Home » Temi » Descriva il candidato i rapporti sussistenti tra l’eccesso di legittima difesa e l’omicidio preterintenzionale.

Descriva il candidato i rapporti sussistenti tra l’eccesso di legittima difesa e l’omicidio preterintenzionale.

Descriva il candidato i rapporti sussistenti tra l’eccesso di legittima difesa e l’omicidio preterintenzionale.

Silvia Marini

La legittima difesa, in diritto, è una causa di giustificazione prevista da vari ordinamenti giuridici, solitamente concepita come una causa di non punibilità ai fini dell’applicazione di sanzioni di diritto penale.

L’istituto della legittima difesa è disciplinato dall’art. 52 del nostro Codice penale, a norma del quale:

«Non è punibile chi ha commesso il fatto, per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa».

Il brocardo latino indicativo di questa causa di giustificazione è dato dall’espressione vim vi repellerelicet, indica che la legittima difesa è stata da sempre riconosciuta in tutti gli ordinamenti, proprio perché il diritto non può tutelare nello stesso tempo un bene e imporre al soggetto di sopportare il pregiudizio.

La ratio della scriminante in questione è stata spiegata diversamente in dottrina.

La dottrina dominante ha ravvisato la ratio di questa causa di giustificazione nella prevalenza accordata dallo Stato all’interesse del soggetto ingiustamente aggredito, rispetto all’interesse di chi si è volontariamente posto contro la legge; questo è quanto ritiene il Mantovani.

Mentre l’Antolisei ritiene che mancherebbe, nel caso della legittima difesa, quel danno sociale che giustifica l’intervento e l’applicazione della sanzione penale.

Secondo altri ancora, in particolare il Fiandaca-Musco, la legittima difesa rappresenterebbe un residuo di autotutela che lo Stato concede al cittadino, nei casi in cui l’intervento dell’autorità non può risultare tempestivo.

Nell’analisi esegetica dell’articolo 52 c.p. occorre distinguere i due poli attorno ai quali ruota il fatto tipico commesso dal soggetto che si difende: quello della “aggressione ingiusta” e quello della “reazione difensiva”.

Sia l’aggressione che la reazione devono presentare determinati requisiti.

Innanzitutto l’aggressione deve provenire da una condotta umana; può scaturire anche da animali o cose soltanto se è individuabile un soggetto tenuto ad esercitare su di essi una vigilanza, contro, invece, i danni che provengono da animali o cose si applicherà al limite lo stato di necessità (ex art. 54 c.p.).

Per quanto riguarda le modalità dell’aggressione, non si richiede una violenza, ma un’offesa; quindi, la legittima difesa è ammessa anche contro il comportamento passivo di un soggetto che, per esempio, si pone davanti alla porta di una abitazione ed impedisce al proprietario di entrarvi. Può consistere anche in una condotta omissiva: si pensi al rifiuto di un automobilista di trasportare un ferito grave, rende legittima la violenza o la minaccia diretta a costringere l’automobilista stesso ad adempiere il suo obbligo di soccorso; o, ancora, alla demolizione di una cosa pericolante a cui non ha provveduto il proprietario.

L’oggetto dell’aggressione deve essere un diritto; il codice attuale, utilizzando questo termine “diritto”, ha esteso la facoltà di tutela a tutti i diritti, a tutte le situazioni soggettive attive, a prescindere dalla loro qualificazione formale. Mentre, invece, la giurisprudenza ritiene che restano escluse dalla sfera applicativa di questa norma, le situazioni di fatto da cui ogni cittadino può trarre o trae determinati vantaggi o utilità soggettive.

Il soggetto passivo dell’aggressione può essere, oltre che il soggetto che si difende, ossia il soggetto attivo della reazione, anche un terzo, si parla in questo caso di “soccorso difensivo”.

Il soccorso di persona in pericolo però, è facoltativo, perché ricorre un’ aggressione in atto che può tradursi in pericolo anche per il soccorritore. Mentre, invece, il soccorso è necessario, ex art. 593 c.p., se questo pericolo non sussista, oppure, l’aggressione sia esaurita o la persona soccorsa versi in pericolo per altre cause.

Altro requisito è che l’aggressione deve aver provocato un “pericolo attuale” di lesione del diritto, cioè, deve aver provocato l’elevata probabilità del verificarsi della lesione.

Pericolo attuale di una offesa, significa rischio incombente al momento del fatto, per cui la reazione non può essere né anticipata c.d. pericolo futuro, né posticipata c.d. pericolo passato.

Quindi, non scrimina il “pericolo futuro”, cioè la probabilità che si verifichi una situazione pericolosa, perché, in questo caso, il soggetto ha tutto il tempo per rivolgersi all’autorità; e non scrimina neanche il “pericolo passato”, perché, in questi casi, la reazione coinciderebbe con una vendetta o rappresaglia, che naturalmente non sono ammesse nel nostro ordinamento.

Deve considerarsi attuale il c.d. “pericolo perdurante”, che si ha quando la lesione è in corso al momento della reazione con cui possono essere evitati ulteriori sviluppi; oppure, quando la lesione non si è ancora consolidata, non essendosi completato il passaggio dalla situazione di pericolo a quella di danno effettivo.

La stessa cosa avviene anche nei reati permanenti, in cui la vittima può reagire contro il pericolo dell’ulteriore protrarsi della lesione al proprio diritto, così come nel caso del ladro che fugge, nei confronti del quale è possibile la reazione per integrarsi del possesso della cosa.

La legittima difesa opera soltanto se il pericolo, oltre che attuale, sia anche “involontario”; pur nel silenzio del legislatore, la giurisprudenza e parte della dottrina inclinano a ritenere che la scriminate in esame non sia invocabile se la situazione di pericolo è volontariamente cagionata dal soggetto che reagisce: in tal caso verrebbe infatti meno il requisito della necessità della difesa o quello dell’ingiustizia dell’offesa.

Ulteriore requisito dell’aggressione è che deve aver causato il pericolo di una “offesa ingiusta”, cioè l’offesa contra ius, l’offesa antigiuridica.

Per quanto riguarda la “reazione difensiva” o legittima, occorre che la reazione sia necessaria per salvaguardare il bene in pericolo, nel senso che il soggetto non può evitare l’offesa al suo diritto se non difendendosi: ciò vuol dire che, l’aggredito di fronte all’alternativa tra reagire e subire, non può evitare il pericolo se non reagendo contro l’aggressore; quindi, il soggetto si deve trovare nell’impossibilità di scegliere tra più condotte alternative di agire altrimenti.

La necessità della reazione va valutata, non in astratto, ma in concreto, tenendo conto di tutte le circostanze del caso singolo, come le condizioni dell’aggredito, i mezzi di cui dispone, il tempo e il luogo dell’attacco.

Per essere legittima la reazione deve cadere sull’aggressore.

Poi occorre che la difesa sia “proporzionata” all’offesa: qui, l’interpretazione è abbastanza controversa, perché secondo un indirizzo meno recente, il giudizio di proporzione tra l’offesa e la difesa, va desunto dal confronto tra i mezzi reattivi che l’aggredito aveva a disposizione e quelli che invece sono stati adoperati; per cui ricorrerà la scriminante soltanto se l’agente ha reagito con il solo mezzo che, al momento dell’aggressione, aveva a disposizione, indipendentemente dall’entità del danno cagionato all’aggressore e dell’interesse da tutelare.

Questo indirizzo è stato abbandonato, e sostanzialmente in realtà, il raffronto tra i beni in conflitto va fatto in concreto, tenendo conto del grado di aggressione e delle altre circostanze del caso concreto. Quindi, in sostanza, è un giudizio relativo, perché il rapporto è pur sempre tra un bene dell’aggressore e un bene dell’aggredito, e, quindi, una reazione più forte può rassicurare maggiormente sulla efficacia della difesa.

Nel 2006, stante una forte esigenza sociale determinata dall’aumento della micro-criminalità, in cui l’escalation delinquenziale ha raggiunto livelli tracotanti e irrefrenabili, l’art. 52 C.p. è stato oggetto di riforma, il legislatore attraverso l’art. 1 della L. n. 59 ha introdotto un secondo e terzo comma all’art. 52 c.p.: “Nei casi previsti dall’articolo 614, primo e secondo comma, sussiste il rapporto di proporzione di cui al primo comma del presente articolo se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere:

a) la propria o altrui incolumità;

b) i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo d’aggressione.

La disposizione di cui al secondo comma si applica anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto all’interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale”.

Alla luce di questo disposto la sussistenza del rapporto di proporzionalità, tra la reazione dell’aggredito e l’offesa minacciata dal reo, viene eccezionalmente presunta ex lege; quindi, non è più sottoposta al vaglio discrezionale del giudice nel caso in cui avvenga nel domicilio dell’aggredito o nel suo luogo di lavoro.

Come ha avuto modo di sottolineare di recente la Suprema Corte (sentenza n. 25339 del 2006), la norma pone, in favore dell’aggredito in uno dei luoghi di cui al secondo ed al terzo comma dell’art. 52 c.p., una “presunzione di proporzionalità” della reazione a patto che sussistano i presupposti di fatto indicati nel medesimo comma 2 e, cioè, che il soggetto che ponga in essere la reazione legittima si trovi nel luogo dell’aggressione legittimamente, che detenga lo strumento con il quale pone in essere la reazione legittimamente, che non vi sia stata desistenza e che vi sia ancora il pericolo d’aggressione.

Abbiamo quindi visto che, se sussistono i requisiti di necessità, inevitabilità e proporzione, la reazione difensiva è consentita.

Qualora la reazione rientri in quei comportamenti previsti dall’art. 52 c.p., essa viene ritenuta non punibile configurando così l’ipotesi di «difesa legittima reale». Può anche capitare che, in buona fede, la persona aggredita reagisca pensando di averne il diritto, mentre in realtà non sussistono tutti i requisiti richiesti dall’art. 52 c.p., oppure che nella sua reazione difensiva ecceda nell’azione.

Quando si è di fronte alla vastissima gamma delle umane condotte, che possono assumere una rilevante valenza penalistica, ci si può imbattere nel caso di chi reputi, erroneamente, che la propria azione sia coperta da una causa di giustificazione, la quale renda il comportamento, immune da ogni tipo di responsabilità e permetta, pertanto, l’esclusione del carattere dell’antigiuridicità.
In tali casi, l’agente versa in condizione di errore di fatto, determinato dalla falsa convinzione soggettiva di operare in stato di legittima difesa. La suddetta ipotesi rientra nell’ambito della previsione dell’art. 59, comma 3, c.p., e in relazione all’istituto della legittima difesa prende il nome di legittima difesa putativa.

Circa l’ambito di applicazione della putatività, si può asserire che, lo stesso, appare circoscritto alle sole cause di giustificazione: essa infatti deriva dall’accostamento e dall’assemblaggio rispetto alla fattispecie base, di una particolare situazione di fatto specificatamente prevista e descritta dal citato art. 59, comma 3, c.p. che a parere di parte rilevante della dottrina incide sull’elemento psicologico della condotta in questione.

Riguardo all’istituto della legittima difesa putativa, si può affermare che lo stesso non si differenzia dallo stereotipo di base ricavato dall’art. 52 c.p. in quanto esso effettivamente richiede i medesimi presupposti della legittima difesa reale, l’unica diversità è ravvisabile circa la situazione di pericolo, in quanto nella scriminante putativa non esiste obiettivamente, viene erroneamente supposta dall’agente a causa dell’inesatta valutazione sulle circostanze del fatto, tali da far sorgere nel soggetto la convinzione di trovarsi in una situazione di pericolo attuale di un’offesa ingiusta.

La legittima difesa putativa si verifica allorché l’autore del fatto ponga in essere una reazione nella supposizione erronea della sussistenza di un pericolo d’offesa ingiusta per un bene proprio o altrui.

In tal caso, la giurisprudenza ha precisato che, ai fini dell’operatività della scriminante putativa, è necessario che la convinzione in ordine alla sua ricorrenza sia giustificata da “fatti materiali” e non origini da una mera percezione soggettiva disancorata da presupposti concreti.

Pertanto, il mero timore e lo stato d’animo dell’individuo, fattori assolutamente soggettivi, non sono sufficienti a far sì che venga applicata la scriminante della legittima difesa putativa.

L’errore sulle cause di giustificazione si distingue dalla fattispecie di “eccesso colposo”.

Ai sensi dell’art. 55 c.p.: ‹‹Quando, nel commettere alcuno dei fatti preveduti dagli artt. 51, 52, 53 e 54, si eccedono colposamente i limiti stabiliti dalla legge o dall’ordine dell’autorità ovvero imposti dalla necessità, si applicano le disposizioni concernenti i delitti colposi, se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo››.

La fattispecie dell’eccesso colposo ricorre allorché sussistono i presupposti di fatto di una causa di giustificazione, ma l’agente, per colpa, ne travalica i limiti.

Il giudizio relativo alla natura colposa del superamento dei limiti dell’agire consentito si effettua alla stregua dei parametri normativi contenuti nell’art. 43 c.p.: il travalicamento dei confini della scriminante deve, cioè, dipendere da difetto inescusabile di conoscenza della situazione concreta da parte dell’agente, ovvero da altre forme di inosservanza di regole di condotta a contenuto precauzionale relative all’uso dei mezzi o alle modalità di realizzazione del comportamento.

Parte della dottrina distingue due forme di eccesso colposo: il primo si ha quando si cagiona un determinato risultato volutamente, perché si valuta erroneamente la situazione di fatto; il secondo si verifica quando la situazione di fatto è valutata esattamente, ma per errore esecutivo si produce un evento più grave di quello che sarebbe stato necessario cagionare.

Per la configurabilità dell’illecito colposo, è necessario che la volontà dell’agente sia sempre tesa a realizzare quel fine che nella situazione concreta rende giustificato il comportamento, e che, per un errore vincibile sulla necessità dell’uso di dati mezzi o sull’estensione dei limiti concreti che la situazione impone, si realizzi un evento sproporzionato rispetto a quello che sarebbe stato, invece, sufficiente produrre.

Il delitto commesso in situazione di eccesso deve ritenersi un vero e proprio delitto colposo, in quanto, pur essendo vero che l’evento più grave può essere previsto e voluto dall’agente, la volontarietà del fatto è viziata da un errore inescusabile, che si converte in una falsa rappresentazione dei confini entro i quali è consentito agire, mancando l’esatta conoscenza della situazione concreta, dunque, esula l’elemento conoscitivo del dolo.

Posto, infine, che l’errore di valutazione in cui l’agente cade potrebbe essere evitato prestando maggior attenzione, sussistono i presupposti strutturali tipici del comportamento colposo.

La situazione di eccesso colposo si distingue da quella di erronea supposizione di una scriminante: mentre in quest’ultima la causa di giustificazione non esiste nella realtà, ma soltanto nella mente di chi agisce, nel caso di eccesso colposo, la scriminante di fatto esiste, ma l’agente supera colposamente i limiti del comportamento consentito.

Si ha, in definitiva, l’eccesso quando esistono i presupposti delle cause di giustificazione: un diritto, un dovere, un’aggressione ingiusta o una situazione di necessità, ma vengono oltrepassati i limiti stabiliti.

“L’eccesso colposo sottintende i presupposti della scriminante con il superamento dei limiti a quest’ultima collegati, sicché, per stabilire se nel fatto si siano ecceduti colposamente i limiti della difesa legittima, bisogna prima accertare la inadeguatezza della reazione difensiva, per l’eccesso nell’uso dei mezzi a disposizione dell’aggredito in un preciso contesto spazio temporale e con valutazione ex ante, e occorre poi procedere a un’ulteriore differenziazione tra eccesso dovuto a errore di valutazione ed eccesso consapevole e volontario, dato che solo il primo rientra nello schema dell’eccesso colposo delineato dall’art. 55 c.p., mentre il secondo consiste in una scelta volontaria, la quale comporta il superamento doloso degli schemi della scriminante. In tal modo, la figura dell’eccesso colposo sottintende i presupposti della scriminante della legittima difesa e si concreta nel superamento dei limiti a essa immanenti, fondandosi entrambe sull’esigenza di rimuovere il pericolo di un’aggressione mediante una reazione proporzionata” (Corte di Cassazione, sez. I penale, sent. 24 giugno 2013 n. 27595).

Si è, invece, fuori dai limiti dell’eccesso colposo se l’agente, essendo ben a conoscenza della situazione concreta e dei mezzi necessari al raggiungimento dell’obiettivo consentito, superi volontariamente i limiti dell’agire scriminato.

Qualora la condotta dell’agente abbia superato per intensità e durata i limiti della legittima difesa, l’operatività di tale scriminante non può essere invocata, come anche l’applicazione della disciplina dell’eccesso colposo nella medesima scriminante quando per l’evidente coscienza e volontà dimostrata nel superare la propria difesa cagioni lesioni all’avversario.

In questa ipotesi, la qualificazione giuridica del fatto, non può essere ascrivibile, dunque, come eccesso colposo, ma come “omicidio preterintenzionale”: «l’avere volontariamente commesso» il delitto di lesioni «assorbe la prevedibilità dell’evento più grave nell’intenzione di risultato».

Nell’impianto del nostro Codice penale, la responsabilità preterintenzionale è una figura autonoma, una figura a sé stante, distinta sia dalla responsabilità per dolo, sia dalla responsabilità per colpa e sia dalla responsabilità oggettiva.

L’art. 42 c.p. prevede, oltre alla responsabilità per dolo e alla responsabilità per colpa, anche l’ipotesi del delitto preterintenzionale; e, nel 2° comma recita che nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l’ha commesso con dolo, salvo i casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente preveduti dalla legge.

Quindi, accanto alle ipotesi dolose o colpose o preterintenzionali (3°co.) la legge poi determina i casi nei quali l’evento è posto altrimenti a carico dell’agente come conseguenza della sua azione od omissione (tratta dei casi di responsabilità oggettiva).

Il Codice offre una vera e propria definizione del delitto preterintenzionale che troviamo nell’art. 43: ‹‹Il delitto è preterintenzionale, o oltre l’intenzione, quando l’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente››.

Nell’ambito della parte speciale del c.p., l’unica ipotesi di delitto preterintenzionale è data dall’omicidio preterintenzionale disciplinato dall’art. 584: ‹‹Chiunque, con atti diretti a commettere uno dei delitti preveduti dagli artt. 581 e 582, cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione da 10 a 18 anni››.

Per quanto riguarda invece la legislazione speciale si richiama l’ipotesi di aborto preterintenzionale che consiste nel fatto di chiunque provochi l’interruzione di una gravidanza con azioni dirette a cagionare lesioni alla donna.

Si discute molto sulla struttura soggettiva del delitto preterintenzionale; sicuramente la preterintenzione non è una forma di responsabilità intermedia tra dolo e colpa, ma è una forma di responsabilità autonoma a sé stante.

Il problema è stabilire se l’evento ulteriore debba essere ascritto al soggetto agente a titolo di colpa oppure in base alla responsabilità oggettiva.

Secondo l’opinione diffusa, l’evento preterintenzionale, cioè il risultato che è andato oltre il volere, verrebbe imputato a titolo di responsabilità oggettiva, per cui basterebbe il semplice nesso di causalità materiale tra la condotta dell’agente e l’evento finale.

Ed è proprio questa la soluzione che meglio si avvicina allo spirito del Codice, ma che in realtà va a stridere con il principio di colpevolezza.

Secondo, invece, un’altra lettura, l’evento preterintenzionale deve essere “coperto da colpa”; il riferimento alla colpa viene fatto in due prospettive diverse.

Secondo alcuni si tratterebbe di una colpa per inosservanza di leggi e, quindi, sostanzialmente, le leggi non osservate vengono individuate nelle norme incriminatrici in tema di percosse e lesioni. Però questa interpretazione conduce a dei risultati non accettabili nell’ottica costituzionale, perché sono sovrapponibili a quelli a cui si giunge ascrivendo l’evento preterintenzionale a titolo di responsabilità oggettiva.

Invece, questa colpa per inosservanza di leggi non andrebbe riscontrata caso per caso, ma in re ipsa, ricorrendo in una ipotesi di realizzazione dolosa del reato base.

Altro, invece, richiede la colpa in rapporto all’evento preterintenzionale quale elemento soggettivo da accertare in concreto, quindi non presunto.

Secondo questa seconda soluzione, la dottrina ritiene che la struttura del delitto preterintenzionale si caratterizzi proprio per un dolo misto a colpa; per cui, c’è una volontà di un fatto base minore -c’è sostanzialmente il dolo per quanto riguarda le percosse o le lesioni quanto meno tentate – e, c’è la colpa in rapporto all’evento morte, cioè la mancanza di volontà dell’evento ulteriore.

Questa è la soluzione che è in linea con il principio di colpevolezza cui con ogni probabilità può pervenire il giudice in sede di interpretazione dell’art. 584 cp e, di ogni altra fattispecie preterintenzionale senza, in questo caso, sollevare una questione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice per violazione dell’art. 27 Cost.

Secondo l’orientamento dominante presso la più recente giurisprudenza di legittimità, l’elemento soggettivo del delitto preterintenzionale è costituito ‹‹non già da dolo e responsabilità oggettiva, né da dolo misto a colpa», bensì «unicamente dalla volontà di infliggere percosse o lesioni» (C. Cass., Sez. V, 14 aprile 2006, n. 13673) poiché «la disposizione dell’art. 43 assorbe la prevedibilità di un evento più grave nell’intenzione di risultato, per il quale i parametri di negligenza, imprudenza o imperizia, men che d’inosservanza di norme sono assolutamente irrilevanti».

In particolare, secondo tale tesi «la prevedibilità» non assurgerebbe «a carattere distinto dell’omicidio preterintenzionale» perché «il rischio di evento omogeneo più grave è insito nel danno o pericolo che si arreca alla persona fisica. E nel sistema l’interesse primario, che accomuna i beni essenziali della persona, è complessivamente tutelato in ragione dell’idea (categoria) di inevitabilità dell’evento più grave, conseguente al processo naturale attivato con la condotta umana». «La prevedibilità dell’evento più grave», insomma, «è in caso di delitto preterintenzionale categoria irrilevante per la struttura dell’elemento psicologico, assorbita nel dolo di percosse o lesioni».

Tale impostazione non rappresenta nient’altro che l’ennesima riproposizione mascherata della tesi che reputa la preterintenzione una combinazione di dolo rispetto all’evento di percosse o lesioni e di responsabilità oggettiva rispetto all’evento morte.

Affermare, infatti, che l’elemento soggettivo del delitto di cui all’art. 584 c.p. consiste «unicamente» nella volontà di infliggere percosse o lesioni e che, per l’imputazione dell’evento più grave, «i parametri di negligenza, imprudenza o imperizia, men che d’inosservanza di norme sono assolutamente irrilevanti» altro non sembra poter significare che l’evento morte debba essere imputato sulla sola base del nesso di causa tra le lesioni inferte e il decesso cagionato e, cioè, a titolo di mera responsabilità oggettiva.

Rispetto al problema dell’imputazione dell’evento non voluto, insomma, tertium non datur: o l’evento morte deve essere imputato per colpa, concepita ed accertata nei suoi requisiti ordinari – nel senso di prevedibilità in concreto dell’evento più grave al momento della posizione in essere della condotta, «seguendo il medesimo procedimento (valutazione di prevedibilità ed evitabilità dal punto di vista di un agente modello; accertamento del duplice nesso colpa-evento) della colpa presente nei “normali” reati colposi d’evento», sul punto, preponderante la dottrina che richiede, per la condanna a titolo di omicidio preterintenzionale, l’accertamento della prevedibilità ed evitabilità in concreto dell’evento mortale; oppure l’evento rischierà inevitabilmente di essere ascritto all’agente sine culpa; a titolo, cioè, di mera responsabilità oggettiva.

Sennonché, tale ultima opzione ermeneutica non sembra davvero più percorribile, alla luce delle espresse indicazioni derivanti dalla giurisprudenza costituzionale, che ha esplicitamente precisato che «il fatto imputato, perché sia legittimamente punibile, deve necessariamente includere almeno la colpa dell’agente in relazione agli elementi più significativi della fattispecie tipica» (C. cost. 364/1988), che il principio “qui in re illicita versatur respondit etiam pro casu” «contrasta con l’art. 27, primo comma, Cost.» (C. Cost. n. 1085/1988).

Nella citata sentenza – n.364/88- la Corte afferma che «è indispensabile che tutti e ciascuno degli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano soggettivamente collegati all’agente -siano, cioè, investiti dal dolo o dalla colpa- ed è altresì indispensabile che tutti e ciascuno dei predetti elementi siano allo stesso agente rimproverabili e cioè anche soggettivamente disapprovati».

Come si è notato in dottrina, «l’evento morte non voluto non può non essere ricompreso tra gli “elementi più significativi” della fattispecie di cui all’art. 584, essendo esso significativo sia rispetto all’offesa (in quanto offensivo, in via autonoma, del bene primario della vita), sia rispetto alla pena (in quanto determina l’inflizione di una pena ulteriore rispetto a quella prevista per il reato-base doloso di percosse o lesioni)»; e non v’è dubbio che proprio il principio qui in re illicita versatur respondit etiam pro casu – privo di cittadinanza nell’ordinamento penale italiano secondo la Corte costituzionale – stia alla base dell’interpretazione tradizionale dell’art. 584.

Come superare, allora, l’incompatibilità tra l’art. 584 c.p. (nella sua corrente lettura giurisprudenziale) e principio costituzionale di colpevolezza?

Com’è noto, secondo il Giudice delle Leggi, «il principio di colpevolezza – quale delineato dalle sentenze n. 364 e n. 1085 del 1988 – si pone non soltanto quale vincolo per il legislatore, nella conformazione degli istituti penalistici e delle singole norme incriminatici; ma anche come canone ermeneutico per il giudice, nella lettura e nell’applicazione delle disposizioni vigenti».

E quella dell’interpretazione adeguatrice secundum costitutionem è stata, del resto, la via prescelta dalla Corte di Cassazione con riferimento alla fattispecie di cui all’art. 586 c.p., che con l’art. 584 c.p. condivide il fondamentale problema dell’imputazione soggettiva dell’evento più grave causalmente connesso alla condotta illecita dell’agente (C. Cass., Sez. un., 29 maggio 2009, n. 22676, Ronci).

Con la notissima sentenza Ronci, infatti, la Suprema Corte, riunita nella sua composizione più autorevole, ha chiarito che «l’unica interpretazione conforme al principio costituzionale di colpevolezza è quella che richiede, anche nella fattispecie di cui all’art. 586 c.p., una responsabilità per colpa in concreto, ossia ancorata ad una violazione di regole cautelari di condotta ed a un coefficiente di prevedibilità ed evitabilità, in concreto e non in astratto, del rischio connesso alla carica di pericolosità per i beni della vita e dell’incolumità personale, intrinseca alla consumazione del reato doloso di base».

All’estensione del criterio d’imputazione soggettiva enunciato nella sentenza Ronci all’imputazione dell’evento nel caso dell’art. 584 c.p. la Corte di Cassazione oppone, tuttavia, le «notevoli differenze» asseritamente intercorrenti tra le due ipotesi, «perché nella ipotesi dell’omicidio preterintenzionale l’agente intende conseguire un evento – lesioni o percosse – del tutto omogeneo a quello più grave in concreto verificatosi» (C. Cass., Sez. V, 8 marzo 2013, n. 791) e, dunque, solo in quest’ultimo caso «il rischio di evento omogeneo più grave è insito nel danno o pericolo che si arreca alla persona fisica» (C. Cass., Sez. V, 14 aprile 2006, n. 13673), «essendo assolutamente probabile che da una azione violenta contro una persona possa derivare la morte della stessa» (C. Cass., Sez. V, 8 marzo 2013, n. 791).

In realtà, proprio il caso di specie dimostra come quella sorta di “presunzione di prevedibilità” dell’evento-morte che, secondo la Suprema Corte, il legislatore avrebbe cristallizzato nell’art. 584 c.p., finisce per far rispondere l’agente anche di eventi che, seppur causalmente connessi alle lesioni o percosse dolosamente inferte, non potrebbero essere a lui ascritti secondo un ordinario giudizio di responsabilità per colpa in concreto.

Guarda anche

  • Reato di atti persecutori e omicidio aggravato.

  • L’incidenza dei sistemi di videosorveglianza nei reati contro il patrimonio

  • CONTINUAZIONE DEL REATO: LA SUA COMPATIBILITA’ CON IL GIUDICATO, LA RECIDIVA E I REGIMI PROCESSUALI CHE IMPLICANO UNO SCONTO DI PENA

  • Natura giuridica dell’aggravante dell’agevolazione mafiosa