SUCCESSIONE DI LEGGI PENALI E IL REATO DI TRAFFICO DI INFLUENZE ILLECITE

Pubblicato il 15/03/2015 autore Paola Montone

Lo studio del fenomeno della successione delle leggi penali nel tempo consente di verificare le implicazioni giuridiche sulla punibilità di un fatto di reato, soprattutto a seguito dell’introduzione ex novo di una fattispecie criminosa non contemplata dall’ordinamento penale, come accaduto per il reato di Traffico di influenze illecite.

Prima di esaminare nello specifico la ratio legislativa sottesa all’inserimento dell’articolo 346-bis tra i delitti contro la p.a. e le caratteristiche strutturali di tale fattispecie, occorre soffermarsi proprio sul fenomeno della modificazione delle leggi penali, per farne poi applicazione nell’ipotesi in esame.

Il fenomeno descritto trova il proprio referente normativo nell’articolo 2 c.p., il quale scolpisce al primo comma il principio dell’irretroattività delle legge penale, comminando il divieto di punibilità di un fatto che, al momento della commissione, non era considerato un reato per l’ordinamento. Si tratta di un principio di civilità giuridica che rinviene un formale riconoscimento già all’interno della Carta Costituzionale, col comma 2 dell’articolo 25, e non solo. Di fatti, anche le fonti sovranazionali enucleano tra i principi fondamentali quello efficacemente sintetizzabile nel brocardo nullum crimen sine lege: il riferimento è all’articolo 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea ed all’articolo 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. La ratio giustificativa di tale affermazione di principio risiede nella tutela del soggetto che dev’essere in grado di prevedere e di conseguenza calcolare gli effetti derivanti dalla propria condotta, delegittimando in tal modo qualsiasi arbitrio legislativo che si traduca in un’inammissibile nuova incriminazione avente efficacia retroattiva.

Il secondo comma dell’articolo 2 c.p. si occupa della cosiddetta abolitio criminis, ossia dell’ipotesi in cui per l’emanazione di una legge successiva rispetto a quella vigente al momento della commissione del fatto, quest’ultimo non costituisce più reato. In tal caso l’operatività del principio del favor libertatis giustifica la cessazione dell’esecuzione della condanna, laddove intervenuta, e degli effetti penali in generale. Tal fenomeno si differenzia da quello della successione in senso stretto delle leggi penali, previsto dal quarto comma dell’articolo 2 c.p., con riferimento alla mera modificazione delle leggi nel tempo e conseguente applicazione della lex mitior, salvo il limite del giudicato. Si allude al fenomeno della retroattività della lex mitior, elevato a principio fondamentale anche dalla Corte di Strasburgo, la quale ne rinviene il fondamento implicito nello stesso articolo 7 della C.e.d.u..

Nel nostro ordinamento, tale principio è stato valorizzato dalla Corte Costituzionale che ne ha fatto applicazione in una nota pronuncia del 2006, la numero 393, avente ad oggetto la legittimità costituzionale dell’articolo 6 della legge ex Cirielli, nella parte in cui escludeva l’applicabilità dei termini più brevi di prescrizione, risultanti dalle nuove disposizioni introdotte dalla medesima legge, nel caso in cui si trattasse di processi pendenti in primo grado ovvero qualora sia fosse stata dichiarata l’apertura del dibattimento. Il Giudice delle Leggi  ha evidenziato non solo come il fondamento costituzionale della retroattività della lex mitior dev’essere più correttamente individuato all’interno dell’articolo 3 della Costituzione, ossia nel principio di uguaglianza e di parità trattamento, ma anche che lo stesso principio può trovare dei limiti applicativi solo quando sono in gioco valori di analogo rilievo costituzionale: nel caso citato ciò non era avvenuto, in quanto la postulata irretroattività della legge più favorevole non trovava una ragionevole giustificazione nell’esigenza di economia e non dispersione dell’attività processuale già svolta dalle parti, proprio in considerazione del fatto che si trattava di processi non ancora definiti in primo grado o comunque per i quali era intervenuta la sola apertura del dibattimento, senza con ciò ledere il principio del giusto processo.

Così identificata la ratio giustificativa della previsione di cui al quarto comma dell’articolo 2 c.p., occorre evidenziare come nella pratica possono sorgere problemi interpretativi, relativi all’esatta individuazione del fenomeno dell’abolitio criminis e della sua distinzione rispetto all’ipotesi dell’abrogatio sine abolitione. Si allude, ad esempio, alla circostanza per cui l’introduzione di una legge penale non comporti l’abolizione secca della fattispecie criminosa, potendo la stessa essere comunque punita, essendo sussumibile all’interno di una norma già presente nell’ordinamento. La distinzione tra i due fenomeni citati rileva per le conseguenze applicative, in quanto solo in presenza di un’effettiva abolitio criminis, si potrà richiedere al giudice dell’esecuzione la revoca della sentenza di condanna o del decreto penale, ai sensi dell’articolo 673 c.p.p.; si applicherà, al contrario, il quarto comma dell’articolo 2 c.p., con possibilità di applicare la normativa più favorevole, fatto salvo sempre il limite del giudicato, laddove si assista ad una mera modificazione della disciplina della fattispecie criminosa, senza incidere sul profilo della punibilità della stessa.

Al fine di distinguere l’ipotesi di abolitio criminis da quella di abrogatio sine abolitione, la dottrina ha elaborato differenti criteri, tra i quali rilevano quello del fatto concreto, della continuità normativa, della continenza e dei rapporti strutturali tra le disposizioni incriminatrici.

Nel dettaglio, la teoria del fatto concreto si basa su una valutazione ex post della fattispecie, nel senso che si considera se, nonostante la diversità tra la legge vigente al momento della commissione del fatto e quella posteriore, il fatto continua ad essere punibile: da qui l’espressione utilizzata della verifica della “doppia punibilià”. Se il fatto era punibile prima ed è punibile anche sotto la cogenza della legge penale modificativa allora si dovrà applicare il comma quarto dell’articolo 2 c.p.. I punti deboli della teoria consistono nell’inadeguatezza del ricorso ad un criterio valutativo che lascia discrezionalità all’interprete, non fornendogli i necessari parametri di riferimento per verificare già in astratto la sussumibilità o meno della fattispecie di reato all’interno di una norma penale.

Ulteriore criterio prospettato è quello della continuità normativa che si basa sul raffronto in chiave comparativa del bene giuridico protetto e delle modalità di aggressione dello stesso tipizzate dal legislatore, con la conseguente applicabilità dell’articolo 2, comma 2, c.p. solo in caso di riscontrata discontinuità tra le norme incriminatrici basata sull’analisi di tali parametri. Si tratta di una valutazione che difetta della necessaria considerazione dei rapporti strutturali tra le norme incriminatrici, compresivi non solo del rapporto di specialità unilaterale (considerato dalla teoria della continenza) ma anche del rapporto di specialità reciproca. Si allude, cioè, tanto all’ipotesi di una norma che contiene tutti gli elementi di un’altra norma, con l’aggiunta di un elemento in più, tanto all’ipotesi in cui ogni norma è speciale rispetto all’altra. Secondo autorevole dottrina, solo la considerazione dei suddetti rapporti di specialità consente all’interprete di circoscrivere il fenomeno dell’abolitio criminis, ex articolo 2, comma 2 c.p., quello della nuova incriminazione, ai sensi del primo comma del medesimo articolo, ed il fenomeno della mera modificazione legislativa.

In particolare, si impone, a tal fine, un’ulteriore distinzione, dovendo differenziare il rapporto di specialità da specie a genere da quello da genere a specie. Nella prima ipotesi, quando, cioè, viene emanata una norma generale che affianca una precedente norme speciale, si assisterà al fenomeno della modificazione in senso stretto per le ipotesi di reato contenute in entrambe le norme e nuova incriminazione per l’ipotesi contenuta nella sola norma generale. Al contrario, quando viene in rilievo un rapporto di specialità da genere a specie, se la normativa successiva speciale sostituisce quella precedente, generale, si avrà sempre modificazione per le ipotesi in comune ma abrogazione per l’ipotesi di reato non più contenuta nella normativa speciale; se, invece, la legge penale generale antecedente non viene espunta dall’ordinamento, continuerà ad essere punita quell’ipotesi di reato in essa contenuta e non riprodotta nella norma speciale.

Infine, venendo in rilievo il rapporto di specialità specifica tra le norme, si assisterà al fenomeno della modificazione per le ipotesi di fattispecie di reato comuni ad entrambe, abrogazione per l’ipotesi non contenuta nella legge speciale successiva e nuova incriminazione per l’ipotesi non contemplata nella legge speciale antecedente.

Il criterio strutturale si differenza dagli altri criteri sovra citati in quanto consente più correttamente di ancorare il raffronto tra le fattispecie ad un esame strutturale che opera ex ante, sulla base di parametri certi e predefiniti, non rimessi alla valutazione soggettiva del giudice.

Ed allora, così sommariamente ricostruita la disciplina della successione delle leggi penali nel tempo, prima di applicare le coordinate ermeneutiche testé evidenziate al reato di traffico di influenze illecite, s’impone una riflessione sulla genesi di tale disposizione e sul suo contenuto dispositivo.

È importante evidenziare come l’articolo 346-bis è stato introdotto ad opera della cosiddetta legge anticorruzione, la numero 190 del 2012, la quale si è resa necessaria al fine di corroborare la tutela penale nei confronti dei delitti di corruzione, già contenuta all’interno del nostro codice penale. In verità, il rafforzamento dei meccanismi di risposta sanzionatori ai fenomeni corruttivi era stata già sollecitato in ambito internazionale ed europeo, con la Convenzione di Merida del 1999 e con quella di Strasburgo del 2003. Da tempo, comunque, si reputava opportuna una riforma dei delitti contro la pubblica amministrazione, in considerazione del fatto che difficilmente risultava possibile perseguire in concreto tali reati e di conseguenza reprimerne la diffusione nel tessuto sociale.

Al deficit di effettività del diritto penale in tale settore si è tentato di porre rimedio proprio con la citata riforma, la quale, tra le sue novità, ha determinato:  un generale inasprimento delle pene, lo “scorporamento” della concussione per induzione, contenuta nell’originario articolo 317 c.p., con la conseguente previsione di un’autonoma fattispecie di reato, rappresentata dall’induzione indebita a dare e promettere utilità, significativamente collocata dopo i delitti di corruzione ed oggetto di contrasti interpretativi in merito ai presupposti applicativi, di recente ricomposti da un arresto delle Sezioni Unite. Ma non solo: ulteriori modifiche sono state apportate alla disciplina della corruzione, di cui agli attuali articoli 318 e 319 c.p.(in modo particolare con riferimento alla corruzione cosiddetta propria, collegata prima della riforma all’adozione di un atto del proprio ufficio), ed al capo II del libro II, con l’introduzione del reato del traffico di influenze illecite. Si tratta di un delitto dei privati contro la pubblica amministrazione, inserito subito dopo il reato di millantato credito e per questo contenuto nell’articolo 346-bis c.p., con ciò subito evidenziandosi rapporti di continenza rispetto al 346 c.p..

Il traffico di influenze illecite non è un reato proprio, potendo essere commesso da chiunque e non richiedendo, dunque, la qualifica di pubblico ufficiale ovvero di un incaricato di pubblico servizio, come confermato anche dalla collocazione topografica dell’articolo nel capo dedicato ai delitti dei privati.

L’articolo 346-bis si apre con una clausola di salvaguardia che fa ferma l’ipotesi del concorso nel reato di corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio ovvero nel reato di corruzione in atti giudiziari.

La condotta incriminata è quella che si sostanzia nello “sfruttamento di relazioni esistenti” o con un pubblico ufficiale ovvero con un incaricato di pubblico servizio e che vede il reato consumarsi non soltanto con la dazione di denaro o di un’altra tipologia di utilità patrimoniale, ma anche con la semplice promessa, ricalcando il modello del reato a doppio schema, utilizzato anche per il delitto di usura o per quello dello scambio elettorale-politico mafioso. Il denaro od il vantaggio patrimoniale debbono rappresentare il compenso per l’opera del mediatore nei confronti dei soggetti, presso i quali si millanta credito.

La previsione della punibilità del mediatore si accompagna alla punibilità del soggetto che promette la prestazione pecuniaria ovvero che materialmente procede ad elargire il denaro convenuto. Ecco dunque che il reato viene costruito dal legislatore come reato a concorso necessario proprio, nel senso che ai fini della configurabilità del fatto di reato previsto dalla norma vi devono essere necessariamente due soggetti, entrambi punibili, il mediatore ed il soggetto disposto a pagare il prezzo della mediazione, partecipando dell’elemento psicologico doloso del primo.

La disciplina dell’articolo 346-bis c.p. si chiude, poi, con la previsione di due aggravanti specifiche, riferite all’ipotesi per cui il mediatore sia un pubblico ufficiale ovvero un incaricato di pubblico servizio ed alla circostanza per cui la commissione dei fatti è correlata “all’esercizio di attività giudiziarie”, nonché con la previsione della circostanza attenuante della “particolare tenuità” del fatto.

Il bene giuridico protetto dalla norma è rappresentato dal prestigio della pubblica amministrazione, compromesso da una condotta che mette in pericolo l’affidamento riposto dai consociati nel rispetto del principio di legalità e di buon andamento da parte di chi esercita una funzione pubblica, come cristallizzato dall’articolo 97 della Costituzione. Ecco, dunque, spiegata l’anticipazione della soglia di punibilità della promessa di denaro come remunerazione dell’attività di mediazione, presupponendo che non sia avvenuto il contatto col pubblico ufficiale.

Laddove, invece, vi sia questo contatto col pubblico funzionario si configurerebbe il concorso nel più grave reato di corruzione prospettato proprio dallo stesso articolo 346-bis, o nella forma della corruzione propria o nella corruzione in atti giudiziari, ma potrebbe configurarsi anche quello di tentativo di corruzione o istigazione alla corruzione, di cui all’articolo 322 c.p., nel caso di offerta o promessa non accettata dal pubblico ufficiale.

Ciò posto, dalla lettura dell’articolo 346-bis emerge immediatamente come la ratio della nuova fattispecie incriminatrice sia quella di contrastare qualsiasi attività prodromica al fenomeno corruttivo vero e proprio, che si sostanzia in un pactum sceleris tra due soggetti, di cui uno è un pubblico ufficiale, avente ad oggetto il mercinomio della stessa funzione pubblica. Eppure la punibilità del mediatore di cui al reato di traffico di influenze illecite non rappresenta una nuova incriminazione, se sol si considera che la condotta del mediatore, prima dell’introduzione del 346-bis, veniva comunque punita, in quanto sussumibile nella fattispecie del millantato credito.

Dalla disamina del contenuto dispositivo del primo comma dell’articolo 346 c.p. emerge, infatti, una sostanziale omogeneità della disciplina, nel senso che anche il reato di millantato credito vede coinvolto un soggetto privato che, facendo credere ad un altro soggetto di poter esercitare la propria influenza su un pubblico ufficiale o su un incaricato di un pubblico servizio, si fa dare o promettere da questi del denaro come corrispettivo della sua attività di mediazione.

Eppure sussistono delle differenze tra questa fattispecie e quella di cui all’articolo 346-bis c.p., evidenziate dalla dottrina e dalla giurisprudenza intervenuta sul tema. In primis, nel reato di millantato credito viene punita la sola condotta del mediatore e non anche quella del soggetto privato che promette o dà del denaro come prezzo della mediazione. Questa scelta del legislatore si spiega sulla base della considerazione di un elemento fattuale determinante e rappresentato dal fatto che la punibilità del traffico di influenze illecite è correlata allo sfruttamento di relazioni “esistenti” col pubblico ufficiale ovvero con l’incaricato del pubblico servizio. Nella fattispecie del millantato credito di cui al primo comma si punisce quella condotta del soggetto di per sé sola millantatrice, con cui si fa credere di avere influenza su di un pubblico ufficiale, indipendentemente dalla circostanza che ciò sia vero o meno, mentre al secondo comma dell’articolo 346 si prevede una fattispecie autonoma che ricollega la promessa o la dazione di pagamento non all’opera di mediazione in sé considerata ma all’ingannatoria convinzione indotta nel privato che i soldi servano a “comprare il favore” del funzionario pubblico.

Anche la condotta di millantato credito viene comunque considerata lesiva del prestigio della pubblica amministrazione, nella misura in cui rafforza la convinzione, anche se priva di fondamento, che l’esercente una pubblica funzione può essere facilmente corruttibile, laddove vengano in rilievo supposte relazioni personali, aventi carattere lavorativo o semplicemente amicale, sfruttando le quali si ritiene possibile ottenere vantaggi a proprio favore, dietro pagamento di un “prezzo di scambio”: il privato paga l’operato del millantatore, il quale fa credere al primo che potrà ottenere da parte del pubblico ufficiale il vantaggio desiderato e ricollegato all’esercizio delle sue funzioni.

Nel traffico di influenze illecite, invece, ci troviamo di fronte all’esistenza effettiva di una relazione col pubblico ufficiale, tale che anche il privato disposto a pagare il prezzo della mediazione è ben consapevole della sussistenza di un reale contatto con l’esercente una pubblica funzione: da qui ne discende non solo la punibilità del soggetto che indebitamente promette o dà il denaro al corruttore ma soprattutto il carattere di specialità della norma rispetto all’articolo 346 c.p., che rappresenta la fattispecie generale.

Occorre, poi, evidenziare come la punibilità dell’oggetto dell’attività di mediazione è circoscritta ad opera dell’articolo 346-bi c.p. all’ipotesi in cui l’attività stessa sia finalizzata “al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del(l’) ufficio” da parte del pubblico ufficiale, ricalcando in tal modo la condotta tipica del reato di corruzione impropria di cui all’articolo 319 c.c. e facendone discendere l’inconfigurabilità del reato in esame quando la promessa o la dazione di denaro è compiuta da parte del privato in relazione al compimento di un atto legittimo.

Una volta ravvisato un rapporto di specialità tra le due norme, occorre evidenziare l’esistenza o meno di ipotesi in comune tra le due fattispecie, per le quali soltanto si potrà postulare un fenomeno di successione di leggi penali in senso stretto. Ed allora, se è vero che nel millantato credito il disvalore penale è attribuito a quella condotta di vanteria, di per sé potenzialmente decettiva circa la corruttibilità del funzionario pubblico, ne consegue che dal suo ambito di applicazione deve escludersi la specifica e più grave ipotesi in cui sussista effettivamente un contatto diretto col pubblico ufficiale, circostanza che giustifica la punibilità del privato assieme a quella del mediatore.

Ciò significa che per quei fatti di reato commessi prima dell’entrata in vigore della legge del 2012, in cui il millantato credito sia correlato all’esistenza effettiva di un contatto col pubblico ufficiale o con l’incaricato di un pubblico servizio, non potrà trovare applicazione l’articolo 346-bis, che rappresenta, per tale aspetto, un’ipotesi di nuova incriminazione.

Argomentare diversamente, nel senso di ritenere inglobata nella fattispecie del millantato credito anche l’ipotesi in esame, argomentando dalla circostanza per cui la millanteria prescinde dal riscontro dell’esistenza o meno di un fondamento di verità, condurrebbe invece a ritenere tale ipotesi quale fattispecie comune alle due norme, con possibilità di applicare il quarto comma dell’articolo 2 c.p. e conseguente applicazione della pena più favorevole di cui all’articolo 346-bis.

Tale soluzione ermeneutica è stata ritenuta opinabile dalla dottrina, in quanto oltre a snaturare la fattispecie di cui all’articolo 346 c.p. ed il carattere di specialità della stessa, sembrerebbe contraddire la stessa voluntas legis di inasprimento della risposta sanzionatoria penale anche a fronte di atti prodromici al fenomeno della corruzione vera e propria, maggiormente offensivi del bene giuridico del prestigio della p.a. proprio laddove, a dispetto di un millantato credito, si configuri la possibilità di sfruttare in concreto “relazioni esistenti” col pubblico funzionario.

Alla luce della disciplina del la successione delle leggi penali nel tempo, è possibile sostenere che l’articolo 346 bis è speciale rispetto al 346 da un punto di vista strutturale, essendo il primo costruito, a differenza del secondo, secondo il modello del reato a concorso necessario proprio, per cui, pur ammettendo una continuità tra le fattispecie incriminatrici in presenza della reale possibilità di esercitare un’influenza su un pubblico ufficiale, si deve escludere la punibilità del soggetto potenziale corruttore che “dà o promette denaro o altro vantaggio patrimoniale”, risolvendosi la stessa in una palese violazione del primo comma dell’articolo 2 c.p..

A ciò si aggiunge l’elemento di specialità sovracitato rappresentato dallo sfruttamento di “relazioni esistenti” col un funzionario pubblico, che può ritenersi o un’ipotesi comune tra le due fattispecie, con conseguente possibilità di applicazione del quarto comma dell’articolo 2, ovvero un’ipotesi di nuova incriminazione.

Infine, la delimitazione della punibilità della condotta “in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio” consente di evidenziare come la remunerazione ovvero il prezzo della mediazione siano messi in correlazione a delle finalità ben specifiche, che comunque possono rientrare nell’ambito applicativo di cui all’articolo 346 c.p., essendo la fattispecie costruita in termini più generali rispetto al 346bis.

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