regola enti composti da più persone associate tra loro che non hanno voluto richiedere il riconoscimento o che non l’hanno ottenuto o per i quali è ancora in corso il relativo procedimento) non sono persone giuridiche, e pertanto nei confronti loro e dei singoli associati non operano i benefici conseguenti all’autonomia patrimoniale propri degli enti riconosciuti. Esse però hanno soggettività giuridica, pertanto anche nelle associazioni non riconosciute si assiste ad una discreta separazione tra il patrimonio dell’ente e quello dei suoi associati ( la cosiddetta autonomia patrimoniale imperfetta) in quanto per i debiti dell’ente risponde in primo luogo il fondo comune dell’associazione e solo dopo coloro che hanno convenuto ed effettuato l’operazione in nome e per conto dell’ente.
Finché dura l’associazione,poi, i singoli associati non possono chiedere la divisione del fondo comune e, ove recedano o siano esclusi, non possono chiedere la restituzione della quota associativa e dei contributi versati.
Dal punto di vista della disciplina, nelle associazioni non riconosciute è prevista una libertà molto ampia, in quanto l’ente è retto dagli accordi degli associati, che potranno pertanto regolarne il funzionamento come meglio riterranno opportuno, nei limiti della legge.
Chiarite le differenze tra associazione riconosciuta e non riconosciuta è doveroso delineare, quantomeno nei tratti essenziali, la struttura tipica e aperta dell’associazione riconosciuta e la disciplina che regola la vita associativa.
Innanzitutto, l’associazione ha una tipica struttura aperta. Ciò significa che altri soggetti, oltre i soci fondatori, possono aderire liberamente. Le nuove parti possono intervenire nell’associazione già costituita senza che questo comporti un cambiamento nell’atto costitutivo, quindi l’associazione può raggiungere, a causa delle continue adesioni, anche un numero illimitato di membri.
Collegato a questo meccanismo è anche il principio detto della “porta aperta”, secondo il quale possono entrare a far parte dell’associazione tutti coloro che hanno interessi dello stesso tipo di quelli che portarono alla costituzione del rapporto associativo: ciò non vuol dire che i terzi che nutrono questo genere di interessi possano vantare il diritto di entrare nell’associazione, poiché trattandosi di un contratto, la proposta di adesione può essere respinta, e non c’è obbligo da parte dell’associazione di accettarla, ma vuol dire che sarebbe illecito l’atto costitutivo che vietasse l’ingresso di nuovi soci o che lasciasse al mero arbitrio degli amministratori la facoltà di decidere in merito alle nuove ammissioni.
In ogni caso, nel rispetto dei fini istituzionali dell’associazione, lo statuto può indicare i requisiti necessari per essere ammessi. Lo statuto infatti può prevedere varie figure di soci come ordinari, fondatori, onorari, sostenitori, attivi ecc.. Resta comunque inteso che fra gli aderenti all’associazione esiste parità di diritti e doveri. Infatti, la disciplina del rapporto associativo e le modalità associative devono garantire l’effettività del rapporto medesimo, per tutti gli associati.
Tra i principali diritti dei soci figurano: il diritto di partecipare all’assemblea e di votare direttamente per l’approvazione e le modifiche dello statuto, dei regolamenti, e per la nomina degli organi sociali dell’associazione;il diritto di frequentare i locali dell’associazione e usare le strutture e le attrezzature; il diritto di partecipare alla vita associativa; il diritto di partecipare alle attività promosse dall’associazione e di usufruire di tutti i servizi proposti.
Tra i principali doveri dei soci , invece, figurano: il rispetto dello statuto e dei regolamenti; l’osservanza delle deliberazioni adottate dagli organi sociali; il pagamento della quota associativa alla scadenza stabilita; il rispetto delle finalità dell’associazione attraverso un comportamento conforme agli indirizzi sociali e l’utilizzo corretto delle attrezzature e dei luoghi messi a disposizione dall’associazione.
La struttura tipica dell’associazione, comporta che debba comporsi necessariamente di due organi: l’assemblea e gli amministratori.
Organo di fondamentale importanza è l’assemblea degli associati. Essa ha la funzione di decidere su tutte le questioni di maggiore importanza riguardanti la vita dell’ente e il suo operato: può modificare lo statuto e l’atto costitutivo, deliberare lo scioglimento dell’associazione e la devoluzione del suo patrimonio, approva il bilancio, nomina e revoca gli amministratori ed esercita l’azione di responsabilità nei loro confronti, può escludere gli associati ed esercitare tutti gli altri compiti che le siano affidati dall’atto costitutivo. Si riunisce almeno una volta all’anno per l’approvazione del bilancio, tutte le volte che ve ne sia la necessità o quando ne sia fatta richiesta motivata da almeno un decimo degli associati e adotta le sue decisioni a maggioranza dei voti.
Invece, agli amministratori che hanno anche il potere di rappresentanza dell’ente, spetta decidere sull’ordinaria gestione degli affari e dare esecuzione alle delibere assembleari. Essi sono responsabili verso l’ente per il proprio operato secondo le norme sul mandato.
Infine, lo statuto regola la vita dell’ente, stabilendo le funzioni di ciascun organo all’interno della vita associativa. Esso può contenere disposizioni particolari e derogatorie rispetto alla disciplina codicistica con il solo limite delle disposizioni di carattere imperativo, di cui non è ammessa la derogabilità.
Chiarito ciò si possono analizzare con maggiore attenzione le vicende afferenti al socio in particolare, con particolare riferimento alla sua espulsione e alle sanzioni disciplinari.
Ai sensi dell’art 24 c.c., la qualità di associato non è trasmissibile, salvo che la trasmissione sia consentita dall’atto costitutivo o dallo statuto. L’associato può sempre recedere dall’associazione se non ha assunto l’obbligo di farne parte per un tempo determinato. La dichiarazione di recesso deve essere comunicata per iscritto agli amministratori e ha effetto con lo scadere dell’anno in corso, purché sia fatta almeno tre mesi prima.
L’esclusione d’un associato non può essere deliberata dall’assemblea che per gravi motivi; l’associato può ricorrere all’autorità giudiziaria entro sei mesi dal giorno in cui gli è stata notificata la deliberazione.
Gli associati, che abbiano receduto o siano stati esclusi o che comunque abbiano cessato di appartenere all’associazione, non possono ripetere i contributi versati, né hanno alcun diritto sul patrimonio dell’associazione.
E’ doveroso premettere che essendo la partecipazione all’associazione un rapporto di natura contrattuale, la trasmissione della qualità di associato (ove ammessa dallo statuto), il recesso e l’esclusione non sono altro che vicende della sua posizione di “parte” nel contratto; di conseguenza, la trasmissione è una fattispecie di cessione del contratto ovvero di successione nella posizione di contraente (dipende da come si attua, se inter vivos o mortis causa); il recesso corrisponde all’ipotesi di cui all’art. 1373 c.c.; l’esclusione è l’applicazione in ambito associativo della figura della risoluzione del contratto ai sensi degli artt. 1453 ss. c.c..
In ordine all’esclusione, essa viene deliberata dall’assemblea. La deliberazione di esclusione deve essere motivata: la motivazione dovrà enunciare, in modo specifico, un fatto determinato o una serie di fatti determinati che vengono ascritti all’associato e valutati come integranti l’estremo dei «gravi motivi» richiesti per l’esclusione dall’ associazione; essa non potrà esaurirsi nella formulazione di generiche locuzioni che esprimano riprovazione per l’associato o che lo definiscano «indegno» di appartenere all’associazione, ma tacciano dei fatti sui quali la riprovazione e il giudizio di indegnità si fonda.
Contro la deliberazione di esclusione l’associato escluso può «ricorrere all’autorità giudiziaria»; e il termine di decadenza di 6 mesi vale anche nelle associazioni non riconosciute. L’escluso può, sebbene la norma non sia esplicita in tal senso, chiedere al giudice l’annullamento della deliberazione di esclusione; può, altresì, chiedere la condanna dell’associazione al risarcimento del danno che egli provi di avere subito a causa dell’illegittimo provvedimento.
L’annullamento della deliberazione di esclusione comporta la reintegrazione ex tunc dell’escluso, che per effetto della sentenza di annullamento risulterà non avere mai perduto la qualità di associato.
Stante quanto affermato, anche per l’annullamento della delibera di esclusione invalida troverà applicazione la disciplina codicistica sull’annullabilità del contratto.
La norma dettata dall’art. 24 c.c., nel condizionare l’esclusione dell’associato all’esistenza di gravi motivi, e nel prevedere, in caso di contestazione, il controllo dell’autorità giudiziaria, implica per il giudice, davanti al quale sia proposta l’impugnazione della deliberazione di esclusione, il potere non solo di accertare che l’esclusione sia stata deliberata nel rispetto delle regole procedurali al riguardo stabilite dalla legge o dall’atto costitutivo dell’ente, ma anche di verificarne la legittimità sostanziale, e quindi di stabilire se sussistono le condizioni legali e statutarie in presenza delle quali un siffatto provvedimento può essere legittimamente adottato. In particolare, la gravità dei motivi, che possono giustificare l’esclusione di un associato, è un concetto relativo, la cui valutazione non può prescindere dal modo in cui gli associati medesimi lo hanno inteso nella loro autonomia associativa; di tal che, ove l’atto costitutivo dell’associazione contenga già una ben specifica descrizione dei motivi ritenuti così gravi da provocare l’esclusione dell’associato, la verifica giudiziale è destinata ad arrestarsi al mero accertamento della puntuale ricorrenza o meno di quei fatti che l’atto costitutivo contempla come causa di esclusione; quando, invece, nessuna indicazione specifica sia contenuta nel medesimo atto costitutivo, o quando si sia in presenza di formule generali ed elastiche, destinate ad essere riempite di volta in volta di contenuto in relazione a ciascun singolo caso, o comunque in qualsiasi altra situazione nella quale la prefigurata causa di esclusione implichi un giudizio di gravità di singoli atti o comportamenti, da operarsi necessariamente post factum, il vaglio giurisdizionale si estende necessariamente anche a quest’ultimo aspetto (giacché, altrimenti, si svuoterebbe di senso la suindicata disposizione dell’art. 24 c.c.) e si esprime attraverso una valutazione di proporzionalità tra le conseguenze del comportamento addebitato all’associato e l’entità della lesione da lui arrecata agli altrui interessi, da un lato, e la radicalità del provvedimento espulsivo, che definitivamente elide l’interesse del singolo a permanere nell’associazione, dall’altro.
Ad ogni modo, la possibilità di ricorrere all’autorità giudiziaria, riconosciuta dall’art. 24 comma 3 c.c., non può essere vietata dall’atto costitutivo: la rinuncia preventiva dell’associato ad adire il giudice contro la deliberazione di esclusione è da considerarsi nulla; come è nulla anche l’ulteriore clausola, prevista dallo statuto di talune associazioni, secondo la quale l’associato che adisca l’autorità giudiziaria è «considerato dimissionario».
Talvolta gli statuti rimettono l’esclusione dall’associazione e i provvedimenti disciplinari contro gli associati alla competenza di un apposito organo interno (di regola, il collegio dei probiviri), cui viene «deferito» dagli organi direttivi dell’ associazione il compito di deliberare l’esclusione o applicare la sanzione disciplinare; altre volte all’organo di giustizia interna è rimesso il compito di riesaminare, su ricorso dell’associato, i provvedimenti già adottati nei suoi confronti dagli organi direttivi dell’associazione.
Ci si domanda se le clausole statutarie in parola possano essere qualificate come clausole compromissorie in senso tecnico di cui all’art 34 Dlgs 5/2003 che devolvano ad arbitri, terzi e imparziali, le controversie insorgenti tra associati e associazione ,con tutte le conseguenze che la legge ricollega a tale qualificazione, ivi compresa la necessaria unanimità ai fini dell’introduzione e della rimozione di una siffatta clausola.
Nel primo ordine di casi sopra menzionato la risposta deve sicuramente essere negativa: l’organo di giustizia interna non è chiamato a risolvere una controversia (circostanza che costituisce il necessario presupposto dell’arbitrato) ma a pronunciarsi, esso stesso, sulla esclusione dell’associato; opera cioè in sede esecutiva, non in sede contenziosa.
Nel secondo ordine di casi si dubita addirittura della ricorrenza di un vero e proprio giudizio arbitrale: infatti, dovendo gli arbitri essere soggetti esterni all’associazione, non si può qualificare come «collegio arbitrale» un organo interno all’associazione stessa composto da membri eletti dall’ assemblea (collegio dei probiviri) ed avente, per statuto, la funzione «giudicante» di riesaminare, su iniziativa dell’associato interessato, le deliberazioni degli altri organi associativi.
Dunque, non si è in presenza di arbitri, ma si assiste al fenomeno per il quale una delle parti si riserva il potere di decidere, essa stessa, le controversie che insorgono con la controparte, giacché i probiviri non sono terzi rispetto all’associazione, ma sono organi di questa; e l’associazione, attraverso il «collegio dei probiviri», risolve essa stessa la controversia insorta fra sé e uno degli associati.
Le decisioni di tale organo interno all’associazione possono costituire solo una fase della formulazione del provvedimento dell’associazione: la deliberazione di esclusione diventa pienamente efficace solo se è confermata da tale organo di «giustizia interna» o se è scaduto il termine entro il quale l’associato escluso avrebbe potuto fare ricorso ad essa. Tali decisioni non valgono come pronunce arbitrali, tanto è vero che una volta che, con la conferma da parte dell’organo «giudicante» interno all’associazione, la deliberazione di esclusione abbia acquistato efficacia, l’associato escluso potrà sempre rivolgersi all’ autorità giudiziaria al fine di ottenerne l’annullamento.
Allo stesso Collegio dei probiviri (ovvero ad uno specifico Comitato disciplinare) è affidata anche l’irrogazione delle altre sanzioni disciplinari, il cui contenuto deve essere definito all’interno di un codice di comportamento che risulti conosciuto e comprensibile a tutti gli associati.
Qualora vengano riscontrate violazioni di tale codice, il Collegio predispone la sanzione, formulando in termini precisi l’oggetto dell’addebito disciplinare all’associato consentendo, in tal modo, a quest’ultimo di esercitare il diritto alla difesa costituzionalmente garantito all’art 24 della Carta Costituzionale.
Conseguentemente, la sostanziale elusione da parte dell’organo di giustizia interna dell’obbligo di formulare in termini precisi l’oggetto dell’addebito integra la palese violazione delle regole del contraddittorio, ineludibili anche in un procedimento ritenuto (dalla prevalente dottrina e giurisprudenza) assimilabile ad un arbitrato, ma a forma “libera”.
In conclusione, sebbene venga riconosciuta alle suddette associazioni, in rivendicazione della propria autonomia la possibilità di adottare meccanismi di giustizia endoprocediementale, tale autonomia non è priva di limiti laddove si incontra con la posizione del singolo soggetto, il quale può ritrovarsi a subire comportamenti abusivi da parte del gruppo.
Proprio in direzione di un’efficace tutela delle posizioni individuali a fronte dell’autonomia del gruppo,la giurisprudenza ha individuato dei requisiti di validità delle delibere di esclusione più rigorosi rispetto a quelli connessi al funzionamento della norma di cui all’art 24 c.c., e che trovano diretto riconoscimento nelle disposizioni costituzionali e in alcuni principi generale del diritto punitivo moderno. Il mancato rispetto di tali requisiti da parte del provvedimento disciplinare adottato dal gruppo consente a chi sia colpito dalla sanzione di chiederne all’autorità giudiziaria la sospensione cautelare in via d’urgenza e la successiva definitiva cancellazione, oltre all’accertamento del diritto al risarcimento per ogni eventuale danno subito.
In questo senso, la Suprema Corte ha stabilito che In materia di associazioni riconosciute, l’associato illegittimamente escluso può conseguire il risarcimento del danno da fatto illecito a condizione di dimostrare che il comportamento degli organi associativi sia stato improntato a dolo o colpa, potendosi ipotizzare quest’ultima, in relazione alle circostanze del caso concreto con apprezzamento riservato al giudice di merito, allorché il provvedimento di esclusione adottato in assenza di gravi motivi si ponga in contrasto con i principi di correttezza, di parità di trattamento ed uguaglianza dei soci, di rispetto della loro dignità e della libertà di associazione, che devono improntare la vita dell’associazione e l’operato dei suoi organi, secondo la Costituzione e le leggi dello Stato, nonché secondo le regole interne date dagli associati medesimi.
Infine, dal punto di vista processuale, dal combinato disposto degli artt. 23, comma 1 e 24,comma 3 c.c. si evince che il termine di decorrenza di sei mesi vale solo per le impugnazioni delle delibere di esclusione da parte dell’associato escluso, mentre l’impugnazione delle altre delibere da parte di qualunque associato, oltre che dagli organi dell’ente e dal PM, non sono soggette a termine di decadenza alcuno.