CONTINUAZIONE DEL REATO: LA SUA COMPATIBILITA’ CON IL GIUDICATO, LA RECIDIVA E I REGIMI PROCESSUALI CHE IMPLICANO UNO SCONTO DI PENA

CONTINUAZIONE DEL REATO: LA SUA COMPATIBILITA’ CON IL GIUDICATO, LA RECIDIVA E I REGIMI PROCESSUALI CHE IMPLICANO UNO SCONTO DI PENA

Il reato continuato è una figura peculiare di concorso di reati che, proprio a causa della sua particolarità, ha dato vita a controversie ermeneutiche la cui risoluzione è foriera di importanti e rilevanti conseguenze applicative e di disciplina.

Pertanto, si impone un’analisi preliminare che illustri, seppur sinteticamente, ratio, presupposti e disciplina della figura in oggetto.

Come noto, nell’ambito del concorso di reati si suole distinguere tra concorso formale e concorso materiale, che divergono notevolmente per il relativo trattamento sanzionatorio.

Più nel dettaglio, ai sensi dell’art. 81 comma 1° cp si ha concorso formale quando il soggetto agente con una sola azione od omissione viola diverse disposizioni di legge (concorso eterogeneo) oppure commette più violazioni della medesima disposizione di legge (concorso omogeneo). Con riguardo al trattamento sanzionatorio, il medesimo articolo prevede l’applicazione del c.d. “cumulo giuridico”, ossia la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave aumentata sino al triplo.

Viceversa, si ha concorso materiale di reati laddove la molteplicità di violazioni, in concorso omogeneo od eterogeneo, venga commessa con più azioni od omissioni.

In tale ipotesi, troverà applicazione il più gravoso “cumulo materiale”, ossia la somma aritmetica delle sanzioni previste per ogni singolo reato. Con la precisazione, però, che per evitare sanzioni sproporzionate (con violazione dell’art. 27 comma 3° Cost.) non potranno comunque superarsi i limiti edittali di cui agli artt. 71-80 cp.

Ebbene, il reato continuato si atteggia come figura “sui generis” perché rappresenta un’ipotesi di concorso materiale di reati considerato, però, “quoad poenam”, come un concorso formale.

Infatti, l’art. 81 comma 2° cp assoggetta al cumulo giuridico in luogo del cumulo materiale chi commette i reati con una pluralità di violazioni “esecutive di un medesimo disegno criminoso”. Altresì, il comma terzo specifica che la pena non può comunque essere superiore a quella che sarebbe applicabile a norma degli artt. 71-80 cp. Tale regola appare improntata ad una basilare ed elementare logicità: sarebbe un paradosso nonché un’elisione del favor sanzionatorio previsto se si consentisse al cumulo giuridico di superare il cumulo materiale.

E tale favor è confermato dall’importante legge 220/74 che ha esteso la disciplina del reato continuato non soltanto alle plurime violazioni della stessa legge ma anche “di diverse disposizioni di legge”. Pertanto, proprio perché può venire in rilievo sia un concorso omogeneo sia un concorso eterogeneo l’opinione dominante ritiene più corretto discorrere, piuttosto che di reato continuato, di “continuazione del reato”.

La ratio del trattamento sanzionatorio meno afflittivo è da individuarsi nel minor disvalore insito nella condotta di chi, pur commettendo una pluralità di reati, ha orientato il proprio percorso delinquenziale verso un unico scopo criminoso.

Se così è, risulta palese che il nucleo centrale della continuazione del reato è rappresentato proprio dal “medesimo disegno criminoso”, concetto che, pertanto, deve essere oggetto di un’attenta decodificazione.

Secondo l’opinione ormai consolidata, è indispensabile che tutti i reati commessi siano finalisticamente rivolti ad un unico scopo illecito, che deve essere stato programmato già ab origine. Ancora, non è necessario che il soggetto agente abbia ideato i reati in tutti i singoli elementi, essendo bastevole la rappresentazione dei loro elementi essenziali. Sempre secondo l’orientamento ormai consolidato l’esistenza di tale scopo unitario va accertata tenendo conto delle modalità della condotta, dei mezzi adoperati e del medesimo contesto spazio-temporale. A tale ultimo proposito, occorre sottolineare che pur essendo il medesimo art. 81 comma 2° cp a specificare che le violazioni possono essere commesse “anche in tempi diversi” è indubbio che il trascorrere di un tempo considerevole tra i reati rende più ostica la prova dell’esistenza di un “medesimo disegno criminoso”.

Da ultimo, un breve accenno merita il concetto di “violazione più grave “. Come detto, il reato continuato viene punito con la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave aumentata sino al triplo. A tal proposito, le Sezioni Unite hanno chiarito che la “violazione più grave” va individuata con riguardo alla cornice edittale prevista dal legislatore nella fattispecie astratta, tenendo conto, però, degli aumenti e delle diminuzioni discendenti da eventuali circostanze.

Ciò posto, delineati i contorni applicativi della continuazione del reato, è ora doveroso esaminare alcune questioni giuridiche delicate e controverse, la cui risoluzione ha dato vita a vere e proprie diatribe ermeneutiche.

In via preliminare, è stata a lungo dibattuta la compatibilità della continuazione con il giudicato.

In un primo momento storico, ancora legato al “mito dell’intangibilità del giudicato”, si riteneva che il passaggio in giudicato della sentenza di condanna interrompesse sempre il vincolo di continuazione. Pertanto, il successivo reato poteva essere trattato, al massimo, come una recidiva, anche qualora fosse stato commesso “in esecuzione di un medesimo disegno criminoso” con il reato già giudicato.

Tale chiusura netta risultava fondata su una gamma di argomentazioni. In prima battuta, si ritenevano sempre superiori i principi sottesi al crisma dell’intangibilità del giudicato: non soltanto il diritto dell’individuo a non essere sottoposto ad un secondo processo per lo stesso fatto (art. 649 cpp), ma anche l’interesse dello Stato ad evitare un’inutile e dispendiosa “messa in funzione” della macchina giudiziaria per reati ormai accertati definitivamente. Con specifico riguardo al reato continuato, si riteneva ostativa anche la mancanza di una norma di legge che attribuisse al giudice dell’esecuzione il potere di applicare la disciplina del reato continuato. Infine, si sosteneva che il riconoscimento di tale potere avrebbe implicato una sovrapposizione tra giudizio di esecuzione e giudizio di cognizione, in violazione del “favor separationis” che caratterizza i sistemi di tipo “accusatorio” come quello italiano.

Ebbene, tale orientamento ha, nel tempo, subito delle battute di arresto. In un primo momento, si è ammessa l’applicabilità della disciplina della continuazione per il reato accertato con una sentenza di condanna non ancora definitiva.

In successione di tempo, si assiste alla caduta della resistenza ad ammettere la continuazione anche con i reati il cui accertamento è già coperto dal giudicato, atteso il superamento del “mito del giudicato”.

Allo stato attuale, infatti, costituisce orientamento consolidato non soltanto nella giurisprudenza di legittimità (ex multis: sentenze Sezioni Unite “Gatto” ed “Ercolano”) ma anche in quella costituzionale nonché nella giurisprudenza della Corte Edu, il principio secondo cui il giudicato, pur essendo rivolto alla tutela di rilevanti e pregevoli esigenze di certezza del diritto, è comunque soggetto al bilanciamento con principi di pari grado. Pertanto, esso deve ritenersi recessivo nel bilanciamento con i diritti inviolabili dell’uomo, in primis la libertà personale. In tale ipotesi, di conseguenza, spetterà al giudice dell’esecuzione modificare la pena “in bonam partem” in ossequio al “favor rei”.

Ed infatti, è ormai asserzione consolidata la “doppia anima” del giudicato. Esso si compone di un “tratto rigido” concernente l’accertamento del fatto di reato e la responsabilità del reo, giammai modificabile in sede di esecuzione, e di un “tratto flessibile” riguardante il trattamento sanzionatorio. E’ proprio su quest’ultimo aspetto che il giudice dell’esecuzione può e deve intervenire, qualora lo impongano esigenze del “favor rei” e di tutela della libertà personale, a condizione che la modifica sia “in bonam partem”.

Con specifico riguardo alla continuazione del reato, alla luce di quanto esposto, se il reo ha commesso più reati avvinti dal nesso della continuazione ma, in sede di cognizione, sono stati trattati, ai fini sanzionatori, separatamente, allora la disciplina del reato continuato deve essere applicata in sede di esecuzione.

In tal modo, il reo beneficerà di un trattamento sanzionatorio adeguato e proporzionato al reale valore complessivo del fatto, così realizzandosi la funzione rieducativa della pena ex art. 27 comma 3° Cost.

La funzione rieducativa che la pena deve rivestire infatti, vincola, in prima battuta, il legislatore, nel momento della determinazione del minimo e del massimo edittale. Successivamente, tale funzione deve guidare il giudice di cognizione nel momento della commisurazione della pena in concreto ex art. 133 c.p. Ma tale funzione deve essere rispettata soprattutto nel momento in cui la pena viene eseguita, perché soltanto se il reo l’avvertirà come giusta si lascerà rieducare e non rimarrà sordo al suo richiamo.

Ed invero, lo stesso legislatore si è dimostrato sensibile alle argomentazioni sopraesposte, prendendo espressamente posizione a favore della compatibilità tra giudicato e continuazione.

Infatti, la legge 49/2006 ha modificato l’art. 671 comma 1° cpp, che ora espressamente stabilisce che, nel caso di più sentenze irrevocabili pronunciate in procedimenti distinti contro la stessa persona, il condannato o il PM possono chiedere al giudice dell’esecuzione l’applicazione della disciplina del reato continuato.

Il comma 2° specifica che la nuova determinazione della pena non può comunque essere superiore alla somma delle pene inflitte con ciascuna sentenza. Ancora, l’art. 187 disp. att. cpp. specifica che si considera violazione più grave quella per la quale “è stata inflitta la pena più grave “.

Ebbene, il legislatore, oltre a sancire espressamente la compatibilità tra continuazione e reato continuato, individua altresì i limiti del potere del giudice dell’esecuzione. Non soltanto, infatti, vige il limite edittale di cui all’art. 671 comma 2° cpp, ma l’applicabilità della disciplina del reato continuato è subordinata alla condizione che la stessa “non sia stata esclusa dal giudice di cognizione”.

Il riferimento è alla nota differenza, di stampo pretorio, tra “errore percettivo” ed “errore valutativo”. La continuazione può applicarsi in sede di esecuzione soltanto se il suo riconoscimento non sia stato scrutinato dal giudice di cognizione (“errore percettivo”) ma non quando egli non ha applicato la relativa disciplina per un errore di valutazione, seppur l’applicabilità della predetta disciplina ha formato oggetto del suo scrutinio.

Infine, per ragioni di completezza, si dà brevemente atto di una recentissima pronuncia delle Sezioni Unite che ha contribuito ulteriormente a chiarire il rapporto tra reato continuato e giudicato. La Suprema Corte ha ritenuto esistente un generale divieto di “reformatio in pejus” per il giudice dell’esecuzione non soltanto con riguardo alla determinazione finale della pena ex art. 671 comma 2 cpp, ma anche con riguardo ai singoli “reati satellite”. Pertanto, egli non può aumentare la pena dei singoli reati satellite, nemmeno restando nei limiti di cui all’art. 671 comma 2° cpp.

E ciò trova giustificazione proprio nel “favor rei” e nell’ammissibilità dell’intervento “in executivis” soltanto se in” bonam partem”, le sole condizioni idonee a giustificare la flessibilità del giudicato e la parziale deroga al “favole separationis” tra sede di cognizione e sede di esecuzione. Tali principi precludono un intervento sfavorevole anche solo “pro quota”.

Da quanto esposto, si evince che sia giurisprudenza sia il legislatore hanno concorso a delineare i limiti di compatibilità tra continuazione e giudicato tramite un congruo bilanciamento tra tutti i principi sottesi.

Ebbene, non meno problematica è parsa la compatibilità tra continuazione e recidiva: questione che, al pari del giudicato, ha ricevuto un intervento quasi congiunto di giurisprudenza e legislatore.

La recidiva è una circostanza aggravante che comporta un aumento di pena per chi, già condannato per un reato, ne commette un altro.

Il “quid pluris” di offensività che giustifica l’aumento di pena è rappresentato dal disvalore e dalla maggiore pericolosità della condotta di chi si è dimostrato sordo al richiamo l’educativo della giustizia.

Le varie tipologie di recidiva trovano collocazione e disciplina nell’art. 99 cp. In modo particolare, degni di nota appaiono i commi 4° e 5°. Mentre, infatti, il comma 4° disciplina la cosiddetta “recidiva reiterata”, il comma 5° prevedeva un aumento di pena obbligatorio laddove il soggetto avesse commesso uno dei reati di cui all’art. 407 comma 2° lettera c) cpp. L’obbligatorietà è stata dichiarata illegittima dalla Consulta, poiché creava una sorta di “colpa d’autore”, legittimando l’aumento per la sola commissione del nuovo reato, impedendo all’A.G. la verifica della reale pericolosità dell’autore, tale da meritare l’aggravante.

Ancora, l’art. 69 comma 4° cp prevedeva, per una vasta gamma di reati, il divieto di bilanciamento tra attenuanti e recidiva reiterata, che poteva essere dichiarata soltanto prevalente od equivalente, giammai soccombente. Sulla disposizione si è abbattuta più volte la scure della Consulta, che ha ritenuto che il divieto di bilanciamento si esponesse al rischio di applicazione di una pena eccessiva e sproporzionata, non adeguata al reale disvalore del fatto commesso, con un vulnus, quindi, all’art. 27 comma 3° Cost.

Ciò posto, come si è accennato, problematica è apparsa la compatibilità della continuazione del reato con la recidiva.

In un primo momento, un certo orientamento era fortemente critico nei confronti dell’applicazione congiunta di continuazione e recidiva, ravvisando non tanto un’incompatibilità giuridica, bensì un’insanabile conflittualità logica e di opportunità.

Si riteneva, infatti, una contraddizione applicare il più favorevole cumulo giuridico a chi persiste nel rifiuto di orientare il proprio percorso di vita verso il rispetto delle leggi e dello Stato. Se si fosse consentita l’applicazione di un trattamento sanzionatorio più benevolo non soltanto si sarebbero vulnerate esigenze specialpreventive, ma anche generalpreventive, venendo meno ogni effetto deterrente.

La predetta ricostruzione non era condivisa da un’ulteriore tesi, che riteneva continuazione e recidiva semplicemente due istituti con finalità ed effetti diversi, quindi perfettamente compatibili.

Ed infatti, mentre la recidiva mira a punire più severamente chi continua con pervicacia a percorrere la strada del crimine, viceversa il reato continuato consente di applicare una pena più favorevole a chi commette più reati “in esecuzione di un medesimo disegno criminoso”.

Ancora una volta, è intervenuto il legislatore: la legge 251/05 ha inserito nell’art. 81 cp un quarto comma, che stabilisce che qualora i reati in continuazione siano commessi dai soggetti ai quali sia stata applicata la recidiva reiterata l’aumento di pena non può essere comunque inferiore ad un terzo della pena stabilita per il reato più grave. Altresì, la stessa legge ha inserito il comma 2-bis all’art. 671 cpp, che richiama l’art. 81 comma 4° cp. Ebbene, anche se il legislatore ha richiamato espressamente soltanto la recidiva reiterata, esigenze di coerenza impongono di affermare la compatibilità della continuazione con tutte le forme di recidiva.

Di conseguenza, il giudice dovrà prima individuare la pena base, poi applicare l’aumento per recidiva e poi l’aumento per la continuazione.

Con la precisazione che, con riguardo ai recidivi reiterati, poiché l’art. 81 comma 4°cp mantiene fermi “i limiti indicati dal terzo comma”, la pena non può comunque essere superiore a quella che sarebbe applicabile in forza del cumulo materiale.

Ed ancora, sempre con riguardo ai recidivi reiterati, il legislatore ha previsto anche un’inderogabilità “in melius”, stabilendo che l’aumento di pena non può essere inferiore ad un terzo della pena stabilita per il reato più grave. In tal modo, si bilancia il favor del reato continuato con la pericolosità dimostrata da chi appare ricalcitrante ad abbandonare la strada del crimine, impedendo l’applicazione di un trattamento sanzionatorio eccessivamente benevolo che possa vulnerare esigenze general e specialpreventive.

Ed invero, è proprio il tenore letterale ambiguo e poco chiaro dell’art. 84 comma 4° cp a suscitare problematiche in tema di concreta applicazione congiunta di reato continuato e recidiva reiterata.

Innanzitutto, non è chiaro se l’aumento minimo imposto dalla disposizione vada calcolato sulla pena in astratto o in concreto. Sembrerebbe comunque doversi propendere per la seconda soluzione, atteso che il legislatore ha usato l’espressione “pena stabilita”. Ancora, non è nemmeno chiaro se “l’aumento di pena” vada riferito all’aumento per i singoli reati satellite oppure a quello complessivo per la pena base. Attesa la scarsa chiarezza, forse dovrebbe interpretarsi come aumento complessivo, per evitare un incremento di pena eccessivo.

Ma è soprattutto l’ambito soggettivo della disposizione a risultare opaco, poiché l’espressione “soggetti ai quali sia stata applicata la recidiva reiterata” è di difficilissima interpretazione. Infatti, lascia perplessi l’utilizzo, da parte del legislatore, del verbo “applicare” riferito ad una circostanza, poiché è noto che le circostanze non si “applicano”, bensì si “dichiarano”, poiché ad essere “applicato” è solo l’aumento o la diminuzione di pena. Ma allora, il termine “soggetti quali sia stata applicata” ex art. 84 comma 4° cp appare un termine ancipite: esso può intendersi sia come riferito soltanto a coloro ai quali è stato concretamente applicato un aumento di pena per la recidiva sia come comprensivo anche di coloro ai quali l’aumento non è stato applicato poiché la recidiva è stata ritenuta soccombente o equivalente nel bilanciamento con altre circostanze. Quest’ultima è un’evenienza più che reale, poiché, attese le plurime dichiarazioni di incostituzionalità già citate che hanno colpito il divieto di bilanciamento della recidiva reiterata, l’.A.G. ha, adesso, un maggiore spazio di manovra per poter dichiarare tale recidiva anche soccombente. Pertanto, è di primaria importanza individuare correttamente l’ambito applicativo dell’art 84 comma 4°, poiché l’aumento minimo imposto attenua almeno in parte il favor del reato continuato.

Una prima tesi ritiene che la predetta espressione, di certo poco felice, vada intesa come riferita soltanto ai soggetti ai quali sia stato concretamente e realmente “applicato” l’aumento di pena per la recidiva reiterata, ma non anche a coloro ai quali tale aumento non è stato applicato poiché la recidiva è stata ritenuta equivalente/soccombente. Innanzitutto, è la “consecutio” temporale operata dal legislatore a suggerire tale soluzione: la formula linguistica “sia stata applicata” è rivolta al passato, pertanto richiede che la recidiva si è stata realmente già “applicata”. Ancora, l’aumento di pena denota un giudizio valutativo sulla maggiore pericolosità del reo, idonea, quindi, a neutralizzare il favor del reato continuato tramite l’aumento minimo obbligatorio dell’art. 84 comma 4° cp. Viceversa, tale disposizione non può trovare applicazione in ipotesi di mancato aumento, poiché la recidiva, in tal caso, non è stata” applicata”.

Un’altra lettura ritiene che il legislatore, con tale espressione fuorviante, abbia inteso riferirsi non all’aumento di pena ma al riconoscimento della recidiva e, dunque, al giudizio sulla maggiore pericolosità del reo. Pertanto, anche laddove la recidiva venga dichiarata soccombente/equivalente e non venga aumentata la pena, il giudice ha comunque dato atto della sua esistenza, poiché l’ha sottoposta al bilanciamento e, dunque, l’ha “applicata”. Pertanto, anche in questa ipotesi deve trovare applicazione l’aumento minimo ex art.84 comma 4° cp.

Come si evince, la questione risulta ancora aperta e dibattuta, con un vulnus alle esigenze di certezza del diritto.

Ed ancora, l’ultima questione da esaminare concerne la compatibilità del reato continuato con i regimi processuali che implicano uno sconto di pena.

Viene immediatamente in rilievo il giudizio abbreviato, disciplinato dagli artt. 438-443 cpp.

Ai sensi dell’art. 438 comma 1 cpp l’imputato può chiedere che il giudizio sia definito all’udienza preliminare allo stato degli atti.

Con la scelta di tale rito l’imputato ottiene, preliminarmente, la definizione della controversia in tempi celeri. Ma, soprattutto, ottiene un grosso sconto di pena. Infatti, ai sensi dell’art. 442 comma 2° cpp, se si procede per una contravvenzione, la pena è diminuita della metà, di un terzo se si procede per un delitto. Alla pena dell’ergastolo viene sostituita la reclusione di anni 30, all’ergastolo con isolamento viene sostituito il “solo” ergastolo.

Ebbene, se il soggetto si è reso responsabile di più reati e i medesimi risultano avvinti dal nesso della continuazione, nulla osta all’applicazione della disciplina del reato continuato anche in sede di rito abbreviato.

La scelta del rito speciale non comporta nemmeno la preclusione del riconoscimento della continuazione in sede di esecuzione: l’art. 187 disp. att.cpp. rinvia alla disciplina del reato continuato, prevedendone l’applicabilità “anche quando per alcuni reati si è proceduto con giudizio abbreviato”.

Ed invero, problemi applicativi sorgono laddove soltanto per alcuni reati avvinti dal nesso della continuazione si sia proceduto con l’abbreviato e la “violazione più grave” ex art. 81 comma 2° cp è da ravvisarsi proprio in uno dei reati giudicati con il rito speciale.

Occorre, pertanto, discorrere se la diminuzione di pena ex art. 442 comma 2 cpp vada applicata soltanto ai reati puniti con il rito speciale oppure a tutte le fattispecie avvinte dalla continuazione.

Una prima tesi suggerisce l’utilizzo di un criterio omogeneo di calcolo, pertanto ritiene di applicare lo sconto di pena per tutti i reati in continuazione. Di conseguenza, occorrerà prima determinare la pena base, poi individuare la violazione più grave con il relativo aumento di un triplo e solo dopo applicare la diminuzione.

Un altro orientamento, all’opposto, ritiene di dover applicare lo sconto di pena previsto per il rito abbreviato soltanto ai reati giudicati con tale rito. Dunque, occorre determinare la pena base, poi applicare lo sconto di pena e dopo procedere all’aumento per la continuazione. La seconda tesi ritiene la propria soluzione ermeneutica più coerente sia con lo spirito del meccanismo premiale del rito abbreviato sia con il principio di legalità della pena. Se è vero che per “pena legale” deve intendersi anche la pena discendente dal combinato disposto di tutte le norme di legge che concorrono a determinarne l’ammontare, è anche vero che il legislatore ha previsto lo sconto di pena soltanto per i reati per i quali l’imputato ha deciso di essere giudicato “allo stato degli atti”. Pertanto, il ricorrere del vincolo della continuazione non può giustificare un’estensione dello sconto di pena ai reati giudicati con il rito ordinario.

Infine, un ulteriore regime processuale che comporta uno sconto di pena è rappresentato dalla applicazione della pena su richiesta delle parti, nota come “patteggiamento”.

Ai sensi dell’art. 444 comma 1° cpp l’imputato e il PM possono chiedere al giudice l’applicazione, nella specie e nella misura indicata, di una sanzione sostitutiva o di una pena pecuniaria diminuita fino a un terzo, ovvero di una pena detentiva, diminuita fino a un terzo, che non superi i 5 anni. La legge individua i reati che, per la loro gravità, sono esclusi dal patteggiamento, nonché i meccanismi di superamento del dissenso del PM laddove il giudice lo reputi “ingiustificato”.

Ebbene, in nessuna preclusione incorre l’applicabilità del reato continuato in sede di patteggiamento, purché vi sia accordo delle parti e purché si rispettino i limiti dell’art. 444 comma 1° cpp. Pertanto, dovrà applicarsi prima l’aumento fino al triplo e poi procedersi allo sconto di pena.

Ancora, ai sensi dell’art. 188 disp. att. cpp., il PM e l’imputato, nel caso di sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti, pronunciate in procedimenti distinti contro la stessa persona, possono chiedere in sede di esecuzione l’applicazione del reato continuato, quando concordano sull’entità della sanzione e sempre che non vengano superati i limiti edittali previsti. Il giudice può accogliere la richiesta se ritiene il disaccordo del PM ingiustificato.

E’ palese che, attesa la natura “negoziata” della pena, in caso di accordo, il giudice di esecuzione non potrà esercitare i suoi poteri ex art. 671 cpp, poiché dovrà ritenersi vincolato alla statuizione concordata delle parti.

In conclusione, il reato continuato, pur se porta con sé un innegabile vantaggio sanzionatorio, è comunque foriero di dubbi ermeneutici.

Laddove difetti una chiara norma di legge, spetta alla giurisprudenza ricercare una soluzione coerente con tutto il sistema e con tutti i principi che lo sorreggono.

GM

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