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Tema svolto di diritto civile: il consenso in ambito medico.

Si soffermi il candidato sui limiti che si pongono in relazione agli atti ad efficacia dispositiva o traslativa aventi ad oggetto i diritti della persona, con particolare riguardo al consenso espresso in relazione agli interventi medico-chirurgici

di Serafino Ruscica

Schema preliminare di svolgimento della traccia

–    ‑L’autonomia negoziale e gli atti dispositivi aventi ad oggetto i diritti della personalità.

–    ‑Il problema del consenso dell’avente diritto in relazione al trattamento curativo.

–    ‑Il dissenso rispetto alle cure mediche e la disponibilità dei trattamenti di fine-vita.

Dottrina

Cupelli, Il “diritto” del paziente (di rifiutare) e il “dovere” del medico (di non perseverare), in Cass. pen., 2008, 5, 1807.

Gazzoni, Manuale di Diritto Privato, ESI, 2007.

Giurisprudenza

Cass. Civ., Sez. III, 4 ottobre 2007, n. 21748 e Cass. Pen., Sez. IV, 16 gennaio 2008, n. 11335

Il consenso informato riguarda la facoltà di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale. Di conseguenza non si può ritenere che dall’intervento effettuato in assenza di consenso o con un consenso prestato in modo invalido si possa sempre profilare la responsabilità a titolo di omicidio preterintenzionale, in caso di morte, oppure a titolo di lesioni volontarie perché il contenuto dell’elemento soggettivo di tali reati non è configurabile rispetto all’attività del medico, mentre il consenso eventualmente invalido perché non consapevolmente prestato non può ex se importare l’addebito a titolo di dolo.

Cass. Civ., Sez. IV, 24 giugno 2008, n. 37077

Intervenuta su una ipotesi di prescrizione di farmaci off label, medicinali somministrati per finalità terapeutiche diverse da quelle riconosciute ai farmaci stessi, ha confermato il fondamento costituzionale del criterio di disciplina della relazione medico-malato escludendo peraltro che dalla mancanza di valido consenso possa farsi discendere la responsabilità del medico a titolo di lesioni volontarie, o, nel caso di morte, di omicidio preterintenzionale perché il sanitario agisce con una finalità curativa concettualmente incompatibile con il dolo delle lesioni.

Corte d’Appello Milano, Sez. I civile, decreto 9 luglio 2008

Alla luce della logica orizzontale compositiva della ragionevolezza, nel caso di stato vegetativo permanente e, quindi, irreversibile, è possibile disporre l’interruzione del trattamento di sostegno vitale artificiale, laddove emerga l’inconciliabilità della propria concezione sulla dignità della vita con la perdita totale ed irrecuperabile delle proprie facoltà motorie e psichiche e con la sopravvivenza solo biologica del corpo in uno stato di assoluta soggezione all’altrui volere.

Cass. Civ., Sez. I, ordinanza 20 aprile 2005, n. 8291

Nell’ipotesi di eutanasia, lo stabilire “se sussista l’interesse al provvedimento autorizzatorio prima che l’attuabilità dello stesso, giuridicamente presuppone il ricorso a valutazioni della vita e della morte, che trovano il loro fondamento in concezioni di natura etica o religiosa, e comunque (anche) extragiuridiche, quindi squisitamente soggettive: con la conseguenza che giammai il tutore potrebbe esprimere una valutazione che, in difetto di specifiche risultanze, nella specie neppure analiticamente prospettate, possa affermarsi coincidente con la valutazione dell’interdetta.

Cass. Pen., Sez. Un., 18 dicembre 2008 – 21 gennaio 2009, n. 2437

Qualora il medico sottoponga il paziente ad un trattamento chirurgico diverso da quello in relazione al quale era stato prestato il consenso informato, e tale intervento, eseguito nel rispetto dei protocolli e delle leges artis, si sia concluso con esito fausto, perché dall’intervento è derivato un apprezzabile miglioramento delle condizioni di salute, in riferimento, anche alle eventuali alternative ipotizzabili, e senza che vi fossero indicazioni contrarie da parte del paziente stesso, tale condotta è priva di rilevanza penale, sia sotto il profilo della fattispecie ex art. 582 c.p., che sotto quello del reato di violenza privata, ex art. 610 c.p.

Cass. Pen., Sez. IV, 14 marzo 2008, n. 11335

Il consenso prestato in base a moduli prestampati e generici non può essere considerato valido con conseguente possibilità, in caso di morte del paziente, di configurare a carico del medico il reato di omicidio colposo ex art. 589 c.p..

Cass. Pen., Sez. IV, 11 luglio 2001, n. 1572

Il consenso afferisce alla libertà morale del soggetto ed alla sua autodeterminazione, nonché alla sua libertà fisica intesa come diritto al rispetto delle proprie integrità corporee, le quali sono tutte profili della libertà personale proclamata inviolabile dall’art. 13 Cost. Ne discende che non è attribuibile al medico un generale “diritto di curare”, a fronte del quale non avrebbe alcun rilievo la volontà dell’ammalato che si troverebbe in una posizione di “soggezione” su cui il medico potrebbe “ad libitum” intervenire, con il solo limite della propria coscienza; appare, invero, aderente ai principi dell’ordinamento riconoscere al medico la facoltà o la potestà di curare, situazioni soggettive queste derivanti dall’abilitazione all’esercizio della professione sanitaria, le quali, tuttavia, per potersi estrinsecare abbisognano di regole, del consenso della persona che al trattamento sanitario deve sottoporsi. Uniche eccezioni a tale criterio generale sono configurabili solo nel caso di trattamenti obbligatori “ex lege”, ovvero nel caso in cui il paziente non sia in condizione di prestare il proprio consenso o si rifiuti di prestarlo e d’altra parte, l’intervento medico risulti urgente ed indifferibile al fine di salvarlo dalla morte o da un grave pregiudizio alla salute. Per il resto, la mancanza del consenso opportunamente “informato” del malato o la sua invalidità per altre ragioni determina l’arbitrarietà del trattamento medico chirurgico e, la sua rilevanza penale, in quanto posto in violazione della sfera personale del soggetto e del suo diritto di decidere se permettere interventi estranei sul proprio corpo).

TAR Lombardia, Milano, 22 – 26 gennaio 2009, n. 214

Il Tribunale Amministrativo Regionale ritiene necessario un consenso esplicito del paziente in stato vegetativo permanente, il quale debba essere alimentato ed idratato artificialmente. Tale trattamento, equipollente alle cure terapeutiche, richiede, al pari di queste, l’applicabilità del consenso. Quest’ultimo si manifesta nella conoscenza di prestazioni opportune e di pratiche medico-scientifiche. Dal punto di vista procedurale, statuisce che è da considerarsi illegittimo il provvedimento della Regione, segnatamente Lombardia, ostativo alla sospensione del trattamento stesso artificialmente azionato da parte delle strutture sanitarie coinvolte, nei confronti di un paziente allorché il provvedimento del giudice, con efficacia propria di giudicato, abbia accertato il rifiuto dell’interessato a ricevere tale genere di accanimento terapeutico. L’Amministrazione Sanitaria, pertanto, in ossequio ai principi di legalità, buon andamento, imparzialità e correttezza, sarà tenuta ad indicare la Struttura Sanitaria dotata di requisiti strutturali, tecnologici e organizzativi, tali da renderla “confacente” agli interventi ed alle prestazioni strumentali all’esercizio della libertà costituzionale di rifiutare le cure, donde evitare all’ammalato coinvolto in prima persona, ovvero se incapace a chi ne fa le veci, di indagare, in prima persona, quale struttura sanitaria appoggiarsi, quale sia la meglio equipaggiata in tal senso.

Legislazione correlata

Costituzione, art. 2 Cost.

Codice Civile, artt. 1, 2, 5, 7, 9, 10, 1322, 1174, 2043, 2059.

Codice Penale, artt. 589, 610.

SVOLGIMENTO

 La disciplina dei diritti della personalità contenuta nel Codice Civile (vita, integrità fisica, nome, immagine, onore, riservatezza ecc.), è piuttosto limitata e non certo esaustiva, rivelandosi ben presto inadeguata alla necessità di una tutela più completa della persona. È dunque sorta l’esigenza di un riesame costituzionalmente orientato della disciplina dei diritti della personalità in virtù della valorizzazione del disposto dell’art. 2 Cost.

Se dunque il valore della persona e delle sue estrinsecazioni ha assunto un ruolo primario nell’ordinamento per via dell’emersione negli ultimi quarant’anni di una concezione personalistica che oggi pervade il moderno diritto civile, occorre capire entro quali spazi si può innestare un margine operativo dell’autonomia negoziale che venga a disporre della materia dei diritti della persona.

Ci si chiede, in altri termini, se il titolare del diritto della persona possa autonomamente spogliarsene, rinunciarvi, trasferirlo a terzi, consentirne la lesione nell’ambito della propria autonomia negoziale.

Sul punto, occorre evidenziare come ai diritti della personalità vengano tradizionalmente ascritti alcuni fondamentali caratteri: indisponibilità, irrinunciabilità, intrasmissibilità ed imprescrittibilità. Ciò non va inteso come mancanza assoluta di un potere dispositivo sul diritto, quanto piuttosto come presenza di limiti che comprimono l’area dei diritti disponibili e per l’effetto l’ambito di operatività dell’autonomia negoziale in materia: si tratta di valori presidiati dalla sanzione dell’illiceità del contratto ex artt. 1343 e 1418, co. 2, c.c. Dunque la tutela della dignità personale opera come principio irrinunciabile di ordine pubblico e di buon costume, capace di qualificare in termini di illiceità l’aspetto causale – funzionale di quei negozi giuridici che mortifichino l’essenza della dignità della persona.

Sarebbe quindi da escludere la liceità di atti di cessione o trasferimento dietro corrispettivo che possano comportare l’alienazione del proprio nome, della propria identità o del proprio corpo.

Invero, sono molto diffusi nella prassi atti dispositivi, anche a titolo oneroso, diretti a concedere a terzi l’uso della propria immagine o del proprio nome per fini pubblicitari o commerciali: ma non si tratta in questi casi di atti abdicativi o di spoliazione definitiva dal diritto, e pertanto essi sono consentiti purché non provochino pregiudizi alla dignità della persona umana.

Considerazioni più complesse valgono invece in ordine al diritto alla vita e alla salute. Lo sviluppo sempre maggiore delle scienze e delle tecniche biomediche impone all’interprete di fissare gli indici di liceità e meritevolezza dell’autonomia negoziale (si pensi alle delicate problematiche del consenso alla sperimentazione di farmaci per ricerche scientifiche, all’accordo tra i coniugi in materia di fecondazione eterologa e ancora alle questioni inerenti il testamento biologico ed il rifiuto alle cure mediche).

Norme cardine in argomento sono tradizionalmente individuate nell’art. 32 Cost., che riconosce e garantisce la salute come diritto fondamentale dell’uomo, e nell’art. 5 c.c.; si considerino anche le previsioni dell’art. 2087 c.c., che obbliga l’imprenditore ad adottare tutte le misure necessarie, nell’esercizio dell’impresa, per tutelare l’integrità fisica del prestatore di lavoro, nonché l’art. 1, L. n. 833/1978 (istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale) diretto al “mantenimento e recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione”.

L’art. 5 c.c., in particolare, vieta gli atti di disposizione del proprio corpo che cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica o che siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume. La norma è stata oggetto di accese discussioni; la genesi della disposizione deriva dall’esigenza di fugare i dubbi circa la sussistenza di un diritto sul proprio corpo e sulle parti di esso e circa l’ammissibilità di atti dispositivi dell’integrità fisica socialmente apprezzabili. In essa convivono, tuttavia, due opposte tendenze: quella liberale-individualistica diretta a garantire la sfera di disponibilità del corpo, e quella tipica dello stato autoritario di matrice latamente paternalistica, diretta ad arginare gli atti dispositivi del proprio corpo al fine di salvaguardare l’integrità fisica del singolo e consentirgli l’adempimento dei suoi doveri verso la famiglia e lo Stato.

La norma trova applicazione ponendosi quale limite di ordine pubblico nei casi di contratti con cui il soggetto disponga, alieni o rinunci a diritti sul proprio corpo (si pensi al “contratto di maternità surrogata” in virtù del quale la donna si obbliga, verso una coppia committente, a farsi fecondare artificialmente o naturalmente: si tratta, secondo nota opinione giurisprudenziale, di un negozio nullo per impossibilità e illiceità dell’oggetto, nonché, nel caso in cui sia pattuito il pagamento di un corrispettivo, di un contratto nullo per illiceità della causa).

Vanno invece considerati leciti gli atti di donazione degli organi in quanto ispirati al principio costituzionale di solidarietà sociale (la legge consente la donazione di un rene da parte di persona vivente, il trapianto parziale di fegato, la donazione di cellule staminali). Ancora, l’art. 5 c.c. non può trovare applicazione relativamente agli atti dispositivi di parti staccate dal corpo, come ad esempio denti, unghie, capelli, ecc. che al momento del distacco diventano beni autonomi, suscettibili di godimento e scambio.

Infine, per quanto riguarda la tutela della persona defunta, oltre alla tutela penalistica prevista dalle fattispecie che salvaguardano il sentimento di pietà verso i defunti, vengono in rilievo gli atti di disposizione post mortem a contenuto non patrimoniale che abbiano ad oggetto lo ius sepulcri, o le preferenze che il soggetto in vita esprima per le modalità di conservazione del proprio corpo o sull’impiego del proprio cadavere a fini sperimentazione scientifica.

La discussione in ordine alla problematica degli atti di disposizione del corpo apre inevitabilmente la strada alla fondamentale questione del diritto alla vita e dell’autodeterminazione in materia sanitaria.

La dottrina tradizionale individua il fondamento del diritto alla vita oltre che nelle Convenzioni internazionali che tutelano il diritto alla vita quale primaria estrinsecazione dell’individuo (cfr. C.E.D.U. del 1950), negli art. 2 e 32 della Carta fondamentale, nonché nell’art. 589 del Codice Penale che incrimina l’omicidio del consenziente (“chiunque cagiona la morte di un uomo con il consenso di lui è punito…”).

Negli ultimi anni si sta tuttavia assistendo ad una lenta erosione di principi consolidati soprattutto nel campo del trattamento medico, attraverso la piena valorizzazione del principio di autodeterminazione.

Emblematica, a prescindere dalle differenti soluzioni sul titolo di responsabilità del sanitario in caso di trattamento medico arbitrario, è la qualificazione del consenso del paziente come presupposto di liceità del trattamento.

Si riconosce che non è consentito al sanitario di intervenire senza il consenso o malgrado il dissenso del paziente: il consenso afferisce alla libertà morale del soggetto ed alla sua autodeterminazione, nonché alla sua libertà fisica intesa come diritto al rispetto della propria integrità corporea, espressioni della libertà personale proclamata inviolabile dall’art. 13 Cost.

Da ciò discende che non è attribuibile al medico un generale “diritto di curare”, a fronte del quale non avrebbe alcun rilievo la volontà dell’ammalato che si troverebbe in una posizione di “soggezione” su cui il medico potrebbe ad libitum intervenire.

Di conseguenza, la mancanza del consenso (opportunamente “informato”) del malato o la sua invalidità per altre ragioni, determinano l’arbitrarietà del trattamento medico-chirurgico e la sua rilevanza penale, in quanto posto in violazione della sfera personale del soggetto.

Come noto, il trattamento medico trova la sua principale finalità nella cura della salute dell’individuo; nel nostro ordinamento il diritto alle cure è esteso a tutti i consociati (attraverso il Servizio Sanitario Nazionale), è gratuito ed è assicurato anche agli indigenti (art. 32 Cost.). I medici hanno dunque un dovere giuridico e deontologico di curare i pazienti, nel modo migliore possibile, assicurando il recupero della salute ed il mantenimento dell’integrità fisica (le stesse lesioni fisiche che il sanitario provoca al malato nel corso di un’operazione chirurgica sono lecite e del tutto scriminate, proprio alla luce della giustificazione terapeutica del trattamento).

Secondo la dottrina e giurisprudenza prevalenti, il diritto a rifiutare le cure, avrebbe lo stesso rango costituzionale del diritto alla vita e troverebbe copertura nel combinato disposto degli artt. 2, 13 e 32, co. 2 Cost.

Il diritto all’autodeterminazione terapeutica è sancito a livello internazionale da varie Convenzioni, in particolare da quella di Oviedo che all’art. 5 prevede che il paziente deve ricevere “innanzitutto una informazione adeguata sullo scopo e sulla natura dell’intervento e sulle sue conseguenze e i suoi rischi”. Tale diritto è sancito anche dall’art. 32 del Codice deontologico, in base al quale il medico potrà essere chiamato a rispondere innanzitutto in sede civile a titolo di responsabilità contrattuale.

In quest’ottica sarebbe dunque il paziente, in un’alleanza terapeutica con il medico, il protagonista assoluto delle scelte inerenti la propria salute, anche di quelle più dolorose, attraverso lo strumento indispensabile del c.d. “consenso informato”.

Quanto alla responsabilità penale per mancanza del consenso informato del malato, la giurisprudenza e la dottrina sono divise. Sul fondamento dell’attività sono emersi diversi orientamenti: il primo orientamento ritiene l’attività medico chirurgica, lecita riconducendola alla scriminante del consenso dell’avente diritto (art. 50 c.p.) in quanto solo il consenso, quale manifestazione della volontà di disporre del proprio corpo, può escludere l’antigiuridicità delle lesioni provocate nell’esercizio dell’attività medica purché il consenso sia informato, esplicito, libero, autentico ed immune da vizi. Il paziente deve essere messo a conoscenza della natura dell’intervento medico chirurgico, della sua portata ed estensione, dei suoi rischi, dei risultati ottenibili e delle possibili conseguenze negative.

A tale orientamento sono state mosse delle critiche fondate sull’assunto che il consenso del paziente è inadeguato a porsi come esclusiva causa fondante la liceità penale dell’attività medica, alla luce dei limiti che incontra la scriminante del consenso dell’avente diritto per potersi legittimamente esplicarsi come causa giustificante, postulando in particolare la valida disponibilità del diritto.

Tale esimente, nel raccordo dell’art. 50 c.p. con l’art. 5 c.c., non riesce a coprire tutti i rischi, anche della diminuzione permanente dell’integrità fisica o della morte, che possono essere connessi all’attività medico chirurgica.

Pertanto, il consenso deve essere manifestato prima del trattamento medico chirurgico ed il chirurgo non può eseguire un intervento diverso da quello consentito se non ricorrono gli estremi della necessità ed urgenza per la salute del paziente.

Tale orientamento non è unanimamente accolto. In giurisprudenza afferma che il fondamento dell’attività medica risiede nella scriminante dell’esercizio del diritto (art. 51 c.p.): si tratterebbe cioè di attività giuridicamente autorizzata, esercizio di facoltà legittima.

Viene valorizzato in tal modo l’elevato interesse sociale che per lo Stato riveste la scienza medica, regolamentata dalla legislazione nazionale, finanziata e disciplinata in attuazione dell’art. 32 Cost.

Secondo parte della giurisprudenza il fondamento della liceità penale dell’attività medico chirurgica si individua nella sua “autolegittimazione”, laddove il consenso del paziente è solo presupposto di liceità del trattamento medico chirurgico (distinguendosi il trattamento estetico puro, di mera vanità, scriminato dall’art. 50 c.p., dall’attività medico chirurgica terapeutica e/o sperimentale (trapianti di organi) scriminata dall’art. 51 c.p. in quanto attività giuridicamente autorizzata).

Perché l’attività sia lecita occorre che sia esercitata nel rispetto di alcuni limiti:

a)   ‑‑principio della salvaguardia della vita, dell’integrità fisica, della salute del soggetto (artt. 32 Cost. e 5 c.c.) che comporta la liceità dell’attività terapeutica nei limiti del bilanciamento tra benefici e rischi del trattamento;

b)   ‑idoneità tecnica della struttura e del personale sanitario;

c)   ‑rispetto delle leges artis;

d)   ‑salvaguardia della dignità della persona umana (artt. 3, 27, 32, 41 Cost.) che ad esempio comporta l’illiceità del trattamento rianimatorio se è accertata la morte celebrale;

e)   ‑principio di eguaglianza e pari dignità dei soggetti umani, che impedisce le discriminazioni in materia di sperimentazione e prelievi sui soggetti esposti, quali condannati a morte, detenuti, moribondi, incapaci, vecchi, malati non paganti ecc.;

f)    ‑principio del consenso reale, informato, effettivo, attuale, specifico oppure presunto (ma solo in caso di impossibilità materiale di consentire e di urgenza terapeutica), del soggetto o del rappresentante legale.

Riguardo al consenso presunto, occorre rilevare che mentre una parte della dottrina lo ritiene ammissibile ove ricorrano le predette condizioni, per altri tale principio non può essere mai accolto. Se, ad esempio, in una situazione di urgenza si costringesse il medico, di fronte ad un traumatizzato grave, ad accertarne la volontà presunta deriverebbero due gravi conseguenze: o si perderebbe del tempo prezioso, ritardando e rendendo inutili le terapie necessarie, o si costringerebbe il medico, per timore di addossarsi gravi responsabilità, ad astenersi dall’intervenire, con danni irreparabili per la salute e la vita stessa del paziente. Invece, nei casi di consenso presunto opererebbe una diversa scriminante, quella dello stato di necessità ex art. 54 c.p. che autorizza il medico ad intervenire nel caso di pericolo attuale di un danno grave alla persona e sempre che l’intervento medico sia proporzionato al pericolo.

Ulteriore orientamento basa sulla scriminante dello stato di necessità (art. 54 c.p.) la giustificazione dell’attività medico chirurgica. Ma tale tesi non è da tutti condivisa, in primo luogo perché lo stato di necessità non è applicabile se il trattamento medico chirurgico è effettuato per prevenire un pericolo solo potenziale e non per scongiurare un pericolo attuale di danno grave per la salute del paziente come previsto dall’art. 54 c.p.; in secondo luogo, perché se l’intervento chirurgico è necessitato dall’esigenza per il medico di rimediare ad un proprio errore perché l’art. 54 c.p. richiede che il pericolo non sia stato dall’agente “volontariamente causato”; in terzo luogo, perché consentirebbe al medico di intervenire anche senza il consenso del paziente o contro la sua volontà.

Per diverso tempo la giurisprudenza prevalente ha ritenuto che qualora il medico rispetti i limiti previsti per l’esercizio dell’attività medico-chirurgica, vada esente da ogni responsabilità; in caso contrario, risponderebbe di omicidio o lesioni dolose o colpose se abbia agito con il consenso del paziente e tali eventi siano dovuti alla violazione dolosa o colposa dei limiti oggettivi dell’attività medico-chirurgica; risponderebbe dei reati di cui agli artt. 605, 610, 613 c.p. se abbia invece agito senza il consenso del paziente nonostante l’esito positivo dell’intervento.

Risponderebbe, infine, di omicidio preterintenzionale, qualora abbia agito senza il consenso del paziente e l’intervento non consentito e non urgentemente necessario abbia comportato una lesione personale da cui sia derivata la morte.

Un vivace dibattito dottrinale e giurisprudenziale ha riguardato il cosiddetto trattamento sanitario arbitrario, ovverosia: il caso di trattamento terapeutico eseguito in assenza totale di consenso; il caso in cui l’intervento eseguito risulti diverso da quello sul quale è stato espresso lo specifico consenso del paziente stesso; il caso in cui il consenso, pure espresso, sia però invalido perché disinformato. La giurisprudenza più recente ha abbandonato le tesi più estreme ponendosi in posizione mediana: l’attività medica richiede per la sua validità e liceità la manifestazione del consenso del paziente, che non si identifica con quello di cui all’art. 50 c.p., ma costituisce un presupposto di liceità del trattamento; pertanto la mancanza o l’invalidità del consenso determinano l’arbitrarietà del trattamento medico-chirurgico e la sua rilevanza penale, in quanto il trattamento è stato compiuto violando la sfera personale del soggetto e il suo diritto di decidere se permettere o meno interventi estranei sul proprio corpo. Il consenso informato riguarda la facoltà di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche la facoltà di rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale. Affermazione questa che si fonda sul principio del rispetto del diritto alla salute tutelato dall’art. 32 Cost., per il quale i trattamenti sanitari sono obbligatori nei soli casi espressamente previsti dalla legge. Pertanto, il criterio di disciplina della relazione medico-malato è quello della libera disponibilità del bene salute da parte del paziente in possesso delle capacità intellettive e volitive, secondo una totale autonomia di scelte che può comportare il sacrificio del bene stesso della vita. Non si può ritenere che dall’intervento effettuato in assenza di consenso o con un consenso prestato in modo invalido si possa sempre profilare la responsabilità a titolo di omicidio preterintenzionale (in caso di morte), oppure a titolo di lesioni volontarie, perché l’elemento soggettivo di tali reati non è configurabile rispetto all’attività del medico, mentre il consenso eventualmente invalido perché non consapevolmente prestato non può ex se importare l’addebito a titolo di dolo. Si è così recepita in sede penale la tesi civilistica dell’autolegittimazione dell’attività medica che si fonderebbe non sull’art. 50 c.p. ma sulla stessa finalità che le è propria, la finalità cioè di tutela della salute come bene costituzionalmente garantito, tutelato dall’art. 32 Cost. come interesse della collettività e come diritto fondamentale dell’individuo.

Il diritto ai trattamenti sanitari diventa così per il cittadino diritto “pieno e incondizionato”.

La Corte Costituzionale, a questo riguardo, con la sentenza n. 471 del 1990 ha ricostruito il valore costituzionale dell’inviolabilità della persona, intesa come libertà di esplicazione del potere della persona di disporre del proprio corpo, in tal senso modificando tacitamente l’art. 5 c.c. attraverso la sostituzione del concetto statico di integrità fisica con quello dinamico di salute di cui all’art. 32 Cost. L’attività sanitaria, proprio perché realizza il diritto fondamentale alla salute e attua la prescrizione dettata dall’art. 2 Cost., trova il proprio fondamento nelle norme costituzionali. Il Giudice delle leggi in una recente sentenza (C. Cost., n. 438/2008), richiamandosi a tali principi ha affermato che il “consenso informato inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nell’art. 2 della Costituzione, che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13 e 32 della Costituzione, i quali stabiliscono, rispettivamente, che “la libertà personale è inviolabile”, e che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”.

Le S.U., da ultimo, sono giunte ad una decisione innovativa e di rottura rispetto al passato, affermando che ove l’intervento chirurgico sia stato eseguito a regola d’arte per contrastare una patologia ed abbia raggiunto positivamente tale effetto, da tale atto non può dirsi sia derivata una malattia, perché l’atto, anche se anatomicamente lesivo, non ha provocato, nel quadro generale della salute del paziente, una diminuzione funzionale, ma ha risolto la patologia da cui lo stesso era affetto. Così, non potrà ritenersi integrato il delitto di cui all’art. 582 c.p. per difetto del relativo evento. In questa ipotesi, l’eventuale mancato consenso del paziente all’intervento praticato dal chirurgo, diverso rispetto a quello originariamente assentito, potrà rilevare su altri piani, ma non su quello penale.

Conclusivamente, le S.U. affermano che, ove il medico sottoponga il paziente ad un trattamento chirurgico diverso da quello in relazione al quale era stato prestato il consenso informato, e tale intervento, eseguito nel rispetto dei protocolli e delle leges artis, si sia concluso con esito fausto, tale condotta non ha rilevanza penale sia sotto il profilo dell’art. 582 c.p., sia sotto quello del reato di violenza privata di cui all’art. 610 c.p.

Tale sentenza, pur valorizzando il consenso informato come esplicazione necessaria dell’autodeterminazione del paziente, al tempo stesso non lo eleva a unico elemento legittimante l’attività medico chirurgica ma recepisce dall’ambito civilistico, valorizzandolo anche in sede penale, il principio di autolegittimazione dell’attività medica, definita “professione di pubblica necessità avente copertura costituzionale”.

Tematica strettamente connessa è quella relativa all’esistenza di un diritto a rifiutare le cure.

Secondo l’opinione tradizionale, il paziente non potrebbe rifiutare le cure allorché tale rifiuto determini un grave pericolo di vita, poiché l’ordinamento tutela l’esistenza quale valore in sé ed in quanto tale: di conseguenza, a carico del medico si configurerebbe un vero e proprio obbligo di cura, dovendo lo stesso intervenire anche in caso di rifiuto espresso del paziente – con conseguente configurabilità di una responsabilità penale omissiva a carico del sanitario per l’ipotesi di omesso intervento.

L’opposta e più recente concezione privilegia viceversa il principio consensualistico – ricavabile a sua volta da svariate disposizioni, in primis gli artt. 2, 13 e 32 Cost.: quest’ultima disposizione, in particolare, andrebbe interpretata quale norma che sancisce tanto il diritto a vivere quanto quello a lasciarsi morire, in omaggio al principio di autodeterminazione in ordine alle proprie scelte esistenziali riconosciuto dall’art. 2 Cost.

Si osserva, inoltre, che nell’ordinamento non ricorre alcuna norma che imponga al malato di accettare le cure, salva l’ipotesi (giustificata dall’esigenza di contemperare la scelta personale con esigenze, di carattere generale e pubblicistico, di tutela della collettività) di cui al comma 2 dell’art. 32 Cost..

Se ne deduce che, a fronte di un dissenso espresso del malato ad iniziare o proseguire le cure (sempre che, ovviamente, lo stesso venga prestato in modo consapevole, informato e, soprattutto, attualizzato alle condizioni di salute effettivamente accertate al momento in cui si manifesta), il medico dovrebbe astenersi dall’intervenire, pena la violazione della libertà di autodeterminazione del paziente.

Il quadro di riferimento normativo poc’anzi delineato pone in luce la rilevanza assunta, negli ultimi anni, proprio dal consenso informato, che ha spostato il potere di decisione dal medico al paziente, divenuto vero e proprio protagonista della vicenda terapeutica.

In ragione dell’ampiezza di tale principio, si sostiene che qualsiasi atto invasivo della sfera fisica, sia di natura terapeutica che non terapeutica, non possa avvenire senza o contro il consenso della persona interessata, in quanto l’inviolabilità fisica costituisce il nucleo essenziale della stessa libertà personale di cui all’art. 13 Cost.; al contrario, si dice, l’imposizione di un determinato trattamento sanitario può essere giustificata solo se prevista da una legge in funzione di tutela di un interesse generale e non a tutela della salute individuale, e sempre che sia comunque garantito il rispetto della dignità della persona (art. 32 Cost.).

Si fa leva, infine, sul codice di deontologia medica, che – se pure pone a carico del medico il dovere di curare e mantenere in vita il paziente (art. 35) – allo stesso tempo prescrive di desistere dalla terapia quando il paziente consapevolmente la rifiuti (art. 32) ovvero, nel caso in cui il paziente non sia in grado di esprimersi, di proseguirla fino a quando la stessa sia ritenuta ragionevolmente utile.

Si conclude sostenendo che il principio dell’autodeterminazione individuale e consapevole in ordine ai trattamenti sanitari deve oggi considerarsi positivamente acquisito al nostro ordinamento giuridico, ed è collegato al dovere del sanitario di informare sulla natura, sulla portata e sugli effetti dell’intervento da eseguire, in modo tale da consentire a quest’ultimo di prestare un valido consenso, vera e propria condizione di liceità di ogni intervento lesivo della sfera psicofisica della persona (oltre che presupposto della scriminante di cui all’art. 51 c.p. nell’ipotesi di intervento chirurgico, comunque comportante una manomissione dell’altrui sfera fisica).

In tale contesto, la giurisprudenza più recente si è dovuta pronunciare sul tema del rifiuto – opposto da paziente affetto da gravissimo stato morboso degenerativo, tale da impedirgli qualsiasi movimento, ma non per questo preclusivo di una piena capacità di intendere e di volere – di prosecuzione di cure ritenute di nessuna utilità.

Il Tribunale di Roma, in una recente pronuncia, ha aderito in pieno al principio consensualistico, riconoscendo il diritto costituzionalmente protetto del paziente a rifiutare cure indesiderate ed evidenziando a tal fine la necessità di superare l’impostazione formale della generale doverosità giuridica del mantenimento in vita del paziente: in altri termini, il medico che dovesse accedere alla richiesta del paziente di sospendere i trattamenti non farebbe altro che assecondare la volontà dello stesso, sicché non potrebbe mai essere chiamato a rispondere del reato di omicidio del consenziente di cui all’art. 579 c.p.

Il Tribunale, nel solco di tale impostazione, ha rinvenuto il limite al dovere di cura del medico nell’art. 14 del codice deontologico, che vieta l’accanimento terapeutico prescrivendo che il medico deve astenersi dall’ostinazione in trattamenti, da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita.

Ciò posto in linea di principio, il problema diviene quello dell’attuazione pratica della libertà di autodeterminazione del paziente, posto che la pretesa a che sia cessato un determinato trattamento di mantenimento in vita, ritenuto di mero accanimento terapeutico, si scontra con l’interpretazione soggettiva e la discrezionalità nella definizione di concetti indeterminati ed appartenenti ad un campo non ancora regolato dal diritto, quali sono quelli di “futilità” del trattamento stesso, di insostenibilità della qualità della vita, di degradazione della persona da soggetto ad oggetto, in quanto non esistono linee guida di natura tecnica ed empirica tali da riempire di contenuti la nozione di “divieto di accanimento terapeutico”.

Il Tribunale di Roma ha concluso nel senso che, nella fattispecie, l’ordinamento non prevede la realizzabilità in forma coattiva del diritto del paziente all’interruzione delle cure mediche (sub specie di interruzione della respirazione assistita e distacco del respiratore artificiale) in caso di mancato spontaneo adempimento da parte del medico curante, non potendosi parlare di tutela se quanto richiesto dal paziente deve essere rimesso alla totale discrezionalità del medico. Sul problema si è di recente pronunciata la Corte di Cassazione, chiamata a scrutinare un altro caso di forte impatto mediatico.

Nella specie, ci si è chiesti se il tutore, in caso di incapacità di esprimersi da parte del paziente, potesse chiedere l’interruzione dell’alimentazione forzata che da anni teneva in vita il paziente senza alcuna possibilità di recupero.

La Corte di Cassazione ha aderito all’impostazione fondata sul principio consensualistico, riconoscendo il diritto del paziente all’interruzione delle cure indesiderate, pur se subordinatamente al necessario accertamento della sussistenza di taluni specifici presupposti, in presenza dei quali il medico che dovesse aderire alla richiesta del malato non potrà essere chiamato a rispondere del reato di omicidio del consenziente.

I giudici di Cassazione, nello specifico, non si sono limitati a considerare i poteri spettanti al rappresentante legale per conto del soggetto incapace, ma hanno altresì riconosciuto il pieno diritto all’autodeterminazione terapeutica spettante al paziente capace, anche nei casi in cui da esso consegua il sacrificio del bene della vita. Di fronte al legittimo rifiuto della cura da parte del diretto interessato, secondo i giudici, c’è il dovere di verificare che quel rifiuto sia informato, autentico ed attuale. Accertati tali connotati, non si può disattendere la sua volontà in quanto non sussiste un principio di ordine pubblico che imponga un dovere di curarsi. Da ciò può ricavarsi che il rifiuto di terapie medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte, non può integrare un’ipotesi di eutanasia a carico del medico curante, cioè un comportamento volto ad abbreviare la vita ed a cagionare la morte, essendosi in presenza di una scelta del malato a che la malattia segua il suo corso naturale; non può, quindi, che rispettarsi detta scelta, espressione della libertà di autodeterminazione dei singoli costituzionalmente garantita ex art. 32 Cost.

Va, peraltro, osservato che nella fattispecie la Cassazione ha fondato la propria decisione, tra l’altro, sulla circostanza che il paziente – in conseguenza del proprio stato morboso – non aveva più alcuna percezione del mondo esterno, e che (in base agli accertamenti medici effettuati) non vi era la sia pur minima possibilità di recupero di alcuna forma di coscienza: andrebbe, pertanto, verificato se tale soluzione possa essere applicata anche alle ipotesi di persistente capacità di intendere e di volere del malato, posto che, ad avviso della Corte, in presenza di un contatto anche minimo con il mondo esterno dovrebbe tornare in ogni caso a prevalere il diritto alla vita a prescindere dal grado di salute, di autonomia e di capacità di intendere e di volere del soggetto.

Sulla questione è tornata la Corte di appello di Milano, che ha sostenuto che il pieno diritto di autodeterminazione terapeutica del malato, anche se incapace, si racchiude nella – in effetti ineccepibile – valorizzazione sul piano giuridico della preminenza della persona umana e della sua potestà di autodeterminazione terapeutica.

Il giudice può, quindi, autorizzare la disattivazione dei presidi sanitari (fatta salva l’applicazione delle misure suggerite dalla scienza e dalla pratica medica nell’interesse del paziente), unicamente quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, la benché minima possibilità di un sia pure flebile recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno; e sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona. Ove l’uno o l’altro presupposto non sussista, il giudice deve negare l’autorizzazione, dovendo allora essere data incondizionata prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dal grado di salute, di autonomia e di capacità di intendere e di volere del soggetto interessato e dalla percezione che altri possano avere della qualità della vita stessa.

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