Tema svolto di diritto penale: gli effetti del mancato recepimento della direttiva n.115/2008.

Tema di diritto penale

Gli effetti della incompatibilità comunitaria sulla norma penale incriminatrice in materia di cittadinanza ed immigrazione

di P. Mattei

La tematica dei rapporti tra diritto comunitario ed ordinamento italiano è oggi particolarmente attuale ed è fonte, più che in passato, di spunti di rilevante interesse soprattutto in materia penale.

Ebbene, tali rapporti sono stati abbastanza complessi fin dal loro sorgere a fronte della ritrosia, sia dell’Italia che degli altri Stati membri della Unione Europea, a cedere frammenti di sovranità dell’ordinamento all’ordinamento sovranazionale.

Difatti, mentre già dagli anni ’70 – ’80 la Corte di giustizia della CEE affermava l’autonomia e la reciproca integrazione tra detti ordinamenti, nonché la prevalenza del diritto comunitario sui diritti nazionali in determinati settori, la  Corte Costituzionale italiana rivendicava la supremazia del diritto nazionale e  andava alla ricerca di una copertura costituzionale interna di fonti di derivazione comunitaria. Copertura questa, dapprima ravvisata negli articoli 10 e 11 della Costituzione – disposizioni tuttavia poco calzanti in ordine al ruolo del diritto comunitario nel nostro ordinamento, in quanto l’una atta a conformare il diritto interno alle norme internazionali pattizie e l’altra dettata in occasione dell’ingresso dell’Italia nelle Nazioni Unite – e solo in un secondo tempo nel più incisivo articolo 117 Cost.,  modificato in sede di riforma del titolo  V della Costituzione (ex lege Cost. 3/2001).

Al primo comma l’articolo 117 Cost. prevede, infatti, che la potestà legislativa sia esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione e di vincoli derivanti dal diritto comunitario, nonché dagli obblighi internazionali. Dunque nel nostro ordinamento le fonti comunitarie sono sovraordinate alla legge ordinaria ed equiparate alle norme costituzionali essendo soggette ai soli principi fondamentali della Costituzione.

Se ciò vale a livello generale, imponendo ai giudici nazionali di farsi garanti della  primazia del diritto comunitario, disapplicando le norme interne in contrasto con la fonte sopraordinata, assai discussa è tale pratica in ambito penalistico, ove vigono stretti principi di legalità e riserva di legge. E’ difatti solo con la legge ordinaria statale che si può esercitare la potestà normativa penale, incriminatrice e punitiva a garanzia del cittadino e della conoscibilità dei fatti di reato, come previsto dall’art. 25, comma 2, Cost. e dall’art. 1 c.p.. Se dunque, alla luce di tali disposizioni, nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente previsto dalla legge, né con pene che non sono da questa stabilite, ci si è domandati se possa riconoscersi agli organi comunitari una potestà penale incriminatrice, e che tipo di influenza abbia l’ordinamento comunitario su quello interno nel settore penale.

Quanto alla prima questione la risposta è sicuramente negativa. Nessuno degli organi della comunità europea, né il Parlamento, né il Consiglio, né gli altri  ha potestà normativa in materia penale. Da un lato perché nessuna delle norme dei trattati gliela conferisce (del resto la CEE prima e l’UE dopo, non sono nate con finalità di coordinamento della disciplina penale degli Stati, bensì con obiettivi economici e d’integrazione politica), dall’altro perché non hanno le caratteristiche per esercitare tale potere.

Ipoteticamente, solo la dialettica tra forze di maggioranza e d’opposizione, elette a suffragio universale, all’interno del Parlamento europeo potrebbe assicurare il corretto esercizio della potestà penale incriminatrice:  ciò è tuttavia escluso dalle funzioni tipiche di indirizzo politico attribuite a tale organo.

C’è chi tuttavia, non arrendendosi a tale dato, ha ravvisato il potere dell’ordinamento comunitario di creare norme penali incriminatrici negli articoli 229 e 280  TCE (organismi corrispondenti, dopo il trattato di Lisbona agli artt. 261 e 325 del Trattato sul funzionamento dell’UE). Tali disposizioni, l’una dedicata al potere sanzionatorio degli organi comunitari, l’altra al contrasto delle frodi contro gli interessi finanziari dell’Unione, concernono tuttavia settori specifici e nulla hanno a che fare con la potestà incriminatrice.

Se guardiamo invece all’ordinamento nazionale, una simile eventualità è scoraggiata già dall’articolo 2 Cost., sul riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo, e come già anticipato dall’art. 25, comma 2, Cost e dal principio di riserva di legge. Ciò significa che il nostro ordinamento non ammette ingerenze sovranazionali nella creazione delle norme incriminatrici, né delle relative sanzioni.  

A ben vedere, però, l’ordinamento comunitario ha inevitabilmente un’efficacia riflessa su quello interno, attraverso i regolamenti, direttamente efficaci, ed il recepimento delle direttive comunitarie. Ebbene tale efficacia riflessa opera a due livelli: da un lato limitando la punibilità di fattispecie, internamente perseguite, ove queste manifestino la loro incompatibilità con regole e principi comunitari; dall’altro ampliando la tutela dei beni giuridici rilevanti a livello sovranazionale.

Ciò sulla scia del principio di leale cooperazione degli Stati nel riconoscimento e nell’attuazione del diritto comunitario.

Quanto alla limitazione da parte del diritto comunitario, della punibilità per fattispecie previste dal diritto interno, se ne sono ravvisati esempi in materia di esercizio abusivo della professione (ex art. 348 c.p.) e di scommesse sportive.

Difatti, il principio comunitario della libertà di circolazione dei servizi, delle merci, delle persone e dei capitali, da un lato esclude l’incriminabilità per il delitto ex 348 c.p., di chi esercita una professione munita di titolo abilitativo acquisito in uno dei paesi membri dell’Unione europea; dall’altro tenta di ridurre le rigide regole del monopolio statale in materia di giochi e scommesse.

La corte di giustizia ha infatti ritenuto in contrasto con il principio comunitario della libera prestazione e circolazione di servizi la norma speciale nazionale (artt. 4, comma 4-bis, l. 249/1989) che preclude, a soggetti che collaborano con operatori comunitari stranieri  muniti di titolo abilitativo, di svolgere attività di gestione delle scommesse sportive.

Quanto invece all’intervento comunitario a difesa di beni giuridici rilevanti, se ne ravvisano esempi importanti in materia di protezione dell’ambiente.

Per quanto riguarda invece i rapporti tra i due ordinamenti richiamati sul tema della cittadinanza e dell’immigrazione, le problematiche più incisive da analizzare sono quelle inerenti l’ipotizzata abolitio criminis per i reati in materia di immigrazione clandestina, determinata dall’ingresso di nuovi Stati (Polonia, Romania e Bulgaria) in UE, nonché quelle connesse al mancato recepimento da parte dell’Italia della direttiva rimpatri 2008/115/CE.

Sulla prima questione occorre evidenziare che l’acquisto della cittadinanza comunitaria da parte di Rumeni e Polacchi ha posto la questione dell’eventuale caduta del presupposto  (“straniero”) del reato ex art. 14, comma 5-ter. TU immigrazione, commesso da tali soggetti prima dell’ingresso dei loro Stati di appartenenza in UE.

Buona parte della dottrina e delle corti di merito aveva infatti ravvisato, nel caso di specie, una modifica mediata della fattispecie penale incriminatrice, determinata dalla perdita dello status di “straniero”. Modifica che dava luogo, inevitabilmente, al fenomeno dell’abolitio criminis ex art. 2, comma 2, c.p., con conseguente assoluzione dell’imputato per il reato di ingiustificato trattenimento nel territorio dello Stato, con la formula “perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato”.

Le S.U. della Cassazione, pronunciatesi sulla questione, hanno tuttavia escluso una simile soluzione, evidenziando la sostanziale diversità tra la situazione materiale e giuridica dello Stato prima e dopo l’ingresso in U.E. e l’inammissibilità di un trattamento diversificato tra chi è sempre stato cittadino comunitario e chi lo è diventato in un secondo momento (come rumeni e polacchi) e prima di quel momento ha commesso reati legati all’immigrazione clandestina.

I cittadini rumeni sono dunque perseguibili per il reato di ingiustificato trattenimento nel territorio dello Stato Italiano commessi prima del’1.1.2007 (data d’ingresso della Romania in U.E.).

Se questa è stata la decisione della Corte di Cassazione sulla questione della cittadinanza, ben più complessa è la tematica inerente del mancato procedimento da parte dell’Italia, della diretta 115/2008/C.E.. Tale direttiva, in particolare, detta disposizioni sul rimpatrio degli stranieri irregolari che si trovano a circolare nei paesi membri dell’U.E., prevedendo nella sostanza o il loro immediato accompagnamento alla frontiera, ovvero il loro trattenimento temporaneo nei C.I.E., ai soli fini di attendere alle esigenze burocratiche connesse al rimpatrio.

Ebbene tale normativa non consente il trattenimento o la detenzione dello straniero per finalità diverse, tantomeno a titolo di incriminazione per l’ingiustificata permanenza nel territorio dello Stato.

Ciò posto risulta evidente l’incompatibilità di tale normativa, ispirata ad un certo “favor” per lo straniero clandestino, con la normativa italiana, caratterizzato invero da una certa repressività nei confronti di tali soggetti. In base al D.lgs. 286/98 e sue successive modificazioni e integrazioni, ci sono infatti varie fattispecie di rato che la condotta illegale dello straniero può integrare in relazione ad ingresso e trattenimento in Italia:

1)     l’articolo 10 bis, che punisce con l’ammenda, salvo che il fatto costituisca più grave reato, lo straniero che fa ingresso o si trattiene nel territorio dello stato in violazione delle disposizioni di cui al T.U. immigrazione (norma introdotta di recente dalla legge 94/2009);

2)      l’articolo 14 comma 5 ter, che punisce con la reclusione da uno a quattro anni lo straniero che senza giustificato motivo permane illegalmente in Italia in violazione dell’ordine di allontanamento del questore ex art. 14 comma 5bis T.U.;

3)     Articolo 14 comma 5 quater, che punisce con la reclusione da uno a cinque anni (pena così recentemente innalzata dalla legge 94/2009), lo straniero destinatario del provvedimento di espulsione del prefetto e di un nuovo ordine di allontanamento del Questore, che continua a permanere illegalmente nel territorio dello Stato (tale norma di recente è stata colpita dalla scure della Corte Costituzionale nella parte in cui non dispone quanto già previsto ex comma 5 ter art. 14, sulla punibilità in assenza di “giustificato motivo” di trattenimento nel territorio).

A fronte di tale contrasto tra la normativa comunitaria e l’ordinamento interno, la migliore dottrina ha sollevato varie proposte di soluzione: taluni hanno sostenuto, in spregio alla c.d. “primauté” del diritto comunitario, che si dovesse attribuire comunque prevalenza alla disciplina del T.U. immigrazione, così rivendicando il principio di legalità e riserva di legge in materia penale.

Altri ancora hanno fatto appello all’efficacia riflessa dell’ordinamento comunitario su quello interno, proponendo che il Giudice penale disapplicasse il provvedimento di espulsione e l’ordine di allontanamento illegittimi, adottati in violazione del diritto comunitario e della nuova disciplina sui rimpatri.

Infine, autorevole dottrina, supportata da talune Corti di merito (primi tra tutti i Tribunali di Roma e Modica) ha riconosciuto l’efficacia self executing della direttiva rimpatri (data la chiarezza e la sufficiente precisione del suo contenuto) e la prevalenza di questa sulla contrastante previsione nazionale. E’ stata dunque teorizzata e predisposta la disapplicazione della norma interna contrastante con la direttiva, in particolare dell’art. 14 comma 5 ter T.U. immigrazione. Inoltre, mentre il Tribunale di Roma teorizzava tale soluzione, disponendo peraltro la previsione dell’abolitio criminis ex art. 2 comma 2 c.p. per i reati di ingiustificato trattenimento commessi prima della scadenza del termine di recedimento della direttiva rimpatri (24/12/2010); il Tribunale di Modica sollevava la questione innanzi alla Corte costituzionale per incompatibilità dell’articolo 14 comma 5 ter T.U. 286/98 con gli art. 3, 117, 11, 27 della Carta Fondamentale.

Frattanto, anche il Consiglio di Stato è intervenuto sulla questione, aderendo alla tesi dell’efficacia diretta ed immediata delle disposizioni comunitarie non recepite dall’Italia, con conseguente caducazione dei provvedimento inerenti il lavoro irregolare dello straniero, nei casi ove si esclude l’applicabilità del reato penale. Non solo. La questione è stata sollevata di recente innanzi alla C.G.E. in sede di rinvio pregiudiziale. In tale occasione la Corte ha fatto il punto sulla questione dell’incompatibilità del diritto interno e diritto comunitario, evidenziando come, alla luce di quest’ultimo, non possa ammettersi una normativa interna che incrimini ed applichi pene detentive allo straniero che violando ordini di allontanamento della Autorità amministrativa, si trattenga senza giustificato motivo nel territorio dello Stato.

E’ dunque evidente, alla luce di tale pronuncia, che molte norme del D.lgs. 286/98 rischiano di incorrere in incompatibilità con la nuova disciplina comunitaria.

 

Guarda anche

  • Reato di atti persecutori e omicidio aggravato.

  • L’incidenza dei sistemi di videosorveglianza nei reati contro il patrimonio

  • CONTINUAZIONE DEL REATO: LA SUA COMPATIBILITA’ CON IL GIUDICATO, LA RECIDIVA E I REGIMI PROCESSUALI CHE IMPLICANO UNO SCONTO DI PENA

  • Natura giuridica dell’aggravante dell’agevolazione mafiosa