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Traccia di diritto civile: La natura giuridica del condominio e la risarcibilità del danno non patrimoniale in favore del medesimo.

Traccia di diritto civile: La natura giuridica del condominio e la risarcibilità del danno non patrimoniale in favore del medesimo.

 

Lucia Valentina Caruso

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Il condominio negli edifici rappresenta una particolare tipologia di comunione forzosa, espressamente previsto e regolamentato nei suoi profili essenziali da una speciale disciplina che il codice civile detta agli artt. 1117-1139.

E’ opportuno premettere che il fenomeno del condominio si è manifestato a seguito del preponderante sviluppo urbanistico di fine Ottocento, con la sempre più crescente concentrazione della popolazione nelle città a causa dell’avvento della rivoluzione industriale e del conseguente declino dell’economia agraria.

Nelle città si è così assistito alla costruzione di grandi edifici suddivisi in piani, ciascuno dei quali composto da appartamenti di proprietà esclusiva dei singoli condomini, mentre le parti comuni dell’intero stabile, elencati seppur in modo non tassativo dall’art. 1117 c.c., pongono in essere una sorta di comunione forzosa, ossia necessaria ed indivisibile tra i proprietari dei diversi piani o porzioni di piano dell’edificio.

L’ente condominiale, in quanto privo di personalità giuridica, non assume la titolarità sulle parti comuni dell’edificio, spettante invece ai singoli condomini, ma si limita all’amministrazione ed al buon uso della cosa comune nell’interesse di tutti i partecipanti al condominio, senza peraltro interferire nell’esercizio dei diritti individuali di ciascun proprietario.

Difatti, ai condomini si affianca un’organizzazione peculiare che gestisce le parti ed i sevizi comuni, nella quale confluiscono diversi organi tra i quali l’assemblea di condominio, quale organo deliberativo e tramite il quale vengono adottate le scelte relative alla organizzazione e gestione dell’intera vita condominiale.

Organo esecutivo delle decisioni assunte a livello deliberativo, la cui nomina si rende necessaria allorquando i condomini sono più di quattro, è l’amministratore condominiale, il quale, per effetto della nomina ex art. 1129 c.c, assume un incarico di rappresentanza dei vari condomini che conservano, comunque, il potere di agire personalmente a difesa dei propri diritti sia esclusivi che comuni.

Uno dei principali problemi da affrontare allorquando ci si approccia alla materia condominiale riguarda l’esatta definizione da attribuire al concetto di “condominio”, vale a dire la sua corretta identificazione, dal momento che la disciplina codicistica dettata in materia risulta essere sul punto estremamente carente.

Gli orientamenti interpretativi che si sono nel tempo succedutesi hanno provveduto a qualificare l’istituto del condominio secondo modalità diverse: si è in particolare parlato di contitolarità, ponendo l’accento sul fatto che tutti i condomini sarebbero proprietari e quindi titolari, in proporzione alle rispettive quote, di diritti e obbligazioni su parti comuni dell’intero edificio condominiale.

Successivamente il condominio è stato configurato in termini di proprietà plurima dal momento che ciascun condominio sarebbe proprietario esclusivo della sua unità immobiliare e comproprietario di alcune porzioni  dell’edificio unitamente agli altri proprietari.

Più di recente la giurisprudenza, disconoscendo al condominio la natura di ente fornito di autonomia patrimoniale, è successivamente giunta a qualificarlo quale ente di gestione collettiva di interessi individuali con conseguente compressione dell’autonomia individuale.

In particolare tale assunto trova conferma nel fatto che il condominio non è titolare di un patrimonio autonomo, né di diritti e di obbligazioni, dal momento che la titolarità dei diritti sulle parti comuni del complesso condominiale fa capo ai singoli condomini, così come a quest’ultimi sono ascrivibili le obbligazioni relative agli impianti e ai servizi comuni che si contraggono non già in favore dell’ente ma nell’interesse dei singoli partecipanti al condominio.

Pertanto, risulta agevole constatare che prima dell’auspicata e recente riforma sul condominio (Legge n. 220 del 2012), entrata in vigore solo nel giugno 2013, l’istituto in esame veniva considerato quale mero ente di erogazione, con lo scopo di soddisfare i bisogni dei suoi membri ma sfornito di personalità giuridica autonoma e distinta da quella dei singoli condomini, mentre con l’approvazione della legge del 2012 si è riportato alla luce, tra i giudici di merito e di legittimità, quella teoria che vede nell’ente condominiale un autonomo soggetto di diritto con una sia pure attenuata personalità giuridica.

Con l’entrata in vigore della novella è definitivamente tramontato il concetto di condominio come “proprietà divisa per piani”, che ha caratterizzato la figura giuridica dell’istituto in esame per moltissimi anni, dal momento che l’art. 1117 bis c.c., nel definire le caratteristiche peculiari del condominuio e del supercondominio, fa riferimento non più “ai piani” ma “alle unità immobiliari”.

Pertanto il condominio può ora definirsi quale complesso di unità immobiliari appartenenti a proprietari diversi, caratterizzate dalla presenza di alcune parti comuni e destinate funzionalmente al servizio delle porzioni di proprietà esclusiva.

Ed invero, quello della personalità giuridica del condominio o quanto meno della soggettività giuridica distinta dai suoi partecipanti è materia che la legge n. 220 del 2012 ha completamente ignorato, anche se le sentenze, di merito e di legittimità che si sono successivamente succedute sul tema, hanno messo in evidenza dei cambiamenti rispetto al passato.

Questi pretesi cambiamenti devono essere desunti da un’attenta lettura di alcune novellate disposizioni codicistiche riguardanti il condominio, quali ad esempio l’art. 1129, IV comma c.c. che impone l’obbligo in capo all’amministratore di tenere distinta la gestione del patrimonio del condominio dal patrimonio personale dei singoli condomini, l’art. 1135, IV comma c.c. che prevede la costituzione di un fondo speciale per coprire i costi dei lavori di manutenzione straordinaria e infine l’art. 2659, I comma c.c., a mente del quale è possibile la trascrizione di un atto tra vivi a nome del condominio purchè ne siano indicati l’eventuale denominazione, ubicazione e codice fiscale.

Pertanto, seppure tali previsioni normative non riconoscono espressamente una personalità giuridica in capo al condominio, riconoscimento dapprima voluto ma poi escluso in sede di stesura finale della legge del 2012, tuttavia non può non tenersi conto che gli elementi sopra indicati vanno nella direzione di una progressiva configurabilità in capo all’ente condominiale di una soggettività giuridica autonoma, sganciata da quella dei singoli partecipanti.

In altri termini, la novella da tempo tanto attesa in ragione delle innovazioni tecnologiche e delle trasformazioni dei modelli di insediamento abitativo, lungi dal prendere una posizione espressa sulla tematica inerente l’esatta natura giuridica da attribuire al condominio, ha comunque introdotto diverse modifiche che, secondo alcuni interpreti, potrebbero contribuire ad avvalorare la tesi favorevole al riconoscimento della soggettività giuridica in capo allo stesso ente, anche se tale questione non pare ancora aver trovato una soluzione definitiva.

Sul punto la Cassazione reputa non sufficiente, perché si possa ritenere ravvisabile una sorta di personalità giuridica in capo all’edificio condominiale, che una pluralità di persone sia contitolare di beni destinati ad un fine comune.

Inoltre risulta agevole osservare che la tematica riguardante l’esatta configurabilità da attribuire all’istituto del condominio abbia un effetto dirompente su molte tematiche legate alla gestione dello stesso, in primis quella inerente la legittimazione del condominio ad agire in giudizio per far valere il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale sofferto dall’altrui condotta illecita.

Nello specifico, giova richiamare una recente sentenza della Cassazione a Sezioni Unite che, al fine di dirimere il contrasto sorto in seno alle Sezioni semplici, ha affrontato la questione della legittimazione a richiedere l’equa riparazione per la irragionevole durata del processo ex Legge n. 89 del 2001 (c.d. legge Pinto) in cui è stato parte esclusivamente l’amministratore condominiale.

In particolare, un primo orientamento giurisprudenziale, configurando il condominio quale mero ente di gestione delle cose comuni e sfornito di personalità giuridica, giungeva alla conclusione secondo la quale l’amministratore avrebbe potuto agire in virtù della sola delibera assembleare assunta a maggioranza, a differenza di quanto concerne i diritti che i condomini vantano uti singuli, per i quali sarebbe stato, invece, necessario lo specifico mandato di tutti i partecipanti.

Pertanto, l’amministratore avrebbe potuto promuovere l’azione risarcitoria solo se avesse ricevuto uno specifico mandato da parte di tutti i condomini ma non in virtù di una deliberazione assembleare assunta a maggioranza.

In base a codesta premessa, si è quindi ritenuto che il diritto all’equo indennizzo per l’irragionevole durata del processo non spetti all’ente condominiale, preposto unicamente all’amministrazione delle parti comuni, ma ai singoli condomini, i quali saranno legittimati ad agire per il risarcimento dell’eventuale patema d’animo sofferto in conseguenza della lungaggine processuale.

L’enunciato principio che ravvisa una titolarità esclusiva del diritto all’equa riparazione in capo ai singoli condomini è stato contrastato da un altro indirizzo giurisprudenziale che, al contrario, riconosce una legittimazione ad agire ex Legge del 2001 in capo all’ente condominiale.

Tale ultimo orientamento è stato fatto proprio dalla Suprema Corte a Sezioni Unite, la  quale, intervenuta di recente, ha precisato che in tema di equo ristoro per violazione del termine ragionevole di durata processuale, anche per le persone giuridiche così come per i soggetti collettivi, il danno non patrimoniale, inteso come danno morale soggettivo, è conseguenza normale, ancorchè non automatica e necessaria, dell’inosservanza dei termini processuali.

In particolare la Cassazione ha richiamato, a sostegno della propria tesi, la posizione assunta dalla giurisprudenza della CEDU secondo la quale anche alle persone giuridiche, non diversamente da quanto avviene per le persone fisiche, spetta il risarcimento del danno causato dai disagi e dai turbamenti di carattere psicologico che la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo provoca alle persone preposte alla gestione dell’ente o ai suoi membri.

Nello specifico, la Cassazione esclude che in capo all’amministratore condominiale, in difetto di mandato assembleare, sussista il potere di intraprendere azioni non conservative, quale quella relativa al diritto all’equa riparazione di cui alla Legge n. 89 del 2001, il quale è ancorato all’accertamento della violazione dell’art. 6 della  Convenzione per la salvaguardia di diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ossia di un evento autonomo e diverso da quello oggetto del giudizio presupposto, lesivo del diritto della persona alla definizione dei suoi processi in una durata ragionevole.

Siffatto principio che riconosce ai soggetti collettivi il risarcimento del danno non patrimoniale da durata irragionevole del giudizio si è consolidato con il tempo nella giurisprudenza della Corte di Cassazione con specifico riferimento anche alle società di capitali, oltre che alle società di persone.

La medesima giurisprudenza sopra richiamata ha, peraltro, puntualizzato che il diritto alla trattazione delle cause entro un termine ragionevole è riconosciuto dall’art.6 della Convenzione CEDU, richiamato dall’art. 2 della legge Pinto, solo con riferimento alle cause “proprie”, ossia esclusivamente in favore delle parti del processo, nel cui ambito si assume avvenuta la violazione.

In altri termini, la risarcibilità del danno non patrimoniale resta strettamente ancorata alla qualità di parte processuale e, di conseguenza, rimangono esclusi dalla possibilità di beneficiare del ristoro ex legge Pinto i soggetti che siano rimasti estranei al giudizio della cui durata si discute, essendo irrilevante, ai fini della legittimazione, che quest’ultimi possano aver patito indirettamente dei danni legati alla pendenza irragionevole del processo.

Pertanto, il singolo condomino che sia stato parte in senso formale nel processo presupposto è legittimato ad agire al fine di poter beneficiare del ristoro ex legge Pinto, unitamente al condominio in persona dell’amministratore.

Tuttavia, deve attentamente valutarsi il problema dell’eventuale duplicazione del risarcimento nel quale si incorrerebbe allorchè si verificasse una possibile partecipazione al giudizio anche del singolo condomino.

Tale tematica non è stata ignorata dalla Suprema Corte, la quale, al fine di ovviare alla possibile utilizzazione abusiva del processo ex legge Pinto, ha statuito che il pregiudizio risarcibile si ricollega non già alla situazione soggettiva che costituisce l’oggetto del processo presupposto ma alle sofferenze connesse alla protrazione ingiustificata del medesimo.

Ne consegue che appare necessaria ed imprescindibile, al fine di ritenere ammissibile la partecipazione al giudizio risarcitorio di un soggetto che non ha rivestito la qualità di parte ab origine, la sussistenza in capo a quest’ultimo di un interesse giuridico e non di mero fatto.

In pratica, secondo i giudici di piazza Cavour, per stabilire chi tra condominio e condòmini abbia legittimazione ad agire per ottenere l’indennizzo da durata irragionevole del processo è necessario valutare chi sia stato parte processuale nel procedimento protrattosi ingiustificatamente oltre il dovuto, unitamente all’oggetto del giudizio durato irragionevolmente troppo.

Invero, secondo la Corte esistono cause rispetto alle quali l’interesse collettivo condominiale è prevalente rispetto al diritto del singolo condomino, in quanto vi è differenza tra l’azione riguardante il diritto del singolo sulle parti comuni, durata troppo a lungo, rispetto alla causa per il recupero di un credito protrattasi esageratamente.

Difatti, nella prima ipotesi il condomino conserva la legittimazione ad agire per ottenere un equo indennizzo ai sensi della Legge n. 89 del 2001, purchè sia stato parte sostanziale nel processo presupposto, nella seconda ipotesi, invece, compete all’amministratore, se autorizzato dall’assemblea, procedere per l’irragionevole durata del processo, dal momento che il pregiudizio eventualmente sofferto riguarda la gestione delle parti comuni e non direttamente un diritto del singolo condomino.

In conclusione, il diritto ad ottenere l’equo indennizzo è stato riconosciuto anche a soggetti diversi dalle persone fisiche che subiscano un danno sia patrimoniale che non patrimoniale a causa dell’eccessiva durata del procedimento giurisdizionale, ponendo così fine all’annoso dibattito circa la presunta titolarità in capo agli enti di situazioni esistenziali da tutelare.

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