Tema svolto: Autonomia negoziale e diritti della personalità

Autonomia negoziale e diritti della personalità

 Di Paola Montone

Con l’espressione autonomia negoziale si allude alla libertà riconosciuta ai soggetti di diritto, siano esse persone fisiche o giuridiche, di porre in essere negozi, ossia atti diretti a regolare rapporti giuridici tra soggetti.

Nello specifico, il negozio giuridico è caratterizzato dal rilievo che assume la volontà dei soggetti, la quale deve avere ad oggetto non solo il compimento dell’atto in sé ma anche la produzione di determinati effetti, in ciò distinguendosi dalla categoria dell’atto giuridico in senso stretto.

Orbene, l’autonomia negoziale rappresenta la massima estrinsecazione del principio della libera iniziativa economica privata, di cui all’articolo 41 della Costituzione e tra le più importanti forme di autonomia negoziale vi è senz’altro quella contrattuale.

Essa viene espressamente presa in considerazione dal legislatore del 1942 per il tramite dell’articolo 1322 c.c., in considerazione della centralità che riveste il contratto rispetto agli altri negozi giuridici, visto che attraverso lo strumento contrattuale si “costitui(scono), regola(no) o estingu(ono)” rapporti giuridici di tipo patrimoniale, che rappresentano il substrato del tessuto economico di ogni realtà sociale.

L’autonomia contrattuale, che, dunque, si pone in rapporto di species a genus rispetto al più ampio concetto di autonomia negoziale, viene intesa dalla dottrina secondo una duplice accezione. La prima accezione, di stampo positivo, si correla proprio al sovracitato concetto di libertà di determinare il contenuto del contratto, che giunge perfino ad ammettere la conclusione di contratti atipici, purché superino il vaglio di meritevolezza di tutela previsto dall’ordinamento giuridico.

Il concetto di autonomia contrattuale, poi, dev’essere interpretato anche nel senso che il contratto ha forza di legge solo tra le parti e non può produrre effetti nei confronti dei terzi, fatte salve le eccezioni previste dalla legge, ex articolo 1372 c.c..

Inoltre, il principio di autonomia non implica una libertà incondizionata, come confermato dallo stesso legislatore che, al primo comma dell’articolo 1322, richiama l’attenzione dell’interprete sull’esistenza di limiti di legge.

In particolare, le limitazioni all’autonomia contrattuale possono essere legali ma anche convenzionali, ossia volute dalle parti, e possono incidere sostanzialmente sulla decisione di stipulare o meno il contratto, sulla scelta del contraente, nonché sullo stesso contenuto del programma negoziale. In tal senso, tra i limiti legali incidenti sulla scelta di stipulare il contratto è annoverabile la disposizione di cui all’articolo 2597 c.c., che impone al monopolista un obbligo legale di contrattare, venendo qui in rilievo la prevalente esigenza di salvaguardare il principio di concorrenza e di parità di trattamento. Mentre tra i limiti di natura convenzionale può essere menzionato il ricorso al contratto preliminare, fonte di un’obbligazione di fare, consistente proprio nell’assunzione dell’impegno a stipulare il contratto definitivo. Per quanto concerne, poi, i limiti dell’autonomia negoziale e in particolare di quella contrattuale che incidono sula scelta del soggetto con cui concludere il contratto, è possibile menzionare la prelazione legale, che impone di preferire un soggetto ad un altro, a parità di condizioni, come avviene nel caso di comunione ereditaria, ex articolo 732, ovvero nell’impresa familiare, laddove si proceda a divisione ereditaria o al trasferimento dell’azienda.

Accanto alla prelazione legale, si ritiene invocabile anche un patto di prelazione volontario, che può tradursi in un pactum de non contrahendo ovvero in un pactum de contrahendo, a seconda che si abbia a riferimento un soggetto terzo ovvero il prelazionario. Rimangono, infine, i limiti che incidono sul contenuto del contratto e che possono essere ravvisati, in via esemplificativa, nel divieto dei patti successori, nonché del patto commissorio od ancora con riferimento alle clausole vessatorie che la disciplina consumieristica sanziona con la nullità di protezione.

Sono tutte fattispecie nelle quali il legislatore ha operato, a monte, un giudizio di bilanciamento di interessi, dando la prevalenza alla tutela della parte negoziale considerata più debole.

Così delineato il concetto di autonomia negoziale, occorre soffermarsi sulla delicata problematica che concerne il rapporto tra autonomia negoziale e diritti della personalità, valutando se il principio di autonomia può avere ad oggetto anche l’esercizio di siffatta peculiare categoria di diritti.

La problematicità della questione emerge in considerazione della natura dei diritti della personalità, tralatiziamente definiti come diritti che oltre ad essere innati, nel senso di originari, sono intrasmissibili, imprescrittibili e soprattutto indisponibili.

Questa visione statica dei diritti della personalità trova un importante avallo nella disciplina dettata dal codice civile in merito, che con le sue scarne disposizioni sul diritto all’integrità fisica, al nome, allo pseudonimo ed all’immagine, tradisce la sua impostazione patrimonialista e la logica proprietaria che, non a caso, sottende lo stesso articolo 5, dettato in tema di atti di disposizione del proprio corpo.

In realtà, a fronte della considerazione per cui il codice civile è incentrato più sui rapporti economici che sui diritti della persona, si è prospettata un’interessante rimeditazione di tutto l’ordinamento civilistico, partendo dal contenuto dispositivo di cui all’articolo 2 della Costituzione. La valorizzazione della visione giusnaturalistica che sottende il riconoscimento del valore assoluto della persona, “sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” ha gradualmente comportato l’emersione di un principio personalistico, che si erge a criterio ermeneutico dell’intero sistema giuridico. In tal senso, lo stesso articolo 5 c.c. dev’essere più propriamente letto nel senso che a giustificazione di un divieto di disposizione del proprio corpo vi può essere solo quell’atto che lede la dignità umana e, dunque, ancora una volta, la persona in quanto bene primario.

Questa stessa visione antropocentrica consente, poi, di rimeditare alcune delle tradizionali caratteristiche dei diritti della personalità, con particolare riferimento a quello della indisponibilità. Si ritiene, infatti, come il carattere dell’indisponibilità debba oggi essere considerato tendenziale e non assoluto: si consideri, infatti, che con il contratto di sponsorizzazione ben può un soggetto sfruttare economicamente la propria immagine, così come è ben possibile firmare una liberatoria per l’utilizzo dei propri dati personali, considerato che gli stessi hanno acquisito nel tempo un crescente valore economico. Si consideri ancora che anche nella fase giudiziale di valutazione del quantum risarcitorio in caso di ritenuta violazione del diritto alla immagine, per un indebito uso che se ne è fatto, si fa ricorso al cosiddetto criterio del prezzo del consenso, ossia si valuta quanto sarebbe stato corrisposto se fosse stato legittimamente richiesto e prestato il consenso all’utilizzo della propria immagine ed al suo sfruttamento commerciale.

Ora, soltanto partendo dalla premessa per cui queste modalità di disporre del proprio diritto della personalità (nel caso in esame, immagine e privacy) non ledono la persona né la sua dignità se ne può affermare la piena legittimità e ciò anche alla luce della moderna lettura interpretativa dell’articolo 5 c.c..

Ecco perché, tra l’altro, si ritiene ammissibile la donazione a titolo gratuito di organi e tessuti quando si è ancora in vita, come nel caso di rene, midollo osseo o cordone ombelicale: disporre, in tal modo, della propria integrità fisica non offende la dignità della persona, ma anzi risponde a quell’innata esigenza solidaristica sottesa alla stessa formulazione dell’articolo 2 Cost.. Allo stesso modo, è lecita la disposizione di quelle parti del nostro corpo, come unghie e capelli, il cui distacco non comporta proprio alcuna diminuzione permanente all’integrità fisica, trattandosi di beni suscettibili di autonoma apprensione.

Ciò posto, il problema del rapporto tra autonomia negoziale e diritti della personalità entra in crisi, però, soprattutto con riferimento ad alcuni particolari diritti della personalità: si tratta del diritto alla vita e di quello alla salute.

Con riferimento al diritto alla vita importa chiedersi se sia possibile disporre dello stesso al punto da ritenere legittimo l’affermazione di un vero e proprio diritto di morire, quale risvolto negativo del primo. In merito, la risposta negativa viene argomentata non soltanto sulla scorta dell’articolo 5 del codice civile, ma anche in considerazione della circostanza per cui tutto il nostro ordinamento è proiettato alla tutela della vita e non al diritto a non vivere (analogamente si è argomentato in merito alla configurabilità in capo al concepito di un diritto a non nascere se non sano).

In realtà, nella Carta Costituzionale, così come nel codice civile non è riscontrabile un riconoscimento espresso del diritto alla vita ma è innegabile la centralità che lo stesso assume non solo per l’ordinamento internazionale ma anche per quello interno, con riferimento alla legislazione speciale sulla fecondazione assistita ovvero sull’interruzione volontaria della gravidanza, che tutela “la vita umana fin dal suo inizio”. Si consideri, poi, che anche a livello penalistico è riscontrabile un corpus di norme dalle quali emerge la superiore istanza di difesa della vita umana, anche nel caso dell’omicidio del consenziente.

La vita umana, poi, è indisponibile pure per colui il quale è il diretto titolare del bene della vita: si badi, infatti, che il tentativo di suicidio non trova una punizione da un punto di vista penalistico non perché non costituisca un illecito, ma in considerazione della circostanza che il soggetto attivo e quello passivo del reato coincidono, per ciò solo venendo meno l’istanza punitiva che generalmente sottende ai reati.

Strettamente correlato al diritto alla vita è il diritto alla salute, che l’articolo 32 della Costituzione espressamente menziona come “fondamentale diritto dell’individuo”. La norma citata è stata considerata una norma non meramente programmatica ma precettiva, volta a riconoscere non solo il diritto in positivo alla salute, ma anche il diritto ad autodeterminarsi nel rifiutare le cure. Infatti, a meno che non si tratti di un trattamento sanitario obbligatorio, laddove emerge la prioritaria esigenza di tutelare gli interessi della collettività, si può legittimamente affermare il diritto di rifiutare le cure. La possibilità di disporre del proprio diritto alla salute, sia nell’evidenziata accezione positiva, ossia di sottoposizione ad un intervento chirurgico terapeutico, sia in quella negativa di rifiuto del medesimo, è subordinata, però, all’assolvimento da parte del medico di un obbligo informativo nei confronti del paziente. Il paziente, infatti, deve essere edotto dal medico di tutte le conseguenze derivabili dall’intervento (così come dal mancato intervento), delle possibili complicazioni e delle eventuali alternative che la scienza medica mette a disposizione, al fine che il suo consenso oltre ad essere consapevole, libero, specifico ed attuale sia soprattutto informato, consentendo, di fatti, un pieno esercizio del proprio diritto di autodeterminarsi in ordine alle cure mediche.

La libertà del soggetto di disporre del proprio diritto alla salute passa, dunque, attraverso la prestazione di un consenso informato, che soltanto laddove presenti tutte le caratteristiche sopra evidenziate ha valenza scriminante nei confronti dell’operato del medico.

Infine, la giurisprudenza di legittimità, a partire dal noto caso Englaro, ha affermato come il diritto a rifiutare le cure e dunque il dissenso al trattamento può essere vantato anche da un soggetto che versa in uno stato vegetativo irreversibile, per il tramite del suo tutore legale, grazie al quale è possibile presumere o, più correttamente, ricostruire la volontà del soggetto di interrompere i trattamenti sanitari, in considerazione di quelli che erano i suoi valori, il suo modo di essere, il suo pensiero filosofico, politico, religioso e soprattutto il suo stesso concetto di dignità umana.

La tematica della autonomia negoziale e dei diritti della personalità è attuale, poi, anche con riferimento alla problematica del riconoscimento di un testamento biologico (living will), ovvero di un atto negoziale col quale il soggetto dispone “ora per allora” del momento in cui non sarà più cosciente, in termini di rifiuto o di consenso a determinati trattamenti od anche all’accanimento terapeutico.

Sul punto, si sono registrate differenti proposte di legge tra le quali emerge sicuramente il meccanismo delle dichiarazioni anticipate di trattamento (d.a.t), con cui il soggetto potrebbe formulare le proprie direttive con riferimento al momento in cui non sarà più cosciente. Le d.a.t. presentano, però, almeno per come sono state formulate, dei forti limiti applicativi, considerato che alla loro disciplina si sottraggono l’idratazione e l’alimentazione artificiale, che vengono considerati trattamenti salva-vita, non rinunciabili.

Più semplice, invece, potrebbe risultare il ricorso ad un istituto già presente nel nostro ordinamento, la cui flessibilità operativa ben consente di coniugare l’autonomia negoziale del soggetto in termini di disposizioni sul proprio fine vita. Il riferimento è all’amministrazione di sostegno, per come ridisegnato ad opera del legislatore del 2004.

Sul punto, bisogna partire dalla premessa per cui l’intenzione del legislatore non è più quella manifestata attraverso l’istituto dell’interdizione di limitare l’autonomia delle persone in nome della salvaguardia di interessi patrimoniali, ma quella opposta di garantire il più possibile l’autonomia ed in particolare quella contrattualità minima che deve essere riconosciuta ad ogni persona nel quotidiano della sua esistenza, argomentando ex articolo 409 c.c..

Chiarita la ratio legis delle disposizioni di cui agli articoli 404 e seguenti, si è ritenuto che sia ben possibile nominare un amministratore di sostegno “ora per allora”, ossia in prospettiva di una futura situazione di incapacità nel manifestare il proprio assenso o dissenso ai trattamenti sanitari. Ciò sarebbe possibile in considerazione dello stesso contenuto dispositivo dell’articolo 408 c.c. che conferma la necessità di aver riguardo esclusivo “alla cura ed agli interessi della persona del beneficiario”. Ancora una volta emerge quel principio personalistico, che mette al centro l’individuo e le sue esigenze personali, ancor prima che patrimoniali.

Ma vi è di più: la scelta dell’amministratore di sostegno può essere espressamente compiuta dal soggetto interessato “in previsione della propria futura incapacità”, includendo quindi proprio l’ipotesi in esame di un’impossibilità futura di disporre del proprio diritto di rifiutare le cure od anche di richiedere un accanimento terapeutico, confutando, così, quell’obiezione dottrinale che ritiene non sussistente un interesse attuale al ricorso per l’istituzione dell’amministrazione di sostegno.

In conclusione, la tematica dell’interazione tra il principio dell’autonomia negoziale e la possibilità di disporre dei diritti della personalità ha visto il superamento della rigida logica dell’indisponibilità assoluta dei medesimi diritti in nome di una valutazione caso per caso, che consente di affermare una disponibilità tendenzialmente relativa, consentita nei limiti in cui non si leda la dignità umana ed il valore della persona in quanto tale.

 

 

PAOLA MONTONE;

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