L’usucapione di immobile abusivo

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VISUALIZZA ESTRATTO LEZIONE SULLA QUESTIONE SPECIFICA (USUCAPIONE IMMOBILE ABUSIVO)

VISUALIZZA ESTRATTO LEZIONE SULLA QUESTIONE SPECIFICA (SERVITU’ MANTENIMENTO EDIFICIO A DISTANZE INFERIORI A QUELLE LEGALI)

L’usucapione di immobile abusivo

di Elvira Pianese

Estratto da Temi svolti per il concorso in magistratura, Dike, 2015 a cura di S. Ruscica

Elaborato contenuto nella dispensa di studio sui diritti reali del corso magistratura 2019

Schema preliminare di svolgimento della traccia:

–   Il concetto di usucapione e le sue caratteristiche (artt. 1163 e ss. c.c.).

–   Definizione di immobile abusivo secondo la Giurisprudenza della Cassazione.

–   Legislazione di settore: la legge sul condono edilizio n. 47/85 e il TU in materia urbanistica n. 380/01.

Dottrina

a. pomes, Usucapione di servitù apparente ed immobile abusivo tra norme civili e legislazione urbanistica in Dottrina e giurisprudenza commentata, n. 3, 2013.

d. palombella, L’immobile abusivo e la servitù non apparente sono usucapibili? Diritto e Giustizia 2012, 0, 1179.

Giurisprudenza

Cass. Civ., 04 giugno 2014, n. 12571

La mera detenzione di un appartamento non costituisce requisito valido a far decorrere il tempo utile per l’acquisto della proprietà.

A livello normativo appare utile richiamare l’art. 1144 c.c., la cui lettera recita che “gli atti compiuti con l’altrui tolleranza non possono servire di fondamento all’acquisto del possesso”, di talché chi “si gode” l’immobile con il placet del proprietario non lo sta possedendo in modo tale da poterlo usucapire.

Problema consequenziale è la dimostrazione della tolleranza, come anche, seppur specularmente, dell’”animus possidendi”, con ciò intendendosi la manifestazione del dominio esclusivo sulla res attraverso una attività apertamente contrastante ed inoppugnabilmente incompatibile con il possesso altrui.

Cass. Civ., 18 febbraio 2013, n. 3979

La mancanza di concessione edilizia non può costituire impedimento all’acquisto per usucapione, in presenza dei presupposti di cui all’art. 1158 c.c. e, cioè, del possesso ultraventennale della costruzione, con opere, quindi, visibili e permanenti, in presenza, inoltre, di un possesso continuo, non interrotto, non viziato da violenza o clandestinità. […] Il difetto di concessione edilizia della costruzione esula dal giudizio che attiene al rispetto della disciplina delle distanze la cui disposizioni attengono alla tutela del diritto soggettivo del privato e, d’altra parte, tale diritto non subisce alcuna compressione per il rilascio della concessione stessa, trattandosi di provvedimento amministrativo che esaurisce la sua rilevanza nell’ambito del rapporto pubblicistico tra l’amministrazione ed il privato che ha realizzato la costruzione. Consegue che la mancanza di detto provvedimento autorizzativo non può neppure incidere sui requisiti del possesso “ad usucapionem”, in linea, fra l’altro, con la sentenza di questa Corte n. 594/1990 (citata dal giudice di appello), laddove si afferma che l’esecuzione di una costruzione in violazione delle norme edilizie da luogo ad un illecito permanente e la cessazione della permanenza è determinata, fra le altre cause, dal decorso del termine ventennale utile per l’usucapione del diritto di mantenere la costruzione nelle condizioni in cui si trova. Conformemente a tale precedente giurisprudenziale, in più recenti pronunce di questa sezione è stato affermato il principio che, in materia di violazione delle distanze legali tra proprietà confinanti, deve ritenersi ammissibile l’acquisto per usucapione di una servitù avente ad oggetto il mantenimento di una costruzione a distanza inferiore a quella fissata dalle norme del codice civile o da quelle de regolamenti e degli strumenti urbanistici”

Cass. Civ., Sez. II, 19 dicembre 2012, n. 23452

L’attività di edificazione conserva la sua positiva valutabilità quale dimostrazione di possesso valido all’usucapione anche se il manufatto presenti profili di contrarietà alla legge urbanistica.

Cass. Civ., Sez. II, 23 gennaio 2012, n. 871

I poteri inerenti al diritto di proprietà, tra i quali rientra quello di esigere il rispetto delle distanze nelle costruzioni, non si estinguono per il decorso del tempo

I poteri inerenti al diritto di proprietà, tra i quali rientra quello di esigere il rispetto delle distanze nelle costruzioni, non si estinguono per il decorso del tempo, salvi, naturalmente, gli effetti dell’usucapione, che, in tema di violazione delle norme sulle distanze, può dar luogo all’acquisto del diritto (servitù prediale) a mantenere la costruzione a distanza inferiore a quella legale.

L’actio negatoria sevitutis” è azione imprescrittibile, con la conseguenza che il proprietario del preteso fondo servente può in ogni momento, e fatti salvi gli effetti dell’intervenuta usucapione, chiedere che venga accertata, per mancanza del titolo o del decorso del termine per l’usucapione, l’inesistenza di una servitù contraria al rispetto delle distanze legali, giacché, diversamente opinando, si configurerebbe, di fatto, l’acquisto di una servitù in base al possesso decennale e non ventennale, come invece disposto dall’art. 1158 cod. civ

T.a.r. Lazio, Roma, 24 marzo 2011, n. 2606.

È irrilevante la persistenza dell’opera da 20 anni, in quanto è comunque necessario il titolo edilizio per legittimare l’usucapione; il decorso del tempo non determina la consumazione del potere sanzionatorio in capo all’ente comunale, in presenza di un illecito permanente, qual è un abuso edilizio.

App. Roma, Sez. II, 24 gennaio 2008. 269

Non è nullo il contratto preliminare di vendita avente ad oggetto un immobile abusivo, in quanto tale sanzione deve ritenersi limitata ai trasferimenti con effetti reali, e non estesa anche ai contratti con efficacia meramente obbligatoria; tuttavia l’assenza di una sanatoria che elimini il carattere abusivo della costruzione, impedisce l’accoglimento della domanda volta ad ottenere l’emissione di una sentenza che produca gli effetti del contratto non concluso.

Legislazione correlata

Art. 40 legge n. 47 del 1985.

Art. 46 d.p.r. n. 380 del 2001.

Art. 1145 c.c.

SVOLGIMENTO

L’usucapione è un modo di acquisto a titolo originario della proprietà e di altri diritti reali di godimento, che si realizza mediante il possesso continuato del bene per il periodo di tempo stabilito dalla legge. Il fondamento dell’esistenza di tale istituto è racchiuso nel principio di certezza dei rapporti giuridici, ossia eliminare le situazioni di dubbio circa l’appartenenza dei beni e soddisfare quindi l’esigenza di circolazione della ricchezza. L’acquisto del diritto si realizza in via automatica, e può essere oggetto di accertamento in sede giurisdizionale, mediante una sentenza con valore dichiarativo. Infatti, non costituiscono elementi costitutivi né la buona fede né la sussistenza di un titolo astrattamente idoneo al trasferimento della proprietà o di altro diritto reale (al più tali ultimi due elementi posso incidere sull’usucapione determinando il periodo di tempo necessario per il compimento dell’acquisto); gli unici elementi essenziali sono il possesso e il tempo: il primo, ex art. 1163 c.c., deve rivestire le caratteristiche dell’evidenza, ossia essere palese, non rilevando il possesso conseguito nell’ignoranza dell’avente diritto, in particolare quando tale ignoranza sia stata indotta dal possessore e, in ogni caso, laddove l’avente diritto si trovi nell’oggettiva impossibilità di conoscere che altri eserciti il possesso sul bene; e della non violenza o clandestinità, ossia il possesso conseguito mediante atti arbitrari che si concretano nello spoglio del precedente possessore (in tale ultimo caso il termine per il compimento dell’usucapione inizierà a decorrere dal momento in cui la violenza o la clandestinità siano cessati).

Per ciò che concerne il tempo, esso deve rivestire la caratteristica della continuità: il possesso ad usucapionem non deve essere esercitato in modo saltuario o occasionale (tuttavia, autorevole dottrina ritiene che non sia ostativo, ai fini del compimento dell’usucapione, il fatto che il possesso venga esercitato ad intervalli, allorché il bene sia a ciò destinato e sempre che il godimento sia esclusivo: es. la servitù di una veduta). Il possesso, quindi, non deve essere interrotto neppure per fatto di un terzo e per eventi naturali. L’interruzione, infatti, si verifica quando il possessore sia privato del possesso per oltre un anno. Si suole distinguere due tipi d’interruzione: quella naturale, ossia derivante dall’effettiva perdita del possesso del bene che può derivare dal fatto naturale, da atto lecito o da spoglio (in questo caso l’interruzione si ritiene non avvenuta nel caso in cui sia stata proposta azione diretta a recuperare il possesso e questo è stato recuperato). Si parla di interruzione civile nel caso in cui vi siano atti giuridici idonei ad interrompere il termine per il compimento dell’usucapione: in questo caso l’interruzione consegue ad un’attività giuridica (non rileva l’atto stragiudiziale con il quale il proprietario diffida il possessore a restituire il bene). Inoltre per espresso richiamo normativo trovano applicazione le norme relative alla prescrizione sulle cause di sospensione (art. 1165 c.c.).

Si è detto che elemento fondamentale è il tempo e il suo decorso. La determinazione e la quantificazione del tempo necessario per usucapire è determinato ex lege: esso inizia a decorrere dal giorno successivo all’acquistodel possesso (si ricordi che il possessore può giovarsi dell’applicazione ex art. 1146 c.c., norme in tema di accessione e successione nel possesso). Il periodo in cui l’usucapione si considera esaurita è diverso a seconda della tipologia di beni oggetti del possesso. Infatti per l’acquisto di proprietà e di altri diritti reali su beni immobili e le universalità di beni si prevede il decorso di vent’anni (ex artt. 1158 e 1160 c.c.); così come per l’usucapione di beni mobili, ove il possessore versi in mala fede (ex art. 1161, co. 2 c.c.); mentre per i beni mobili iscritti in pubblici registri, deve maturare un periodo di dieci anni (ex art. 1162, co. 2 c.c.). Il codice civile, inoltre, prevede una serie di ipotesi di c.d. usucapione abbreviata, predisposte per la tutela del soggetto che agisce, ossia colui che possiede in buona fede: ad esempio la fattispecie prevista dall’art. 1159 c.c. con riferimento all’acquisto a non domino di un bene immobile. In questo caso, se l’acquirente ha acquistato in buona fede e sulla base di un titolo astrattamente idoneo all’acquisto, l’usucapione matura in dieci anni, sempreché sia stato debitamente trascritto. Il termine per l’usucapione decorrerà dal giorno in cui è avvenuta la trascrizione, che è elemento costitutivo della fattispecie acquisitiva. Analoga tutela della buona fede si verifica poi nei casi di acquisto a non domino di beni mobili registrati, in cui il periodo che deve decorrere è di tre anni (in unione al titolo astrattamente idoneo e alla trascrizione). L’usucapione abbreviata si verifica anche nel caso si tratti di beni mobili acquistati in buona fede: in tal caso, ex art. 1161 c.c. il termine necessario sarà quello decennale. Quest’ultima disposizione si differenzia da quella considerata nell’art. 1153 c.c., in quanto nell’ipotesi di usucapione abbreviata di beni mobili si prescinde dall’esistenza di un titolo astrattamente idoneo al trasferimento della proprietà o di altro diritto reale.

Oggetto di usucapione possono essere, quindi, diritti di proprietà, di comproprietà e gli altri diritti reali di godimento, escluse la servitù non apparenti, ex art. 1070 c.c. Non sono usucapibili, invece, le universalità di diritto, i diritti personali di godimento, i diritti reali di garanzia, i diritti su beni immateriali; ed ancora beni del demanio, del patrimonio indisponibile dello Stato e degli altri enti pubblici territoriali.

Illustrate le basi dell’istituto dell’usucapione, occorre ora tracciare la situazione per quanto riguarda l’immobile abusivo e la sua usucapibilità.

La giurisprudenza definisce un immobile (fabbricato o porzione di fabbricato) come abusivo quando è edificato in assenza di concessione edilizia ovvero in difformità rispetto alle prescrizioni della stessa: ai fini dell’alterazione patologica dell’atto, la totale difformità equivale alla mancanza di concessione.

Per fabbricato, invece, si intende qualsivoglia manufatto che importi una trasformazione del territorio di un certo rilievo destinata alla permanenza stabile: non certo una struttura modulare o prefabbricata con allocazione temporanea sul suolo idonea a soddisfare esigenze soltanto contingenti.

Per quanto invece riguarda le conseguenze della parziale difformità dalla disciplina urbanistica si ritiene che l’atto sia comunque valido, salva l’applicazione delle norme in tema di responsabilità del venditore. È possibile a questo riguardo fare riferimento a quanto sostenuto dal Consiglio nazionale del notariato con apposita circolare. In essa è riportato con evidenza che “al di fuori delle ipotesi di assenza di concessione o licenza e del vizio di totale difformità, gli altri abusi non impediscono la valida circolazione giuridica degli edifici o loro parti”. Lo stesso organo, poi, in altra circolare, evidenzia che “gli abusi di minore gravità possono determinare sanzioni di altro genere, ma continuano a non incidere assolutamente sull’attività negoziale (anche se su di essa va puntualmente richiamata l’attenzione delle parti)”.

In un recente passato si prevedeva per tali fattispecie l’applicazione delle sole sanzioni amministrative, tralasciando la sorte del contratto di vendita dell’edificio abusivo. Sul punto gli interpreti avevano indicato varie soluzioni circa le conseguenze civilistiche ricadenti sul contratto: da quella più drastica della nullità dell’atto traslativo, fino a quella della applicabilità della garanzia per vizi del bene venduto o della assoggettabilità della vendita alla risoluzione per inadempimento dell’alienante.

La soluzione al grave grado d’incertezza che si venne a determinare venne offerta dalla c.d. legge Bucalossi (Legge n. 10/77): l’art. 15 infatti stabiliva che gli atti giuridici aventi ad oggetto edifici abusivi dovevano ritenersi nulli se da essi non risultava che l’acquirente era a conoscenza di siffatta situazione giuridica.

La nullità era connessa non alla violazione di una norma imperativa, bensì alla situazione di ignoranza da parte dell’acquirente del fabbricato abusivo. È appena il caso di rilevare che si trattava di una sanzione che, nonostante l’espressa qualificazione in chiave di nullità, pareva più che altro posta a presidio di interessi privati. Con l’entrata in vigore della Legge n. 47/85, che ha prescritto l’abbattimento dei fabbricati costruiti abusivamente ovvero l’acquisizione degli stessi a titolo gratuito al patrimonio del Comune in cui si trovano, è stata sancita espressamente la nullità degli atti di vendita aventi ad oggetto edifici abusivi. La medesima sanzione è stata mantenuta dal T.U.Urb.ed Ed. (D.P.R. n. 380/01).

La sanzione della nullità viene più specificamente a colpire determinate specie di atti che sortiscono, in relazione a beni immobili, effetti traslativi non già semplicemente obbligatori. Al riguardo viene evocata sia l’attività edificatoria compiuta in difetto del necessario provvedimento amministrativo che valga a legittimarla, sia in sé e per sé il difetto di menzione nell’atto traslativo del titolo abilitativo all’edificazione, quand’anche esistente.

Le opposte tendenze perseguite dalla legge spiegano il singolare regime sanzionatorio previsto dalla normativa. Infatti, pur prevedendo la nullità, non si assoggettano ad invalidità gli atti di compravendita di edifici la cui originaria abusività sia stata successivamente oggetto di sanatoria, ovvero, sebbene non ancora sanata al momento della stipula del negozio, sia idonea a venir meno in seguito alla concessione in sanatoria ex silentio o in virtù di un provvedimento della pubblica Amministrazione, a condizione, tuttavia che l’alienante produca, in allegato al contratto, tutti i documenti aventi valenza di prova dell’avvenuta presentazione della domanda di concessione in sanatoria. Un rimedio di questo tipo, che accosta alla severa sanzione della nullità la conferma dell’atto nullo, sembra riproporre la stessa equivocità che caratterizza le finalità della legge. Infatti, pur costituendo prima facie un mezzo di tutela diretto a colpire in maniera netta esclusivamente i contratti relativi a immobili concretamente abusivi e non più suscettibili di sanatoria, sembra inadeguato di fronte alla fattispecie idiosincratica in cui un soggetto che alieni un edificio costruito con regolare concessione edilizia, ovvero un immobile abusivo ma con richiesta di concessione in sanatoria inoltrata all’Amministrazione competente, ometta per semplice negligenza di allegare la concessione o la domanda di concessione. La giurisprudenza e la dottrina maggioritarie propendono per una qualificazione della natura della suddetta nullità in senso testuale e documentale, riconducibile, nel sistema generale delle invalidità, all’ultimo comma dell’art. 1418 c.c. Infatti, è opportuno notare come la qualificazione della nullità in senso formale appaia in accordo con le finalità cui aspira la legge sul condono edilizio con riferimento alla tutela dell’acquirente. In realtà, la normativa consente di salvaguardare l’affidamento di quest’ultimo alla regolarità dell’immobile in quanto la dichiarazione dell’alienante, contenente gli estremi della concessione ad edificare o in sanatoria, rappresenta un adeguato strumento informativo relativo all’eventuale sussistenza di irregolarità. La sanzione invalidante permette, tra l’altro, di tutelare l’interesse generale alla prevenzione di comportamenti antigiuridici circa la costruzione di edifici abusivi poiché attraverso l’indicazione degli elementi formali si limita fortemente la circolazione dell’immobile. Infatti, la menzione degli estremi della concessione risulterebbe inattuabile in caso di assenza della concessione, la quale è un provvedimento amministrativo dell’autorità comunale. La nullità formale, quindi, assolve la funzione di porre extra commercium gli immobili abusivi.

A tal proposito, è bene tenere presente un recente intervento della Suprema Corte, chiamata in causa per rispondere ad una domande che potrebbe sembrar strana. Infatti la Suprema Corte nel 2013, in riferimento alla questione se sia possibile acquistare per usucapione immobili abusivi, ha chiarito che anche per il diritto di proprietà, benché imprescrittibile, opera la distinzione tra effetto estintivo ed effetto acquisitivo in relazione al decorso del tempo; quindi, coerentemente con la disciplina di tale diritto, comprensivo anche di quello al rispetto delle distanze legali, non vi è ragione per escludere, nell’ambito del rapporto privatistico, l’usucapione da parte del confinante del diritto a mantenere l’immobile a distanza inferiore a quella legale, ferma restando, nel rapporto tra privati e P.A., la disciplina pubblicistica dettata per la tutela delle prescrizioni urbanistiche di pubblico interesse. In tal modo, la Corte opera un chiaro bilanciamento di interessi: l’interesse del privato a non sottostare alla possibilità che il vicino possa agire in ogni tempo per il rispetto delle distanze legali, contemperato con la salvaguardia dei poteri riservati in materia alla P.A. che, in quanto autorità deputata al controllo del territorio, può incidere esclusivamente sul rapporto pubblicistico con il proprietario e responsabile dell’abuso, reprimendo l’illecito edilizio anche attraverso l’ordine di demolizione della costruzione eseguita in assenza o totale difformità o variazione essenziale della concessione edilizia.

Dunque, I poteri inerenti al diritto di proprietà, tra i quali rientra quello di esigere il rispetto delle distanze nelle costruzioni, non si estinguono per il decorso del tempo, salvi, naturalmente, gli effetti dell’usucapione, che, in tema di violazione delle norme sulle distanze, può dar luogo all’acquisto del diritto (servitù prediale) a mantenere la costruzione a distanza inferiore a quella legale. Inoltre è stato ribadito che l’azione per ottenere il rispetto delle distanze legali e, salvo gli effetti dell’eventuale usucapione, imprescrittibile, perché modellata sullo schema dell’”actio negatoria servitutis“, essendo rivolta non ad accertare il diritto di proprietà dell’attore, bensì a respingere l’imposizione di limitazioni a carico della proprietà suscettibili di dar luogo a servitù (Cass. 867/00; 12241/02). La giurisprudenza di legittimità ha spiegato che l’actio negatoria sevitutis è azione imprescrittibile, con la conseguenza che il proprietario del preteso fondo servente può in ogni momento, e fatti salvi gli effetti dell’intervenuta usucapione, chiedere che venga accertata, per mancanza del titolo o del decorso del termine per l’usucapione, l’inesistenza di una servitù contraria al rispetto delle distanze legali, giacché, diversamente opinando, si configurerebbe, di fatto, l’acquisto di una servitù in base al possesso decennale e non ventennale, come invece disposto dall’art. 1158 cod. civ.

Ma proseguendo oltre. Dalla lettera delle norme di cui agli artt. 17 e 40 della legge n. 47/1985 è chiaro che il legislatore abbia voluto conferire valore di validità alla sussistenza di determinate dichiarazioni. Al comma 4 dell’art. 40, è contenuta la previsione del rimedio della conferma dell’atto nullo per mezzo di un atto successivo “redatto nella stessa forma del precedente”, ed il riferimento alla “menzione” degli estremi della concessione ad edificare o in sanatoria. È opportuno precisare che proprio l’elemento della conferma non realizza tecnicamente la sanatoria in quanto non integra una vera e propria convalida, bensì una nuova dichiarazione di un atto già fornito di concessione e quindi sostanzialmente regolare: come afferma la Cassazione, infatti, la conferma è permessa “in dipendenza di carenze formali della precedente stipulazione e non in presenza dell’insussistenza all’epoca di essa, dei requisiti sostanziali per la commerciabilità del bene”. Seguendo la prospettiva sostanzialistica di una nullità virtuale derivante dalla legge n. 47/1985 si realizzerebbe un maggiore bilanciamento di interessi in quanto si garantirebbe un determinato grado di effettività nel traffico giuridico, posto che si comminerebbe la nullità ad ogni contratto che trasferisca diritti reali su beni immobili abusivi, in virtù della regola generale prevista a salvaguardia delle norme imperative dall’art. 1418, comma 1, c.c. Tale ricostruzione risulta, tuttavia, contraddetta da alcune considerazioni. In primo luogo, si osserva che dalla limitazione della sanzione civile ai soli atti immediatamente traslativi emerge che il legislatore non abbia voluto sottrarre completamente al traffico giuridico gli immobili privi di concessione, conservando la validità degli atti ad effetti obbligatori: l’elemento di disvalore assegnato all’abuso edilizio rileva solo in quanto la disciplina vieta di stipulare validamente contratti ad efficacia reale. In secondo luogo, si ravvisa come la nullità di cui all’art. 40 non discende dal difetto di uno degli elementi essenziali ma risulta espressamente prevista, rappresentando dunque uno dei casi ascrivibili al comma 3 dell’art. 1418 c.c. Ed infine, qualora prevalesse l’impostazione sostanzialistica della nullità si svuoterebbe di valore l’atto della concessione intesa come mezzo informativo, a beneficio dell’acquirente, relativo alla situazione giuridica dell’immobile oggetto del contratto. Sul piano rimediale dunque si osserverebbe una nullità formale, suscettibile di sanatoria con una successiva conferma, in caso di mancata indicazione degli elementi formali, ed una nullità sostanziale in ipotesi di assenza del provvedimento richiesto. Tale indirizzo conferma l’interpretazione formale della nullità prevista dalla normativa sul condono edilizio, posto che l’invalidità resta pur sempre collegata al mancato rispetto di prescrizioni di forma e, in determinate ipotesi, risulta sanabile per mezzo dell’istituto della conferma se la mancata indicazione degli estremi della licenza o della concessione edilizia non sia dipesa da insussistenza del provvedimento amministrativo al tempo del perfezionamento del contratto. L’obbligo formale vigente in capo al venditore è diretto a rendere edotto l’acquirente delle condizioni del bene o a consentirgli di compiere gli accertamenti sulla regolarità dell’immobile stesso attraverso il confronto tra la sua consistenza reale e quella risultante dalla concessione edilizia, ovvero dalla domanda di concessione in sanatoria. Tuttavia, non si prevede alcuna invalidità in seguito alla mera difformità della realizzazione edilizia rispetto alla licenza o alla concessione, per cui saranno attratti nella declaratoria di nullità o nell’impedimento alla pronuncia sostitutiva del preliminare ex art. 2932 c.c. solo gli atti relativi a immobili edificati in maniera tale da non potere essere ricondotti alla previsione contenuta nella licenza o nella concessione. L’interpretazione della nullità di cui all’art. 40 in senso formale consente alla normativa di adempiere ad una duplice funzione: da un lato quella generale, di ostacolo al fenomeno dell’abusivismo pur senza impedire ab imis la commerciabilità degli immobili irregolari; dall’altro quella particolare, di tutela dell’acquirente nel conoscere la situazione giuridica dell’immobile e perciò di essere maggiormente garantito al momento dell’acquisto.

Tornando alla disciplina dettata dal codice civile sovviene immediatamente la disposizione contenuta nell’art. 1145 rubricato in “Possesso di cose fuori commercio”. La norma recita, al primo comma, che “Il possesso delle cose di cui non si può acquistare la proprietà è senza effetto”. Ebbene l’art. 40, comma 2 della Legge n. 47 del 1985 stabilisce, per quanto di interesse, che “Gli atti tra vivi aventi per oggetto diritti reali, esclusi quelli di costituzione, modificazione ed estinzione di diritti di garanzia o di servitù, relativi ad edifici o loro parti, sono nulli e non possono essere rogati se da essi non risultano, per dichiarazione dell’alienante, gli estremi della licenza o della concessione ad edificare o della concessione rilasciata in sanatoria ai sensi dell’art. 31 ovvero se agli stessi non viene allegata la copia per il richiedente della relativa domanda, munita degli estremi dell’avvenuta presentazione, ovvero copia autentica di uno degli esemplari della domanda medesima, munita degli estremi dell’avvenuta presentazione e non siano indicati gli estremi dell’avvenuto versamento delle prime due rate dell’oblazione di cui al sesto comma dell’art. 35”. D’altro canto, l’art. 46 del D.P.R. n. 380 del 2001, rubricato “Nullità degli atti giuridici relativi ad edifici la cui costruzione abusiva sia iniziata dopo il 17 marzo 1985”, si esprime così: “Gli atti tra vivi, sia in forma pubblica, sia in forma privata, aventi per oggetto trasferimento o costituzione o scioglimento della comunione di diritti reali, relativi ad edifici, o loro parti, la cui costruzione è iniziata dopo il 17 marzo 1985, sono nulli e non possono essere stipulati ove da essi non risultino, per dichiarazione dell’alienante, gli estremi del permesso di costruire o del permesso in sanatoria. Tali disposizioni non si applicano agli atti costitutivi, modificativi o estintivi di diritti reali di garanzia o di servitù”.

Ora da una prima lettura delle tre norme si evince un quadro di assoluta inutilità di ogni atto o comportamento finalizzato all’acquisto della proprietà di immobili edificati in violazione delle norme urbanistiche. L’art. 40, comma 2, della Legge n. 47 del 1985 e l’art. 46 del D.P.R. n. 380 del 2001 impedirebbero l’acquisto a titolo derivativo, mentre l’art. 1145 del codice civile, sancendo l’inefficacia del possesso, impedirebbe l’acquisto a titolo originario tramite usucapione. Ma a ben vedere è diversa la finalità e il campo di applicazione delle norme considerate 8anche in considerazione delle ultime pronunce giurisprudenziali in materia).

Lo scopo dell’art. 1145 c.c. è di limitare gli effetti del possesso solo per i beni demaniali o equivalenti, mentre non si occupa e non può essere applicato alle edificazioni contrarie alle normative edilizie. Rientrano nella definizione di “cose di cui non si può acquistare la proprietà” e, sotto questo profilo, “fuori commercio” i beni demaniali o, comunque, i beni soggetti al regime dei beni demaniali. Siffatta posizione è condivisa dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, la quale chiarisce la definizione di “cose fuori commercio” menzionando “i beni demaniali o quelli soggetti al regime dei bei demaniali”. A contrario, lo scopo dell’art. 40, comma 2 della Legge n. 47 del 1985 e dell’art. 46 del D.P.R. n. 380 del 2001 è quello di inibire il fenomeno dell’abusivismo edilizio, ossia evitare la speculazione mediante atti dispositivi tra vivi di fabbricati abusivi. In forza di tali norme, le edificazioni non conformi alle normative edilizie non possono essere oggetto di commercio: esse sanciscono la nullità di ogni atto traslativo inter vivos (sono espressamente fatti salvi i trasferimenti mortis causa, mentre non sono fatte salve le divisioni di comunioni sorte a seguito di trasferimento mortis causa).L’art. 40, comma 2 della Legge n. 47 del 1985 e l’art. 46 del D.P.R. n. 380 del 2001 non riguardano l’acquisto della proprietà a titolo originario: non riguardano, quindi, l’usucapione. L’usucapione, infatti, non è in sé atto speculativoLa legge è chiara nel presupporre come atto d’acquisto dell’unità immobiliare (o come atto costitutivo di un diritto reale su di essa) un negozio giuridico frutto di autonomia negoziale. Si tratta in ogni caso di acquisto a titolo derivativo, che presuppone un soggetto, titolare di un diritto reale sul bene, che ne trasferisce ad altri la titolarità (così anche la Commissione studi civilistici). È ovvio pertanto che la normativa in discorso non trova applicazione per gli acquisti a titolo originario (usucapione, occupazione, accessione)A contrario, l’art. 1145 del codice civile, semplicemente dispone che il possesso di beni demaniali o equivalenti non produce alcun effetto – salvo quanto stabilito nei commi successivi – e, quindi, non consente l’usucapione. Ne deriva che un immobile abusivo può essere acquistato per usucapione, ma non può essere oggetto di successive speculazioni. Diversamente opina il giudice amministrativo, il quale rinviene nel titolo edilizio un elemento imprescindibile per legittimare l’usucapione. Il fondamento di una tale impostazione è da ricercarsi nell’inesauribilità del potere sanzionatorio della pubblica amministrazione al fine della repressione degli abusi, la quale rappresenterebbe un limite per l’usucapione in quanto il decorso del tempo, non consumando in alcun modo la facoltà di repressione della pubblica amministrazione e non potendo altresì legittimare l’affidamento del privato dinanzi ad una situazione contra ius non consentirebbe l’acquisto del diritto medesimo.

Dunque, secondo una prima tesi, il bene realizzato in assenza di un valido titolo edilizio non può essere acquistato per usucapione. Tale teoria troverebbe il proprio fondamento legislativo nel combinato disposto dell’articolo 1145 c.c., dell’articolo 40, comma 2, della Legge n. 47/85 nonché, da ultimo, dell’articolo 46 del D.P.R. n. 380/2001 (T.U. dell’Edilizia). In particolare, l’art. 1145 c.c. rubricato “Possesso di cose fuori commercio”, dispone, al primo comma, che “il possesso delle cose di cui non si può acquistare la proprietà è senza effetto”. D’altro lato, la L. n. 47/85 prevede la nullità degli atti traslativi della proprietà degli immobili abusivi mentre il T.U. dell’Edilizia vieta il trasferimento degli immobili realizzati dopo il 17/3/85 se privi di un titolo abilitativo dei lavori. In definitiva, è come se il Legislatore avesse voluto bloccare la circolabilità degli immobili realizzati in assenza di un titolo edilizio per cui gli atti di acquisto a titolo derivato sarebbero nulli mentre l’inefficacia del possesso impedirebbe l’acquisto a titolo originario tramite usucapione.

Secondo una diversa interpretazione, l’articolo 1145 c.c. troverebbe applicazione solo ed esclusivamente nei confronti dei beni demaniali o equivalenti e non (anche) nell’ipotesi di manufatti abusivi. In definitiva il concetto di “bene fuori commercio” prevista dalla norma civilistica, avrebbe un contenuto assai più limitato riferendosi solo agli immobili soggetti al regime dei beni demaniali. La Legge n.47/1985 ed il T.U. dell’Edilizia, dal loro canto, avrebbero solo la funzione di ostacolare la speculazione edilizia per cui, in tale prospettiva, sarebbe vietata la vendita del fabbricato abusivo.

In questo caso l’iter logico del Legislatore sarebbe semplicissimo: evitare la vendita dei beni abusivi in maniera tale da scoraggiare i costruttori senza scrupoli. Questi ultimi, se non potranno vendere il frutto della costruzione abusiva, saranno disincentivati dal realizzarli.

In conclusione si riprende una recente pronuncia della Cassazione, ordinanza n. 2044/15, in cui ancora una volta si ripetono gli elementi costitutivi dell’acquisto ad usucapionem; in particolare si legge “per la configurabilità del possesso “ad usucapionem”, è necessaria la sussistenza di un comportamento continuo, e non interrotto, inteso inequivocabilmente ad esercitare sulla cosa, per tutto il tempo all’uopo previsto dalla legge, un potere corrispondente a quello del proprietario o del titolare di uno “ius in re aliena“, un potere di fatto, corrispondente al diritto reale posseduto, manifestato con il compimento puntuale di atti di possesso conformi alla qualità e alla destinazione della cosa e tali da rilevare, anche esternamente, una indiscussa e piena signoria sulla cosa stessa contrapposta all’inerzia del titolare del diritto”.

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