Tema svolto: Successione di leggi penali e confisca antimafia

Tema diritto  penale: Successione di leggi penali e confisca antimafia

Di Simone Falerno

Tra le tematiche oggetto di maggiore discussione all’interno del diritto penale trova una posizione di privilegio quella inerente le confische. La declinazione al plurale è opportuna, stante la natura proteiforme degli istituti de quibus. La dottrina ha infatti osservato come siano unificate sotto la stessa denominazione fattispecie notevolmente differenti quanto a struttura, ratio e criteri applicativi. La confisca può assumere le vesti di una misura di sicurezza, di una sanzione amministrativa, di una misura di prevenzione, di una vera e propria pena. Appena il caso di ricordare che sul tema della qualificazione giuridica ha di recente inciso la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo la quale, in un’ottica sostanzialistica invero non estranea anche alla Corte di Giustizia europea, ha elaborato una nozione di pena che prescinde dall’etichetta legislativa, essendo viceversa legata alla cumulativa presenza di indici rivelatori della sua afflittività, quali, in particolare, il risultato cui essa conduce, i suoi presupposti e la competenza del giudice ad emanarla nell’ambito di un processo penale. La qualificazione della confisca in termini di autentica sanzione penale non è priva di conseguenze per il nostro ordinamento. Essa determina infatti l’applicazione delle garanzie che la nostra Carta Fondamentale riconnette alle fattispecie penali (in particolare, quelle di cui all’art. 25 comma 2 e 27 Cost). Un ruolo primario assume a tal proposito il principio di irretroattività, che impone l’applicazione della sanzione esclusivamente pro futuro. In ciò dunque vi è una fondamentale differenza rispetto al principio sancito dall’art. 200 c.p. con riguardo alle misure di sicurezza, che ne consente invece la retroazione. Un noto esempio della tendenza sovranazionale a verificare, al di là del nomen legislativo, la vocazione reale della misura, si è avuto con riferimento alla confisca urbanistica (in specie, nel noto caso Punta Perotti). In quell’occasione, la Corte Europea ha statuito che tale misura presenti i caratteri tipici della pena e, come tale, non possa essere disposta senza l’accertamento della riferibilità psicologica al reo della violazione. Nella stessa ottica si è proceduto con riguardo alla confisca prevista dal codice della strada la quale, essendo disposta anche qualora il veicolo sia incidentato, evidenzia (perlomeno secondo una opzione interpretativa) la propria natura sostanzialmente afflittiva, nonostante la qualificazione legislativa in termini di sanzione amministrativa.                                                                  Da ultimo, va evidenziato che la confisca può presentarsi nella forma diretta o indiretta. Nel secondo caso si parla di confisca per equivalente, in quanto essa non aggredisce beni che siano legati da un nesso pertinenziale con il reato (costituendone il prezzo, il prodotto o il profitto), bensì solo il loro equivalente monetario, sul presupposto del mancato rinvenimento dei primi. Evidente, in tale ultimo caso, l’accentuata funzione sanzionatoria della misura de qua. Non mirando infatti quest’ultima all’apprensione dei beni collegati al reato sembra voler annullare gli effetti positivi che il reo abbia tratto dalla sua commissione, in tal modo, di fatto, sanzionandolo. Sul punto, un recentissimo contrasto giurisprudenziale, inerente la possibilità di disporre questa tipologia di confisca all’ente nel cui interesse o vantaggio siano stati commessi reati tributari da parte del legale rappresentante, è stato composto dalle Sezioni Unite. Queste ultime hanno scelto l’opzione più rispettosa del principio di legalità, escludendo l’ammissibilità di tale misura, non essendo i reati tributari compresi nell’elenco dei reati presupposto (previsti dal d.lgs 231/2001) in grado di determinare la responsabilità dell’ente. Si è così rimarcato che la lacuna legislativa non possa essere colmata attraverso un’attività creativa della giurisprudenza, la quale deve invece attenersi al dato normativo.                                                                   Chiariti dunque sommariamente i profili oggetto di maggiore discussione in tema di confische, può ora esaminarsi il tema centrale della presente trattazione, concernente la confisca antimafia e i suoi rapporti col principio di successione di leggi penali. Giova, per una migliore comprensione della questione, una preliminare analisi dell’istituto che ci occupa.                                                                                                                                                 La confisca antimafia trae origine dall’esigenza di più efficace contrasto alla criminalità organizzata, resasi particolarmente pressante dagli inizi degli anni novanta, dopo che i fatti di Capaci e via D’Amelio ne hanno evidenziato la vocazione stragista. Infatti, le organizzazioni criminali operano essenzialmente per conseguire, in qualunque modo, la maggior quantità di profitti. E’ chiaro dunque che colpendo questi ultimi si infligge un duro colpo alle stesse, maggiore, probabilmente, di quello ottenibile attraverso le misure carcerarie. Invero, anche in questo caso, sarebbe più corretto parlare, più che di confisca al singolare, di confische antimafia, poiché si deve far riferimento a due distinte ipotesi. La prima, che trae fondamento dall’art. 12-sexies del d.l. n. 306/92, identifica una misura applicabile nel caso di commissione di numerosi reati, tra cui quello di associazione a delinquere di stampo mafioso. Essa vede quale principale presupposto legittimante l’emissione di una sentenza di condanna (il che sembrerebbe deporre per la sua natura sanzionatoria) e si dirige nei confronti dei beni sproporzionati rispetto al reddito dichiarato dal reo o alla sua attività economica e dei quali egli non riesca a giustificare la provenienza. La seconda, disciplinata oggi dal codice antimafia (d.lgs 159/2011) all’art. 24 da un lato differisce dalla precedente in quanto è applicabile in un momento anteriore alla sentenza di condanna (la norma parla di “persona nei cui confronti è instaurato il procedimento”, così trovando il suo dies a quo nell’inizio delle indagini preliminari), dall’altro vi è affine, nella parte in cui si riconnette agli stessi presupposti della sproporzione e della incapacità di giustificazione della legittima provenienza dei beni. Essa, tuttavia, prevede un ulteriore precisazione in grado di renderla maggiormente effettiva. L’art. 24, infatti, dispone l’applicazione della misura anche nei confronti di beni che comunque risultino essere il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. Proprio quest’ultimo riferimento è di grande importanza, in quanto consente l’aggressione di beni formalmente leciti ma che siano stati conseguiti attraverso l’utilizzo di fondi o beni direttamente collegati ad attività illecite. Giova ricordare che si registra un serrato dibattito giurisprudenziale, che ha portato alla rimessione della questione alle Sezioni Unite, circa la confiscabilità dei profitti derivanti dall’evasione fiscale realizzata dall’imputato (o dal condannato). Il punto nevralgico, su cui la Suprema Corte sarà chiamata a pronunciarsi, è costituito in definitiva dalla perimetrazione del concetto di attività illecite idonee a giustificare le misure in esame. Ci si deve chiedere infatti se esse possano essere legittime solo in quanto dirette a colpire beni conseguiti attraverso attività illecite, o se invece possano attingere altresì redditi conseguiti lecitamente, in grado però di transitare nell’area dell’illiceità nel momento in cui il soggetto sceglie di occultarli al Fisco. Non essendo questa la sede per esaminare esaustivamente la questione, deve rammentarsi che, sullo sfondo, si staglia l’ulteriore quesito inerente la possibilità di considerare i redditi non dichiarati ai fini della verifica della sproporzione tra il valore del bene e il patrimonio del reo (come visto, presupposto necessario per la disposizione di entrambe le confische antimafia), circostanza quest’ultima che determinerebbe senza dubbio un effetto in bonam partem per il reo, restringendo il perimetro applicativo delle misure in esame.                                                                                               Chiariti dunque i caratteri principali delle confische antimafia, va evidenziato che è con particolare riferimento a quella disciplinata dal d.lgs 159/2011 che sorgono i principali problemi di diritto intertemporale. Essa è stata infatti incisa da una importante riforma nel 2009, volta, nell’ottica di un più deciso contrasto ai patrimoni mafiosi, a dilatarne l’ambito di applicazione. Il legislatore ha scelto di prescindere dalla pericolosità attuale dell’imputato per la confisca dei beni. In altri termini, nella nuova formulazione, per disporre la confisca ci si accontenta della pericolosità originaria, cioè del collegamento tra i beni oggetto di apprensione e l’attività mafiosa (o comunque illecita) mentre non si richiede che il legame con l’associazione permanga fino al momento di disposizione della misura. In quest’ottica la prova del citato collegamento viene raggiunta non solo attraverso l’accertamento dell’incapacità dell’imputato (o indagato) di giustificare la legittima provenienza dei beni e la sproporzione del loro valore rispetto ai redditi dello stesso, ma anche attraverso la valutazione della circostanza che non vi sia stato un significativo iato temporale tra la presunta entrata del soggetto della consorteria criminale e l’acquisto dei beni. Questa precisazione è importante poiché evita l’indiscriminata acquisizione di beni che non siano necessariamente collegati all’attività illecita. Si pensi al caso di una impresa originariamente sana che venga inquinata solo in un secondo momento da capitali mafiosi. Valutando pertanto il presunto momento di entrata nella societas sceleris da parte dell’imputato si permette l’aggressione dei beni conseguiti solo successivamente a tale momento, salvando quelli acquisiti legittimamente in precedenza. Senza dubbio, tuttavia, l’eliminazione del requisito della pericolosità attuale del reo costituisce per quest’ultimo un effetto in malam partem, poiché consente la disposizione della confisca nei suoi confronti in un maggior numero di casi. Ci si chiede dunque se possa applicarsi la confisca antimafia nella sua rinnovata conformazione anche in procedimenti iniziati anteriormente la riforma del 2009. E’ evidente che la risoluzione della questione passa dall’accertamento della natura giuridica della confisca de qua, saldandosi così con quanto precisato in apertura della presente trattazione. L’opinione maggioritaria ritiene che l’istituto descritto dal d.lgs 159/2011 abbia natura di misura di prevenzione. Ciò determina che, a differenza di quanto avviene con le misure di sicurezza, l’apprensione dei beni non sia correlata alla necessità di evitare la futura commissione di reati ma a contrastare gli arricchimenti avvenuti illecitamente. La dottrina evidenzia che la finalità primaria della confisca antimafia è quella di espungere dal circuito economico beni che siano frutto di attività illecite e di contiguità mafiosa, in modo da annullare anche i possibili effetti distorsivi sulla concorrenza (posto che in molti casi il fenomeno trova linfa nella realtà d’impresa). La ricostruzione della confisca antimafia in termini di misura di prevenzione conduce a negarne la natura afflittiva, dunque penale. Ne consegue che non possano trovare spazio i principi penalistici scolpiti nella nostra Costituzione. In particolare, non può trovare applicazione il principio di irretroattività. Il che comporta che la modifica del 2009 dovrebbe essere in grado di produrre effetti anche nei confronti dei procedimenti già pendenti prima della sua introduzione. Un’opzione apertamente in contrasto con tale ricostruzione è stata sposata dalla celebre sentenza Occhipinti, la quale ha viceversa ritenuto che la confisca antimafia vada più correttamente inquadrata nell’alveo delle sanzioni penali. La circostanza che ormai si prescinda dall’accertamento della attuale pericolosità dell’indagato o dell’imputato costituisce, secondo tale sentenza, prova della natura sanzionatoria della misura. Dalla citata impostazione discende naturalmente l’ineludibile applicazione dei principi penalistici, con particolare riferimento a quello di irretroattività. Ne consegue che la modifica normativa, in quanto sfavorevole per il reo, dovrebbe trovare spazio esclusivamente pro futuro, dunque con riferimento ai procedimenti iniziati successivamente alla sua entrata in vigore. Ciò costituisce logica conseguenza della funzione di garanzia per il reo (in modo da dargli la possibilità di orientare consapevolmente le proprie scelte d’azione) che anima il predetto principio. Per altro esso trova una importante sponda nella Cedu, che eleva a principi fondamentali la conoscibilità e la prevedibilità del precetto penale. Giova ricordare che l’impostazione patrocinata dalla sentenza Occhipinti è stata accolta da voci discordanti in dottrina. Alcuni Autori non ritengono infatti che l’eliminazione del requisito dell’attualità della pericolosità del reo possa essere inteso come sintomo inequivocabile della (sopravvenuta) natura sanzionatoria della confisca antimafia. Si pone l’accento, viceversa, sui presupposti legittimanti della misura de qua che, come più volte ricordato, attengono alla impossibilità di giustificare la provenienza dei beni e la loro sproporzione valoristica rispetto ai redditi dell’imputato o indagato. A ciò si aggiunga che la giurisprudenza, in un’ottica garantistica, richiede anche che vi sia una correlazione temporale tra l’acquisizione dei beni e l’inserimento del soggetto nell’organigramma mafioso. Se ciò è chiaro, si osserva, è evidente che la logica della confisca non è quella di punire il soggetto, quanto quella di eliminare dal circuito economico i proventi dell’attività delinquenziale. In ciò non si coglie alcun intento sanzionatorio, e l’effetto contra reum si verifica solo indirettamente.                                   Alla luce di quanto esposto deve dunque ribadirsi che, a prescindere dalla soluzione che le Sezioni Unite decideranno di adottare, si conferma la centralità dell’accertamento della natura delle varie confische previste nel nostro ordinamento ai fini di delinearne lo statuto giuridico (in particolare, per risolvere i problemi di diritto intertemporale). In quest’ottica, stante la natura proteiforme delle misure de quibus, non può darsi una soluzione univoca, essendo viceversa necessario un attento esame dei singoli istituti, da condurre secondo l’approccio sostanzialistico imposto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

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