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Distinzione tra atto politico ed atto amministrativo con particolare riferimento alla nomina dei vertici della Banca d’Italia

Distinzione tra atto politico ed atto amministrativo con particolare riferimento alla nomina dei vertici della Banca d’Italia

di Selene Desole

L’individuazione della natura giuridica dell’atto di nomina dei vertici della Banca d’Italia richiede, preliminarmente, un inquadramento generale sulla classificazione tra atti politici e atti amministrativi, con attenzione particolare ai possibili criteri distintivi tra le due tipologie.

In primo luogo, si deve dare conto degli elementi caratterizzanti l’atto politico, al fine di comprenderne la natura e le peculiarità che lo contraddistinguono rispetto all’atto amministrativo.

É importante individuare un riferimento normativo che, fin da subito, fa comprendere che sussiste una concreta differenza tra l’atto politico e l’atto amministrativo. L’art. 7 del Codice del processo amministrativo, nel specificare quali siano le controversie devolute alla giurisdizione amministrativa, dispone espressamente che non sono impugnabili gli atti o i provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico; invece, sono devolute alla giurisdizione amministrativa le controversie nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, di diritti soggettivi, concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi e comportamenti, anche mediatamente riconducibili all’esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni.

Siffatta differenziazione, in termini di sindacato giurisdizionale, tra atti politici e atti amministrativi, ha una fondata giustificazione che emergerà nel corso della presente trattazione, delineando i caratteri delle due tipologie di atti considerate.

In via approssimativa, l’atto politico è l’atto con il quale si determina l’indirizzo politico dello Stato. É necessario, comunque, specificare quali siano i soggetti legittimati all’adozione degli atti politici e quali implicazioni si riscontrino. La determinazione dell’indirizzo politico da parte dell’atto politico consente di affermare che tale atto abbia l’attitudine di definire quali siano le finalità di pubblico interesse che la pubblica amministrazione dovrà perseguire nell’esercizio del potere amministrativo alla stessa attribuito e con il quale la stessa adotta atti di natura amministrativa. In ragione di tale attitudine dell’atto politico, si suole affermare che il suo carattere tipico sia quello della libertà nei fini, per mezzo della quale l’organo emanante esercita una discrezionalità massima, essendo lo stesso deputato a determinare le finalità che l’apparato amministrativo dovrà poi perseguire.

L’atto politico si caratterizza, inoltre, per la tipologia di soggetti legittimati ad emanarlo. Deve trattarsi di soggetti che siano espressione del potere politico, in quanto dotati di una legittimazione democratica che deriva dall’essere espressione della sovranità popolare oppure dall’essere legati, in ragione di un vincolo fiduciario, ad altro organo dotato di legittimazione democratica, di modo da instaurare il circuito della responsabilità politica. Da ciò si evince che l’atto politico sia caratterizzato dall’insindacabilità giurisdizionale, al fine di garantire il principio fondamentale della separazione dei poteri dello Stato. Come noto, tale principio , elaborato dal filosofo Montesquieu, presuppone che i tre poteri dello Stato – legislativo, esecutivo e giudiziario- siano separati ed esercitati da organi differenti, di modo da garantire la realizzazione dello Stato di diritto. Il principio de quo sarebbe palesemente violato se si ammettesse un sindacato giurisdizionale sugli atti politici, essendo questi adottati da soggetti democraticamente legittimati all’esercizio del potere politico.

Con riferimento al soggetto emanante, è necessario distinguere due tipologie di atti politici: quelli di neutralità politica, in quanto emanati da organi super partes e quelli di maggioranza politica, adottati da organi in cui la volontà politica si esprime per il tramite di una maggioranza. Con riferimento agli atti politici di maggioranza, potrebbero configurarsi forme diverse di controllo. Certamente, potrebbe configurarsi una responsabilità politica, ai sensi dell’art. 95 Cost., in capo ai soggetti emananti. Inoltre, si rileva che, tipicamente, tra gli atti in questione, rientrano le leggi del Parlamento; queste, in particolare, si caratterizzano per la presenza di tre requisiti fondamentali: la generalità, ovvero la destinazione alla generalità dei consociati; l’astrattezza, intesa come l’attitudine all’applicabilità ad una serie indeterminata di casi; l’innovatività, cioè il carattere per il quale un atto è idonea ad apportare innovazione nell’ordinamento giuridico. La legge, in quanto atto politico, è libera nei fini e, anzi, è essa stessa a determinare le finalità che poi saranno perseguite dalle pubbliche amministrazioni. Tale tipologia di atti politici è soggetta al controllo da parte della Corte Costituzionale, che è chiamata a vagliarne la compatibilità con le disposizioni della Costituzione e a verificare che non si siano configurati conflitti di attribuzioni.

Dal quadro delineato è emerso che l’atto politico non possa essere sindacato dagli organi giurisdizionali, in applicazione del principio della separazione dei poteri, residuando comunque i limiti derivanti dalla responsabilità politica e dal possibile intervento da parte della Corte Costituzionale. Inoltre, essendo l’atto politico un atto di indirizzo, si caratterizza per il fatto di essere generale ed astratto, rendendo impossibile la configurazione di un’immediata lesività del medesimo. Da ciò deriverebbe che l’atto politico non sia idoneo a far sorgere l’interesse ad agire, che è presupposto necessario al fine di esercitare l’azione in sede giurisdizionale, dal momento che in una giurisdizione di tipo soggettivo non è ammissibile un indiscriminato ricorso alla tutela giurisdizionale, anche nelle ipotesi in cui non vi sia la possibilità per l’attore/ricorrente di ottenere un concreto vantaggio per la situazione giuridica soggettiva che intende tutelare.

Delineati gli elementi tipici dell’atto politico, si deve ora procedere con l’individuazione dei caratteri dell’atto amministrativo, prendendo in considerazione anche alcune delle valutazioni già esplicate per l’atto politico.

In primo luogo, si osserva che l’atto amministrativo sia adottato da soggetti diversi rispetto all’atto politico. Infatti, l’atto amministrativo è adottato dalla pubblica amministrazione, la quale, pur essendo un’articolazione del potere esecutivo, è dallo stesso distinta e separata; mentre l’organo esecutivo si occupa di determinare l’indirizzo politico ed amministrativo, individuando le finalità pubbliche da perseguirsi, la pubblica amministrazione si occupa di dare attuazione a tale indirizzo così determinato. Non a caso, la stessa Costituzione si occupa della pubblica amministrazione in una sezione distinta rispetto a quella dedicata al Consiglio dei ministri. L’art. 97 Cost. Prevede che i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione; inoltre, nell’ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari. Si specifica, infine, che agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvi i casi stabiliti dalla legge. Si evince, quindi, un’aspirazione alla separazione tra politica e amministrazione, tant’è che, tendenzialmente, i pubblici funzionari sono soggetti selezionati tramite procedure concorsuali e non sono espressione del potere politico, tranne nei casi in cui si configurino, eccezionalmente, i c.d. spoil system.

La pubblica amministrazione esplica il proprio potere autoritario attraverso gli atti amministrativi. Questi si caratterizzano in maniera differente rispetto agli atti politici. Si rileva, infatti, che gli stessi siano tipicamente particolari e concreti: l’atto amministrativo si rivolge ad uno o più soggetti specificamente individuati ed è concreto, in quanto applicabile solo nel caso concreto per il quale viene emanato. Tali caratterizzazioni consentono di affermare che l’atto amministrativo, a differenza dell’atto politico, sia solitamente idoneo a provocare un’immediata lesività nei confronti di determinati soggetti interessati o controinteressati; l’atto amministrativo ha infatti l’attitudine ad incidere immediatamente sulle situazioni giuridiche soggettive di determinati soggetti, con la conseguenza che in capo ad essi sorgerà l’interesse ad agire o ricorrere in giudizio. L’atto amministrativo, inoltre, non è mai libero nei fini, in quanto la pubblica amministrazione emanante agisce sempre nel perseguimento del pubblico interesse che è determinato a monte dagli atti politici. L’attività della pubblica amministrazione può esplicarsi con l’emanazione di atti vincolati, la cui adozione è totalmente rimessa alla sussistenza di requisiti legislativamente previsti, oppure atti discrezionali, espressione di discrezionalità amministrativa o tecnica, sempre limitata dal perseguimento del pubblico interesse.

I caratteri dell’atto amministrativo così enucleati rendono di agevole comprensione il disposto di cui all’art. 7 c.p.a. citato, in virtù del quale si sancisce la sindacabilità giurisdizionale degli atti amministrativi da parte del giudice amministrativo. Si è, infatti, detto che l’atto amministrativo possa essere idoneo ad ingenerare un’immediata lesività, con la conseguente insorgenza dell’interesse al ricorso. Inoltre, si tratta di un atto che incide su situazioni giuridiche soggettive quali gli interessi legittimi e i diritti soggettivi, nelle materie che la legge riserva alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, nelle ipotesi in cui la lesione sia comunque riconducibile all’esercizio del potere amministrativo. Il controllo giurisdizionale nei confronti degli atti amministrativi si rende necessario per tutelare le situazioni giuridiche di soggetti privati che si trovano in una situazione di effettiva debolezza rispetto al soggetto pubblico che esercita un potere autoritativo, in grado di incidere sulla propria sfera giuridica a prescindere dalla volontà dei medesimi. Si tratta di un’esigenza di tutela alla quale non può che far fronte il potere giurisdizionale.

Un altro dato rilevante di distinzione tra la fattispecie degli atti amministrativi e quella degli atti politici è rappresentato dalla possibile configurazione di una responsabilità civile in capo ai soggetti emananti. Infatti, mentre è pacifico che la pubblica amministrazione sia responsabile per i danni che arreca nell’esercizio dell’attività procedimentale e provvedimentale, posto che con la nota sentenza delle sez. Unite, n. 500 del 1999 è stata anche sancita la risarcibilità dei danni arrecati agli interessi legittimi, lo stesso non può sostenersi nei confronti dello Stato nella sua veste di legislatore, se non in limitate fattispecie. Tendenzialmente, infatti, si ritiene che lo Stato non possa essere chiamato a rispondere nei confronti del cittadino per aver emanato una legge incostituzionale, vigendo il principio, di cui all’art. 68 Cost., per cui i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni. Tuttavia, per completezza, si precisa che il principio risulta non applicabile nelle ipotesi in cui lo Stato legislatore sia inadempiente rispetto agli obblighi derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea.

È interessante rilevare che esistono delle fattispecie in cui in cui i confini tra atto amministrativo e atto politico risultano essere sfumati. Ad esempio, si prendano in considerazione le ipotesi delle c.d. leggi-provvedimento, della cui legittimità costituzionale si dubita, in quanto si tratterebbe di atti che, pur adottati da organi politici, difetterebbero dei requisiti tipici della legge, in quanto privi della generalità ed astrattezza, poiché rivolti a soggetti specifici, per la risoluzione di un caso concreto. Oppure, altra categoria che presenta elementi compositi è quella degli atti di alta amministrazione. Si tratta di atti che si caratterizzano per essere uno strumento di raccordo tra politica e amministrazione e che non sono liberi nei fini, in quanto, comunque, sarebbero rivolti al perseguimento di interessi pubblici stabiliti a monte. L’atto di alta amministrazione, pur essendo emanato da soggetti che sono espressione del potere politico, non sono atti che definiscono l’indirizzo politico, ma sono meramente strumentali al raggiungimento delle finalità di pubblico interesse. La qualificazione di un atto nella categoria degli atti di alta amministrazione fa sì che lo stesso possa ritenersi impugnabile davanti al giudice amministrativo, laddove si configuri in termini di lesività nei confronti di un determinato soggetto, in capo al quale sorgerà l’interesse a ricorrere.

L’esistenza di fattispecie a cavallo tra l’atto politico e l’atto amministrativo denota una precisa tendenza: si è parlato, a tal proposito, di teoria dell’erosione del potere politico; in particolare, una parte della dottrina osserva che l’inquadramento di un atto come politico preclude l’esperibilità della tutela giurisdizionale (ex art. 7 c.p.a.) e, per questo motivo, si tende sempre più ad inquadrare determinati atti come amministrativi o di alta amministrazione al fine di non lasciare privo di tutele il soggetto che possa aver subito una lesione dai medesimi.

Dal quadro delineato emerge una necessità di individuare dei criteri discretivi tra atto politico ed atto amministrativo.

Un primo criterio prospettato si fondava sull’individuazione del soggetto emanante, ciò comportando la qualifica di atto politico all’atto emanato dall’organo politico e di atto amministrativo all’organo emanato dalla pubblica amministrazione. Tuttavia tale criterio è stato presto abbandonato, in quanto foriero di incertezze applicative. Infatti, non necessariamente la natura politica dell’organo denota il carattere politico dell’atto dallo stesso emanato.

Allora, si è prospetto un criterio distintivo di tipo funzionale – teleologico, basato sul contenuto concreto dell’atto adottato e sulle finalità dallo stesso perseguite. Come osservato nel corso della presente trattazione, l’atto politico si caratterizza per determinare esso stesso le finalità di pubblico interesse, mentre l’atto amministrativo non è altro che l’attuazione concreta di quelle finalità predeterminate a monte dall’atto politico.

Alla luce delle considerazioni svolte, si deve procedere, a questo punto, con l’individuazione della natura giuridica dell’atto di nomina dei vertici della Banca d’Italia, non prima di svolgere alcune considerazioni di ordine generale, utili al fine di rinvenire la corretta soluzione al problema che si pone.

La Banca d’Italia rientra nel novero delle autorità amministrative indipendenti; svolge, infatti, attività di vigilanza, di regolazione e sanzionatoria nell’ambito del settore bancario. In quanto autorità indipendente, si caratterizza per il fatto che si pone al di fuori del circuito della responsabilità politica di cui all’art. 95 Cost. Si tratta, infatti, di un potere che non dipende da altri poteri dello Stato e che agisce secondo il criterio della neutralità e non quello, diverso, dell’imparzialità. La neutralità si configura in quanto l’autorità indipendente agisce quale organo super partes, non perseguendo finalità di pubblico interesse, come le altre pubbliche amministrazioni, ma agendo nell’indifferenza degli interessi in gioco, pubblici o privati che siano. Siffatta modalità è giustificata dal fatto che le autorità indipendenti operano in settori caratterizzati da elevato tecnicismo e gli atti dalle stesse adottati, infatti, sono per lo più espressione di discrezionalità tecnica.

Ebbene, nonostante i caratteri dell’indipendenza e della neutralità delle autorità indipendenti, permangono, comunque, delle forme di interferenza del potere politico, quanto meno nell’ambito della scelta dei vertici delle medesime.

Per quanto concerne la Banca d’Italia, ci si deve soffermare sugli atti di nomina e di revoca del Governatore, il quale è il soggetto che ha la rappresentanza della Banca d’Italia di fronte ai terzi, in tutti gli atti e contratti e nei giudizi. In particolare, la relativa specifica disciplina è contenuta nell’art. 19 della legge n. 262 del 2005. La norma stabilisce che l’incarico del Governatore ha durata pari a sei anni ed è suscettibile di un solo rinnovo. Sia la nomina che la revoca del Governatore sono adottate con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio, previa delibera del Consiglio dei ministri, sentito il parere del Consiglio superiore della Banca d’Italia.

Dall’analisi della disposizione citata, si rileva che la nomina e la revoca del Governatore siano caratterizzate dall’intervento di organi quali il Presidente della Repubblica, che è organo super partes e neutrale, il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Consiglio dei ministri, i quali sono responsabili della determinazione dell’indirizzo politico ed amministrativo. Se si adottasse il criterio distintivo fondato sulla natura del soggetto emanante, si potrebbe giungere alla conclusione di dover inquadrare l’atto come politico.

Tuttavia, sulla base del criterio distintivo funzionale, ci si deve chiedere se, effettivamente, gli atti di nomina e di revoca possano essere considerati atti di determinazione dell’indirizzo politico, nei quali si predeterminano finalità di pubblico interesse o se, invece, il loro contenuto suggerisca l’inquadramento in altra categoria di atti.

In un certo qual modo, potrebbe affermarsi che l’atto di nomina e di revoca del Governatore siano idonei ad incidere sull’indirizzo politico; d’altra parte, però, si deve specificare che il Governatore non è soggetto vincolato al potere politico; infatti, lo stesso rappresenta il vertice di un’autorità amministrativa indipendente, la quale si caratterizza, per l’appunto, per l’indipendenza rispetto a qualsiasi altro potere dello Stato.  Questa indipendenza è necessaria per il raggiungimento delle finalità tipiche delle autorità amministrative indipendenti: si è detto che queste operano in settori di elevato tecnicismo e le stesse hanno anche un ruolo fondamentale in merito all’intervento dello Stato nell’economia; le autorità si muovono nell’ottica di garantire il rispetto di determinati valori e principi in settori sensibili, di modo da assicurare le migliori scelte possibili, a prescindere dagli interessi delle parti coinvolte.

Tali considerazioni comportano l’impossibilità di inquadrare l’atto di nomina e di revoca come atto politico, dato che ciò precluderebbe la configurabilità di una tutela giurisdizionale avverso il medesimo, per le ragioni sopra indicate.

Allora, si è fatta strada altra tesi, la quale è parsa più convincente secondo l’opinione della giurisprudenza. Gli atti di nomina e revoca del Governatore ed, in generale, dei vertici delle autorità amministrative indipendenti potrebbero essere inquadrati come atti di alta amministrazione. Infatti, tali atti sono piena espressione della strumentalità tipica degli atti di alta amministrazione e rappresentano un vero e proprio momento di raccordo tra politica ed amministrazione. L’atto di nomina, in particolare, è funzionale a far sì che l’autorità indipendente possa esplicare le sue funzionalità tipicamente amministrative ed in questo emerge il suo carattere di strumentalità.

L’inquadramento come atto di alta amministrazione degli atti di nomina e revoca citati, comporta inoltre la possibilità di un sindacato sui medesimi da parte del giudice amministrativo. Infatti, l’art. 7 c.p.a., citato nell’incipit della presente trattazione, dispone che non siano impugnabili gli atti o i provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico, ma non gli atti che siano, invece, espressione di scelte di alta amministrazione. Sostenere la tesi dell’atto di natura politica negherebbe la tutela giurisdizionale avverso tali atti, sebbene potrebbe valorizzare l’elemento fiduciario dell’intuitu personae che sarebbe rinvenibile tra l’organo politico ed il vertice nominato.

In conclusione, la preferenza dell’inquadramento dell’atto di nomina del vertice della Banca d’Italia nella categoria degli atti di alta amministrazione sembra ancor più avvalorare la teoria dell’erosione del potere politico, nella logica di assicurare tutela giurisdizionale in favore del soggetto eventualmente leso dall’atto in questione.

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