Reato di atti persecutori e omicidio aggravato.

Di Vita Mansueto
Schema preliminare di svolgimento

  1. Legge n. 38 del 2009: disciplina del reato di atti persecutori; natura giuridica dell’aggravante di cui al comma primo, n. 5.1. c.p., ed analisi delle differenti tesi.
  2. Integrazione degli artt. 612 bis e del 575 c.p., aggravato: concorso tra fattispecie o applicazione della sola pena prevista per il delitto d’omicidio aggravato, ai sensi dell’articolo 576, comma primo, n. 5.1 c.p.
  3. Soluzione della vexata quaestio: il delitto di omicidio aggravato, ex articolo 576, c.1, n. 5.1. c.p, è qualificabile come un reato complesso. Analisi degli elementi costitutivi della fattispecie, in relazione a quelli previsti dall’articolo 84 c.p.
  4. Reato complesso ed elemento ulteriore, di tipo sostanziale, rilevante per la sua integrazione: contestualità, spazio-temporale, dei singoli fatti criminosi e loro collocazione, in una prospettiva finalistica unitaria.
  5. La soluzione delle Sezioni Unite 20 aprile 2021, n. 14916.
  6. Conclusioni: analisi delle conseguenze giuridiche e delle criticità della posizione avallata dall’organo nomofilattico.

    Svolgimento
    Il D.L. del 23 febbraio 2009, recante: ‘’Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori’’, convertito, con modificazioni, nella legge n. 38 del 2009, ha introdotto, nel nostro ordinamento, il reato di stalking e la circostanza aggravante di cui all’articolo 576, comma primo, n. 5.1. c.p.
    Il delitto di atti persecutori può qualificarsi come un reato comune, abituale di evento, giacchè richiede, ai fini della sua integrazione, la reiterazione di condotte persecutorie idonee alla produzione di un evento di danno, consistente nell’alterazione delle abitudini di vita, nel fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di una persona vicina. Per quanto attiene alla prova del perdurante e grave stato di ansia e di paura, è stato sottolineato, in giurisprudenza, che non sia richiesto l’accertamento di uno stato patologico, ma è necessario che le molestie dello stalker siano idonee a provocare un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio dell’individuo.
    L’elemento soggettivo del reato è il dolo generico, essendo sufficiente la volontà di porre in essere i comportamenti descritti nella norma e la consapevolezza dell’idoneità degli stessi a cagionare uno degli eventi enunciati nella medesima, non essendo rilevante la prefigurazione del risultato finale.
    Parallelamente all’introduzione della norma, che reprime le condotte persecutorie, il legislatore ha provveduto a modificare l’articolo 576 c.p., introducendo il comma 1, n. 5.1., il quale prevede che: “si applica la pena dell’ergastolo, se il fatto, preveduto dall’articolo precedente, è commesso dall’autore del delitto previsto dall’articolo 612-bis c.p. nei confronti della stessa persona offesa”.
    Orbene, proprio sulla natura giuridica dell’aggravante in parola e sul rapporto tra l’articolo 576, c.1, n. 5.1., e il reato di atti persecutori, la giurisprudenza e dottrina si sono più volte interrogate, giungendo a conclusioni, spesso, diametralmente difformi.
    Con riguardo alla natura giuridica dell’aggravante, si sono sviluppate due diverse posizioni.
    Una prima ricostruzione della fattispecie riconosce all’aggravante, di cui all’articolo 576, c.1, n. 5.1, cp una connotazione esclusivamente soggettiva, rinvenendosi la ratio dell’aumento di pena nella mera identità dell’autore dei reati in questione. Si deve, cioè, applicare una pena più grave all’agente, in virtù della sua qualità personale (poichè stalker), secondo il modello del “diritto penale d’autore”.
    La lettura della norma, nella sua interezza, fornisce, però, indicazioni di segno contrario; deve essere, in primo luogo, attribuito il giusto rilievo al dato letterale della disposizione in quanto, nella previsione circostanziale, si conferisce rilevanza non solo all’identità dell’agente, ma anche all’essere i due reati diretti contro il medesimo soggetto. La fattispecie incriminatrice, di cui all’articolo 612-bis c.p. è, dunque, menzionata, nella previsione della circostanza aggravante, attraverso l’indicazione del titolo di reato, dell’autore e della vittima della relativa condotta, ossia dei soggetti fra i quali l’azione persecutoria si svolge. Il predetto reato è, di conseguenza, riportato, all’interno della fattispecie aggravatrice, nella sua integrale tipicità.
    L’omicidio volontario è, pertanto, aggravato, nell’ipotesi in esame, non per le caratteristiche personali del soggetto agente, ovvero l’essere un persecutore, ma per ciò che egli ha fatto, vale a dire l’azione persecutoria nei confronti della persona offesa.
    Tale seconda soluzione consente, in particolare, di non incorrere in un’ipotesi di diritto penale d’autore, fenomeno in più occasioni avversato dalla Corte Costituzionale (si richiami, a titolo esemplificativo, la sentenza sull’aggravante della clandestinità), poiché violativo dei principi ispiratori la materia penale.
    Con l’espressione “diritto penale del nemico o diritto penale d’autore” si evoca la punibilità, o un aggravamento di pena, non in virtù dell’aver commesso un fatto offensivo di un bene giuridico, o qualificato maggiormente offensivo, ma per l’essere l’agente ricondotto ad una determinata categoria. Si è, cioè, sanzionati non per “quello che si fa” ma per “quello che si è”, in contrasto con un sistema improntato sul diritto penale del fatto e della colpevolezza.
    Il presupposto della “colpevolezza d‘autore” è che l’agente abbia conformato la propria vita al crimine ed il fatto tipico, da lui compiuto, costituisce un indicatore di tale personalità.
    Attribuire una connotazione soggettiva, all’aggravante in parola, comporterebbe, inoltre, un insieme di conseguenze giuridiche di non poco momento.
    Si consentirebbe, in primo luogo, un’applicazione dell’aggravante anche qualora l’agente abbia posto in essere le condotte persecutorie in un intervallo temporale notevolmente distante dal compimento dell’azione omicidiaria; in detta circostanza, l’aggravamento di pena diverrebbe automatico, poiché connesso all’essere l’agente uno stalker, senza che alcuna valutazione, circa l’offensività della condotta, potrebbe effettivamente compiersi.
    In secondo luogo, in occasione della configurazione dei reati, di cui all’articolo 612 bis e 575 c.p., aggravato ai sensi del 576 cp, si dovrebbe sempre concludere per il loro concorso, anche se da ciò ne potrebbe risultare la violazione del principio del ne bis in idem sostanziale.
    Si deve, quindi, prediligere un’interpretazione della fattispecie teleologica e orientata al rispetto dei principi costituzionali di materialità e offensività, in ragione della quale si riconosce, all’aggravante, una natura oggettiva.
    L’aggravamento di pena, in altri termini, troverebbe applicazione, non perché l’omicidio è commesso da un persecutore, ma perchè tale reato è preceduto da una condotta persecutoria della quale la morte costituisce l’esito.
    La soluzione menzionata sarebbe confermata dai lavori preparatori all’introduzione della circostanza aggravante, con il D.L. 23 febbraio 2009, n. 11, art. 1, comma 1, lett. a). Dagli stessi si desume, infatti, che l’integrazione normativa è stata giustificata dalla necessità di fronteggiare il fenomeno allarmante della commissione di omicidi, in danno delle vittime di atti persecutori, presupponendo, in tal modo, un aggravamento di pena, in occasione di un collegamento fra i due fatti criminosi.
    Effettuata questa premessa, relativa alla natura della circostanza, e concluso circa la sua integrazione, solo ove si ravvisi una connessione tra la condotta persecutoria e l’evento morte, definito come una conseguenza della prima, occorre, ora, comprendere se, all’integrarsi degli artt. 612 bis e del 575 c.p., aggravato, le due fattispecie concorrano, o se, invece, trovi applicazione solo la pena prevista per il delitto d’omicidio aggravato, ai sensi dell’articolo 576, comma primo, n. 5.1 c.p.
    Una prima conclusione potrebbe condurre a ritenere che, nel caso di specie, non si ravvisi alcuna delle ipotesi generali di esclusione del concorso di reati.
    Non è possibile, in particolare, ravvisare un caso di concorso apparente di norme, ai sensi dell’articolo 15 c.p., in quanto non si individua un rapporto di specialità, in astratto, tra le incriminazioni di omicidio volontario ed atti persecutori.
    L’ipotesi dell’esclusiva applicabilità di una sola delle norme incriminatrici ricorre ove, all’esito del confronto strutturale fra le fattispecie astratte e della comparazione degli elementi costitutivi, che concorrono a definirle, sia da escludere il presupposto della convergenza di norme. Tali condizioni non sono ravvisabili nel raffronto tra le articolazioni strutturali degli artt. 575 e 612-bis c.p., che non presentano elementi comuni nè con riguardo alle condotte (costituite, nella prima norma, da atti lesivi dell’integrità fisica e, nella seconda, da comportamenti minacciosi o molesti), nè per quanto concerne gli eventi (per il primo reato, individuato nella morte della vittima, e, per il secondo, nell’induzione nella stessa di stati di ansia, paura o timore per l’incolumità propria o di congiunti, ovvero nella costrizione della persona offesa all’alterazione delle proprie abitudini di vita).
    Si aggiunga che una soluzione difforme non potrebbe neppure ravvisarsi qualora si richiami il criterio, per l’operatività dell’articolo 15 c.p., dell’omogeneità degli interessi tutelati dalle norme, essendo i reati in discussione diretti ad offendere l’uno il valore della vita e l’altro quello della libertà morale della persona.
    Da tale assunto deriva, altresì, l’inoperatività del principio di sussidiarietà, al fine di individuare un‘ipotesi di concorso apparente di norme.
    Si avrebbe sussidiarietà, tra fattispecie penali, quando esse tutelano un medesimo bene giuridico in stadi diversi di aggressione; in tal senso, giova distinguere tra sussidiarietà espressa, quando la fattispecie si apra con apposite clausole di riserva, o sussidiarietà tacita, ovvero indirettamente desumibile dal raffronto tra beni tutelati. La distinzione tra norma primaria e norma sussidiaria si basa su una valutazione del minore o maggiore disvalore giuridico, o del grado di gravità, che l’ordinamento associa ad una data condotta, con riferimento al bene giuridico tutelato. Con riguardo al caso in oggetto, però, non si potrebbe invocare tale criterio, ai fini dell’esclusione del concorso di reati, in quanto i beni giuridici tutelati dalle norme sono, come sopraddetto, differenti.
    Irrilevante è, quindi, anche la clausola di riserva contenuta nell’art. 612-bis c.p., comma 1, (“salvo che il fatto costituisca più grave reato”), attesa la oggettiva diversità tra il fatto idoneo ad integrare il delitto, di cui all’art. 575 c.p., e quello riconducibile al paradigma normativo dell’art. 612-bis c.p.
    Sulla base di tali considerazioni, si dovrebbe, dunque, concludere che il delitto di atti persecutori concorre con quello di omicidio, pur se aggravato dalla commissione della condotta persecutoria, in danno della stessa vittima.
    Un riferimento normativo, per una differente soluzione della questione, si potrebbe, però, individuare nell’articolo 84 c.p.; si tratta di stabilire, infatti, se il caso in esame sia, o meno, riconducibile all’istituto del reato complesso.
    È alla particolare struttura normativa del reato complesso, per come delineata dall’articolo 84 c.p., che occorre avere riguardo per stabilire se, nel caso di specie, sussista o meno il concorso fra le disposizioni incriminatrici richiamate.
    La norma citata individua chiaramente due distinte ipotesi, rispettivamente denominate, in dottrina, come “reato composto”, costituito da elementi che di per sé integrerebbero altre figure criminose, e come “reato complesso circostanziato”, nel quale, ad una fattispecie-base, distintamente prevista come reato, si aggiunga, quale circostanza aggravante, un fatto autonomamente incriminato da altra disposizione di legge.
    La seconda di tali ipotesi è quella che evidentemente ricorrerebbe nel caso in esame, per la quale il reato-base di omicidio volontario è aggravato dalla commissione di un fatto, costituente il diverso reato di atti persecutori.
    Dal testo normativo emergono, peraltro, per il reato complesso, in genere, come per quello circostanziato, in particolare, alcune indicazioni di contenuto chiaro e indiscutibile.
    È, in primo luogo, necessario che l’elemento costitutivo, o la circostanza aggravante, del reato complesso abbiano ad oggetto un fatto oggettivamente identificabile come tale; occorre, altresì, che il fatto sia inserito nella struttura del reato complesso nella completa configurazione tipica con la quale è previsto quale reato da altra norma incriminatrice. Il fatto deve, infine, essere previsto dalla norma incriminatrice, che si assume configurare un reato complesso, quale componente necessaria della relativa fattispecie astratta, non essendone rilevante l’eventuale ricorrenza, nel caso concreto, quale occasionale modalità esecutiva della condotta.
    Sulla base di quanto sinora esposto, è possibile affermare che i tratti strutturali della fattispecie normativa del reato complesso, chiaramente rilevabili dalla formulazione letterale dell’art. 84 c.p., richiedono la previsione testuale di più fatti di per sé costituenti autonomi e diversi reati, puntualmente riconducibili a distinte fattispecie incriminatrici.
    Occorre ora verificare se i requisiti necessari per la ravvisabilità di un reato complesso, fin qui descritti, siano, o meno, sussistenti nella fattispecie aggravata del reato di omicidio di cui all’articolo 576 c.p., comma 1, n. 5.1, rispetto al reato di atti persecutori.
    L’orientamento, che propende per la conclusione negativa, incentra le sue argomentazioni sulla mancanza di un elemento strutturale del reato complesso, ossia la puntuale descrizione della fattispecie tipica del reato assorbito all’interno di quella del reato assorbente. Difetterebbe, in particolare, la riproduzione testuale del fatto aggravante in termini corrispondenti a quelli del fatto tipico del reato di atti persecutori. L’oggetto dell’aggravante si ridurrebbe, viceversa, ad un aspetto eminentemente soggettivo, inerente alla qualificazione del soggetto agente, come autore di una condotta persecutoria.
    La lettura della norma, nella sua interezza, fornisce, però, indicazioni di segno contrario, come già evidenziato; la fattispecie incriminatrice, di cui all’articolo 612-bis c.p. è menzionata, nella previsione della circostanza aggravante, nella sua integrale tipicità. Ebbene, se ne deduce che la fattispecie di omicidio aggravato, ex articolo 576, c.1, n. 5.1. c.p., presenti le caratteristiche strutturali del reato complesso circostanziato.
    A questo punto si tratta di verificare, alla luce della ratio e della collocazione sistematica dell’istituto, se sussistano ulteriori presupposti per la configurabilità del reato complesso.
    Secondo alcuni orientamenti giurisprudenziali e dottrinali, il reato complesso si configura in presenza anche di un collegamento sostanziale fra la condotta omicidiaria e quella persecutoria. In altri termini, pur ammettendo che la figura del reato complesso è il risultato di un’operazione legislativa di unificazione di reati, si considera rilevante individuare, alla base di tale costruzione normativa, un substrato sostanziale che riconduce i fatti ad un contesto criminoso esso stesso unitario.
    Guardando, in questa prospettiva, al testo dell’articolo 84, si nota che i caratteri del reato complesso sono costruiti come funzionali ad un effetto giuridico immediatamente ed espressamente indicato (“le disposizioni degli articoli precedenti non si applicano…”), ossia l’inoperatività dei meccanismi di cumulo sanzionatorio e la conseguente applicazione della sola pena edittale prevista per il reato complesso.
    Fra le disposizioni oggetto di richiamo dell’incipit della norma, rientra il concorso formale: la normativa dell’articolo 84 si connota come derogatoria rispetto a quella dell’articolo 81c.p. e il reato complesso ne emerge quale fattispecie di esenzione dal regime sanzionatorio del concorso formale, in quanto “assorbe” le pene stabilite per i singoli reati, in quella stabilita per il reato complesso. Questo rapporto fra le due disposizioni suggerisce la riferibilità delle stesse ad un fondamento sostanziale comune idoneo a giustificare la particolare disciplina sanzionatoria, prevista per il reato complesso; tale fondamento è identificabile nell’unitarietà dell’azione complessiva che comprende i fatti criminosi.
    Si pone, nella stessa linea argomentativa, la considerazione relativa alla ratio della previsione dell’articolo 84, ovverosia di evitare una duplicazione della risposta sanzionatoria, per gli stessi fatti, in violazione del principio del ne bis in idem sostanziale. È evidente che tale necessità si manifesta nel rapporto fra il reato complesso e i reati che lo compongono, contraddistinti da un contesto unitario, nell’ambito del quale maggiormente risalta la possibilità di una sproporzione nel cumulo di pene, previste per i fatti inseriti nella stessa azione criminosa.
    Vi sono, pertanto, convincenti ragioni sistematiche per le quali deve ritenersi che il reato complesso sia caratterizzato, oltre che dagli elementi strutturali, esplicitamente indicati dalla norma, anche da un ulteriore elemento sostanziale, costituito dall’unitarietà del fatto che complessivamente integra il reato, riconducibile a questa fattispecie.
    L’esistenza di tale presupposto è stata, peraltro, colta dalla giurisprudenza di legittimità nelle situazioni in cui la casistica concreta ha posto in rilievo la relativa problematica e, in tali occasioni, il concetto di unitarietà del fatto è stato arricchito di ulteriori connotazioni descrittive. Una di esse è stata ravvisata nella contestualità spaziale e temporale fra i singoli fatti criminosi, che compongono la fattispecie del reato complesso. In aggiunta a questo, però, si è posto in luce un altro aspetto.
    L’insufficienza della mera contestualità dei fatti criminosi è stata ribadita con riguardo ad un’ipotesi nella quale si richiede anche un legame finalistico, fra questi: è il caso della violenza sessuale commessa mediante minaccia. L’assorbimento dell’autonomo reato di minaccia, ex art. 612 c.p., in quello di violenza sessuale è stato, difatti, rigorosamente limitato ai casi in cui la condotta minacciosa sia strumentale alla costrizione della vittima a subire la violenza sessuale.
    Alla luce di queste indicazioni, si può sostenere che, ai fini dell’integrazione del reato complesso, sia necessaria la configurazione di un presupposto sostanziale, in aggiunta alle condizioni strutturali, previste dall’articolo 84 c.p.; il presupposto in esame, in particolare, richiede la contestualità di singoli fatti criminosi e la loro collocazione in una prospettiva finalistica unitaria.
    Il riconoscimento della natura oggettiva dell’aggravante, di cui all’articolo 576 c.p., rende coerente una lettura dell’articolo 84 c.p. che sottende l’esistenza del requisito sostanziale all’interno del reato complesso, ossia l’unitarietà finalistica dei fatti di omicidio volontario ed atti persecutori. Non vi è dubbio infatti che, se l’intento legislativo, alla base della previsione dell’aggravante, è quello di perseguire con maggiore severità l’omicidio costituente sviluppo della condotta persecutoria, è a questa dimensione fattuale che deve aversi riguardo per la definizione della fattispecie aggravante.
    Deve, però, escludersi che l’accoglimento della opzione interpretativa del reato complesso possa condurre all’irragionevole risultato di non consentire la punibilità della condotta persecutoria, nel caso in cui la stessa sia seguita, a distanza consistente di tempo, dall’omicidio della vittima, ad opera dello stesso persecutore. È del tutto evidente, infatti, che in una situazione di questo genere non si realizzerebbe il requisito minimo dell’unitarietà del fatto rappresentato dalla contestualità dei due reati, con conseguente impossibilità di configurare il reato complesso e, quindi, l’assorbimento del reato di atti persecutori in quello di omicidio.
    Non può definirsi dirimente l’osservazione critica relativa al raffronto con la disposizione aggravatrice dettata dall’art. 576 c.p., comma 1, n. 5, per i casi in cui l’omicidio sia commesso “in occasione della commissione di taluno dei delitti previsti dagli artt. 572, 583- quinquies, 600-bis, 600-ter, 609-bis, 609-quater e 609-octies”.
    Va premesso che la costante giurisprudenza di legittimità riconosce, nella citata disposizione del n. 5, una fattispecie di reato complesso, in forza specificamente della contestualità del reato di omicidio con taluno degli altri indicati nella norma. Ebbene, proprio la mancanza di un esplicito riferimento a tale contestualità, nella previsione di cui al n. 5.1, è stata considerata, nella prospettazione critica esaminata, quale indicativa dell’intento legislativo di escludere la configurabilità del reato complesso nel caso di concorso dell’omicidio con il reato di atti persecutori. Se, tuttavia, si tiene conto della presenza, fra le caratteristiche generali del reato complesso, dell’unitarietà del fatto in termini finalistici, oltre che contestuali, il riferimento letterale contenuto nell’art. 576, n. 5, alla sola contestualità, acquisisce un significato non solo diverso, ma addirittura opposto a quello attribuitogli nell’argomentazione in discussione. Il richiamo “all’occasionalità”, in altri termini, è volto a limitare la sussistenza dell’integrazione di una fattispecie complessa, ove l’omicidio venga commesso contestualmente a reati di maltrattamenti, lesioni deformanti, prostituzione e pornografia minorile e violenza sessuale, senza che rilevi il profilo di connessione teleologico-funzionale.
    La legge prevede, in dette ipotesi, una “soglia” di configurabilità del reato complesso diversa e di livello inferiore rispetto a quella generalmente richiesta per tale figura, in quanto limitata alla contestualità spazio-temporale tra i fatti.
    Il fatto che nella disposizione di cui al n. 5.1 non sia espressamente prevista la contestualità dei fatti di omicidio e atti persecutori, lungi dall’escludere, per tale fattispecie, la ravvisabilità del reato complesso, assume un valore contrario. Per i casi di cui al n. 5, l’esplicita previsione limita alla mera contestualità dei fatti il presupposto dell’assorbimento; nel delitto di omicidio aggravato, ex 576 n.5.1. cp., l’assenza del riferimento in esame ha l’effetto di ristabilire, per il caso in cui l’omicidio venga commesso dall’autore del reato di atti persecutori in danno della stessa vittima, il presupposto sostanziale del reato complesso, nella sua interezza. In tale ultima ipotesi, in particolare, la contestualità dei fatti criminosi non è sufficiente per l’assorbimento del reato di atti persecutori in quello di omicidio, se ad essa non si aggiunge, in concreto, l’unicità della prospettiva finalistica nella quale i fatti sono realizzati.
    Le conclusioni espresse sono state accolte da una recentissima pronuncia delle Sezioni Uniti, nel cui testo si rinvengono molteplici esempi applicativi dell’istituto del reato complesso e risposte ad obiezioni avanzate alla tesi in parola. L’organo nomofilattico, ad esempio, ha preso posizione circa la differente ipotesi in cui lo stalker ponga in essere il reato di lesioni.
    L’articolo 585 c.p., comma 1, prevede per i reati di lesioni un aumento della pena da un terzo alla metà ove ricorra alcuna delle aggravanti indicate nell’art. 576 c.p.; in tal modo, richiama per i predetti reati, fra le altre, l’aggravante della commissione del fatto, ad opera dell’autore di atti persecutori, in danno della stessa vittima. Il rapporto fra i reati di atti persecutori e lesioni è oggetto di un notevole dibattito in dottrina, giacché riconoscere al delitto di lesioni aggravate la natura di reato complesso, comporterebbe conseguenze paradossali. Si osserva, in particolare, che l’applicazione dell’art. 84 c.p., anche in questa ipotesi, porterebbe all’assorbimento del reato di atti persecutori nel reato di lesioni, che, pur tenuto conto dell’aumento di pena previsto dall’art. 585 c.p., per la richiamata aggravante, sarebbe meno grave, nel massimo edittale, del delitto di cui all’articolo 612-bis c.p. Sul punto va osservato che gli effetti eventualmente distorsivi, anche nelle conseguenze sanzionatorie, sarebbero nella specie imputabili alla scelta legislativa.
    Tali conseguenze indirette, in realtà, non sono in grado di superare gli argomenti che, per quanto detto, convergono nell’individuare la configurazione di un reato complesso anche nella fattispecie aggravata di cui all’art. 576, n. 5.1.c.p. A prescindere da questa osservazione, deve, peraltro, aggiungersi che gli effetti, di cui sopra, sono comunque notevolmente depotenziati, nella loro concreta ricorrenza, dalla portata che il requisito dell’unitarietà del fatto assume nel reato complesso; condizione che, lo si ribadisce, si dispiega interamente nella circostanza aggravante di cui al n. 5.1, in quanto non è limitata alla mera contestualità dei fatti, ma comprende anche l’inserimento di una valutazione della prospettiva finalistica.
    Nella pronuncia, le Sezioni unite sostengono che i fatti di lesioni si presentano, solitamente come collaterali all’azione del soggetto agente, che ha la sua mira essenziale nel controllo e nell’appropriazione della vita quotidiana della persona offesa. Nella normalità dei casi, pertanto, tali fatti non potranno essere considerati come inclusi nella prospettiva finalistica del contesto persecutorio, difettando, di conseguenza le condizioni per l’assorbimento della condotta persecutoria in quelle di lesioni, che manterranno la loro autonoma e specifica offensività. In questa visione prospettica della condotta criminosa, viceversa, l’omicidio del soggetto perseguitato si presenta, nell’esperienza giudiziaria, come il risultato estremo, ma, purtroppo, non infrequente, dell’intento di annullamento della personalità della vittima.
    Non è neppure sostenibile che la configurazione del reato complesso provochi un’irragionevole eliminazione, o riduzione, degli effetti sanzionatori di un reato grave, come quello di atti persecutori. È appena il caso di rammentare, a questo proposito, che l’affermazione di responsabilità per il delitto di omicidio aggravato comporta edittalmente la massima pena dell’ergastolo, ampiamente adeguata rispetto ad un fatto complessivo che comprende sia l’offensività propria dell’omicidio, che quella conseguente alla condotta persecutoria. Non è rilevante, in contrario, la possibilità che, trattandosi di un reato complesso circostanziato, l’aggravamento di pena, nella forma della sostituzione della pena detentiva temporanea, con quella perpetua, sia eliso da circostanze attenuanti, ove ritenute equivalenti o prevalenti. L’eventuale risultato del giudizio di bilanciamento fra circostanze, al quale il legislatore ha mantenuto piena operatività, anche nella fattispecie in esame, non può, quindi, costituire un elemento ostativo al riconoscimento di una configurazione giuridica, sostenuta da ragioni sia letterali che sistematiche.
    Alla luce di ciò, si comprende la pregevolezza del principio di diritto espresso dalla Corte di Cassazione, secondo cui la fattispecie del delitto di omicidio, realizzata a seguito di atti persecutori da parte dell’agente, nei confronti della medesima vittima, contestata e ritenuta nella forma del delitto aggravato ai sensi dell’art. 575 c.p. e art. 576 c.p., comma 1, n. 5.1 integra un reato complesso, ai sensi dell’art. 84 c.p., comma 1, ove si ravvisi il requisito dell’unitarietà del fatto.
    In presenza di questi elementi testuali e sistematici, una lettura nel senso del concorso dei reati si tradurrebbe nella sostanziale abrogazione della disciplina del reato complesso e, per altro verso, nel duplice addebito, a carico del soggetto agente, del delitto volontario aggravato ex art. 576 c.p., comma 1, n. 5.1 e di quello di atti persecutori, in violazione del principio generale del ne bis in idem, nei suoi aspetti sia processuali che sostanziali.
    Si possono ora analizzare le conseguenze e le criticità della posizione espressa ed avallata dall’organo nomofilattico.
    Le Sezioni Unite, in primo luogo, ribadiscono, con riferimento ai requisiti strutturali, che perché possa parlarsi di reato complesso occorre che i reati-componenti convergano nella fattispecie assorbente completi di tutti i propri elementi oggettivi e soggettivi; si tratta, invero, di un principio ormai consolidato nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, che concepisce la complessità come un rapporto strutturale intercorrente tra fattispecie astratte, ossia quale unificazione, a livello normativo, di tutti gli elementi che integrano ipotesi tipiche di reati tra loro differenti. In virtù di tale qualificazione, si deve, pertanto, concludere per l’esclusione, dal campo di applicazione dell’art. 84 c.p., della figura del cosiddetto reato complesso in concreto, o eventualmente complesso (caratterizzato dal fatto che un elemento particolare della fattispecie possa in alcuni casi, quindi, non necessariamente, essere costituito da un altro reato).
    Maggiormente innovativa è l’affermazione relativa agli ulteriori presupposti, di carattere sostanziale, del reato complesso.
    La Corte di legittimità, in questo modo, si pone in linea con quegli orientamenti dottrinali che, allo scopo di attribuire all’articolo 84 c.p. una funzione specifica e distinta rispetto a quella dell’articolo 15, hanno rinvenuto il fondamento del reato complesso nell’esistenza di una connessione sostanziale tra i reati oggetto di unificazione normativa, e in particolare di un vincolo di carattere teleologico-funzionale tra i medesimi. Secondo tale concezione, che ora sembra essere stata accolta anche dalle Sezioni Unite, proprio l’esistenza di un simile vincolo giustifica la scelta legislativa di unificare più figure di reato, in un reato complesso, applicandovi una pena unitaria; in quei casi in cui tale connessione sostanziale, in concreto, non sussista, non si rientrerà nel campo di applicazione dell’articolo 84, ma tornerà ad operare la disciplina ordinaria in tema di concorso di reati.
    La ricostruzione dogmatica, in questi termini, dei profili generali del reato complesso ha alcune dirette conseguenze applicative sul delitto di omicidio aggravato dall’essere stato commesso dall’autore del reato di atti persecutori.
    L’impostazione seguita, in primo luogo, preclude la possibilità di applicare l’articolo 576 c. 1 n. 5.1. c.p. in tutti quei casi in cui l’omicidio sia commesso dall’autore di precedenti fatti di stalking, nei confronti della stessa vittima, ma per ragioni che non hanno nessuna connessione con la precedente condotta persecutori: la figura complessa, per l’appunto, sussisterà nelle sole ipotesi in cui il fatto di omicidio rappresenti lo sviluppo finale della condotta persecutoria, in coerenza con il fondamento politico-criminale della norma in esame.
    La tesi interpretativa in commento, in secondo luogo, dovrà condurre a escludere la sussistenza della fattispecie aggravata in quei casi in cui tra il fatto di omicidio e gli atti persecutori sussista una significativa cesura temporale.
    In entrambi questi casi, non rinvenendosi requisiti della circostanza aggravante speciale, sarà ripristinata l’applicabilità delle regole ordinarie in tema di concorso di reati, le quali opereranno tra il delitto di atti persecutori e il delitto di omicidio in forma semplice, non aggravata.
    Ci si chiede, in aggiunta, a livello probatorio, quali elementi possano ritenersi necessari al fine di individuare il nesso funzionale tra la morte e la condotta persecutoria. Sembra che l’interprete si ritroverà a concludere circa la sussistenza degli elementi del reato complesso solo mediante una valutazione della connessione spazio-temporale, giacché l’elemento funzionale-teleologico sembra relegato più ad uno studio psicologico dell’agente, che non a dati fattuali oggettivi ulteriori.
    La soluzione accolta consente, però, di chiarire un profilo di incertezza concernente l’art. 576 c. 1 n. 5.1 c.p., e, in particolare, se, ai fini dell’applicabilità di tale norma, sia necessario che l’autore del delitto di atti persecutori sia stato condannato in maniera definitiva per questo reato. La risposta non può che essere negativa: il reato complesso è, infatti, una figura unitaria e pienamente autonoma rispetto ai reati che ne costituiscono gli elementi essenziali, cui il legislatore assegna una pena considerata adeguata in relazione al disvalore complessivo del fatto. Si tratta, pertanto, di un’unità legale non più scindibile nelle proprie componenti, che di conseguenza non dovranno essere oggetto di un procedimento penale a sé stante.
    Si ravvisa, dalla tesi avanzata, un differenziale trattamento, ove si è in presenza dell’ipotesi aggravata di cui al numero 5.1. o di cui al numero 5 dell’articolo 576. Nel primo caso, infatti, si richiederebbe un requisito ulteriore, per l’operatività dell’articolo 84 c.p., ovvero la connessione teleologica-funzionale, in aggiunta alla mera connessione spazio-temporale.
    Non sembra ragionevole tale differenza di trattamento, per lo meno di livello normativo, tra due fattispecie, che denotano entrambe un notevole livello di disvalore.
    Non del tutto convincente, in più, è il percorso motivazionale seguito per giungere a tale conclusione.
    Come già ricordato, i giudici di legittimità affermano che il fatto che la norma richieda espressamente un nesso di occasionalità tra il delitto di omicidio e gli altri reati elencati avrebbe l’effetto di far venir meno la necessità di accertare un rapporto di connessione finalistica tra i fatti in questione. In assenza di un collegamento di carattere teleologico o funzionale, tra i fatti rilevanti, tuttavia, il solo rapporto di occasionalità non sembra sufficiente a fondare lo specifico disvalore alla base della costruzione di un reato complesso, lasciando adito ad applicazioni irragionevoli. Tra l’altro, considerata la rilevanza attribuita dalle stesse Sezioni Unite, ai requisiti sostanziali del reato complesso, dei quali la prospettiva finalistica unitaria appare un elemento fondamentale, valorizzare fino a questo punto la scelta terminologica del legislatore, sembra un’operazione non pienamente coerente con le sue premesse.
    Profili di criticità emergono, poi, dall’obiter dictum delle Sezioni Unite relativo al rapporto tra lesioni e atti persecutori, in considerazione del rinvio operato dall’art. 585 c.p. all’art. 576 c.p.
    La pronuncia, nel tentativo di ovviare, almeno in parte, al problema di dover considerare assorbito il delitto di atti persecutori nel delitto di lesioni aggravate, punito meno severamente, giunge a sostenere che, nella maggior parte dei casi, tra lesioni e atti persecutori non sussisterebbe quella “comune prospettiva finalistica” che invece caratterizza il rapporto tra atti persecutori e omicidio. Tale asserzione, che non viene supportata da precisi riferimenti criminologici, appare tuttavia non pienamente rispondente al senso comune, in quanto anche condotte lesive dell’altrui integrità fisica possano essere caratterizzate dallo scopo di condizionamento e annientamento della personalità della vittima.
    Sembra, quindi, l’assunto delle Sezioni Unite denotare una presunzione, pur se relativa, del tutto irragionevole.
    Il problema, piuttosto, avrebbe potuto trovare considerazione sotto un profilo non affrontato, ossia quello della continenza del reato complesso. La ratio alla base dell’art. 84 c.p. presuppone che la pena prevista dal legislatore, per il reato “assorbente”, sia proporzionata e adeguata in relazione al disvalore penale delle fattispecie “assorbite”: in questa prospettiva, dunque, non sarebbe forse scorretto sostenere che il reato complesso non può assorbire quei fatti criminosi (come il delitto di atti persecutori) già di per sé sanzionati in modo più grave dello stesso reato complesso.

    Legislazione correlata
  • Codice Penale: artt.612-bis, 575, 576, c. 1, n. 5.1.

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