Il potere normativo della p.a.: limiti nel sistema delle fonti
di Serafino Ruscica
Schema preliminare di svolgimento della traccia:
• Il potere regolamentare della pubblica amministrazione.
• Il fondamento del potere regolamentare della pubblica amministrazione.
• L’invalidità del regolamento amministrativo.
• La tutela giurisdizionale nei confronti del regolamento amministrativo illegittimo.
• La disapplicazione del regolamento amministrativo illegittimo da parte del giudice amministrativo.
Svolgimento
La pubblica amministrazione, che è l’apparato organizzativo preposto all’esercizio del potere amministrativo, è dotata altresì nei casi previsti dalla legge di potere normativo, cioè del potere di creare norme giuridiche aventi valore subordinato alle norme di legge.
Ciò rappresenta una deroga al principio della separazione dei poteri accolto nella Costituzione, in virtù del quale il potere normativo appartiene agli organi legislativi dello Stato e delle Regioni, dai quali promanano le “fonti normative di rango primario”, così definite perché sono subordinate alle “fonti normative di rango costituzionale”.
Alle fonti normative di rango primario si affiancano le “fonti normative di derivazione comunitaria”, le quali sono poste in essere dall’Unione Europea nelle materie di sua competenza, e si integrano nell’ordinamento giuridico nazionale, dove hanno prevalenza sulle fonti normative di produzione nazionale.
Il potere normativo della pubblica amministrazione si esercita prevalentemente attraverso il “regolamento”. Questo può essere definito come l’atto emanato da un organo amministrativo ma contenente norme giuridiche. Due elementi lo contraddistinguono: la provenienza soggettiva, per la quale il regolamento è un atto amministrativo; e il contenuto oggettivo, per il quale il regolamento è un atto normativo. Si può dire allora che il regolamento è un atto amministrativo nella forma ma normativo nella sostanza.
Il regolamento costituisce una “fonte normativa di rango secondario”, in quanto è subordinato alle fonti normative di rango primario, alle fonti normative di derivazione comunitaria e alle fonti normative di rango costituzionale citate in precedenza. Questa ordinazione delle fonti del diritto prende il nome di “principio di gerarchia delle fonti normative” e regola il rapporto tra di esse: la fonte di rango inferiore non può contrastare con la fonte di rango superiore. La subordinazione del regolamento alla legge si spiega in quanto il potere regolamentare è attribuito dalla legge e di conseguenza deve essere esercitato in modo conforme a quanto dispone la norma di legge attributiva del potere, sia con riguardo al procedimento di formazione dell’atto sia con riguardo al contenuto dell’atto.
Il regolamento presenta di solito tre caratteri, che fanno di questo atto di provenienza amministrativa un atto normativo nella sostanza e valgono a distinguerlo dagli atti sostanzialmente amministrativi: la generalità, l’astrattezza e l’innovatività. La “generalità” significa che la norma regolamentare non si rivolge ad uno o più soggetti determinati ma ad una pluralità indeterminata di soggetti. L’”astrattezza” significa che la norma regolamentare non fa riferimento a singole fattispecie concrete ma ad una classe di fattispecie, cioè ad una fattispecie astratta. In virtù della generalità e dell’astrattezza la norma regolamentare risulta applicabile ad una pluralità indeterminata di casi, ogniqualvolta la fattispecie concretamente verificatasi possa essere ricondotta alla fattispecie astratta. L’“innovatività” significa che la norma regolamentare è idonea a modificare in modo permanente e stabile l’ordinamento giuridico, ossia non determina una modificazione dell’ordinamento soltanto temporanea ma una modificazione definitiva.
Il regolamento ha natura sostanzialmente normativa soltanto quando il suo contenuto sia costituito da norme generali ed astratte. Può accadere tuttavia che nel regolamento siano contenute norme particolari e concrete, che si riferiscono cioè a destinatari determinati e a fattispecie concrete. In relazione a queste disposizioni il regolamento assume natura di atto sostanzialmente amministrativo e non è fonte di produzione del diritto. Il diverso contenuto del regolamento, oltre a determinare una diversa natura giuridica dell’atto, come si dirà in seguito, influisce pure sul modo di impugnazione dell’atto davanti al giudice amministrativo.
Il potere regolamentare della pubblica amministrazione è menzionato nella Costituzione, la quale all’art. 117 detta le seguenti disposizioni. Lo Stato ha potere regolamentare soltanto nelle materie riservate al suo potere legislativo esclusivo. Le Regioni hanno potere regolamentare in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata al potere legislativo dello Stato e nelle materie di legislazione concorrente con lo Stato. I Comuni e le Province hanno potere regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite.
Nella legislazione ordinaria si possono citare i seguenti casi di previsione di potere regolamentare della pubblica amministrazione. L’art. 17 della l. 400/1988 prevede i regolamenti governativi ed i regolamenti ministeriali. L’art. 7 del d.lgs. 267/2000 prevede i regolamenti comunali ed i regolamenti provinciali. L’art. 4 del d.P.R. 380/2001 prevede i regolamenti edilizi comunali. L’art. 24 della l. 241/1990 prevede il regolamento in materia di accesso ai documenti amministrativi.
I regolamenti amministrativi si distinguono in “esterni” ed “interni”. I regolamenti esterni sono diretti al di fuori dell’amministrazione che li ha emanati e disciplinano i rapporti tra l’amministrazione stessa ed altri soggetti. Ad es., il d.P.R. 487/1994, in materia di concorsi a pubblico impiego, reca un regolamento esterno, perché disciplina il rapporto che si instaura tra lo Stato ed i concorrenti in sede di procedimento di concorso a pubblico impiego. I regolamenti interni invece sono diretti all’interno dell’amministrazione che li ha emanati e disciplinano o rapporti interorganici o rapporti di lavoro o la struttura dell’ente. Ad es., il d.P.R. 55/2001, in materia di organizzazione del Ministero della Giustizia, reca un regolamento interno, perché disciplina la struttura del Ministero, le carriere del personale ed altri oggetti di rilevanza interna all’ente.
Il regolamento presenta delle analogie con l’“atto amministrativo generale”. Questo è un atto emanato da un organo amministrativo, che si rivolge ad una pluralità indeterminata di soggetti, ma si riferisce ad una fattispecie concreta. Esso di conseguenza non innova l’ordinamento giuridico né è suscettibile di applicazione in un numero indeterminato di casi, ma esaurisce la sua efficacia nel momento dell’applicazione. In comune con il regolamento ha il carattere della generalità, ma se ne distingue per la mancanza dei caratteri dell’astrattezza e della innovatività.
Per comprendere la differenza che vi è tra regolamento e atto amministrativo generale si può mettere a confronto il d.P.R. 487/1994 (che è un regolamento e disciplina, in generale e in astratto, il procedimento di concorso a pubblico impiego) con un qualunque bando di concorso a pubblico impiego (che è un atto amministrativo generale e disciplina il singolo procedimento di concorso che ne forma oggetto). Leggendo il regolamento sui concorsi, si vede che esso non si riferisce a un concorso in particolare ma a qualsiasi concorso che abbia a svolgersi (astrattezza); si vede altresì che esso non è rivolto a un’amministrazione in particolare o una categoria di concorrenti in particolare o a un singolo concorrente ma a tutte le amministrazioni, a qualsiasi categoria di concorrenti e a qualsiasi singolo concorrente (generalità); si può concludere quindi che il regolamento sui concorsi innova l’ordinamento giuridico, perché lo modifica in modo stabile e permanente ed è suscettibile di applicazione in un numero indeterminato di casi. Leggendo un qualunque bando di concorso invece, si vede che esso si riferisce a un dato concorso, a una data amministrazione e a tutti i concorrente che saranno ammessi alla procedura; tale atto non innova l’ordinamento giuridico ed è applicabile soltanto alla procedura concorsuale che ne forma oggetto, finita la quale esso cessa di avere efficacia.
Malgrado le differenze esistenti tra regolamento e atto amministrativo generale, alcune norme valgono per entrambe le categorie di atti: – l’art. 3 della l. 241/1990 dispone che l’obbligo di motivazione non sussiste per i regolamenti e per gli atti amministrativi generali; – l’art. 13 della stessa legge dispone che le norme sulla partecipazione al procedimento amministrativo non si applicano nei procedimenti di formazione dei regolamenti e degli atti amministrativi generali; – l’art. 24 della stessa legge dispone che le norme sul diritto di accesso ai documenti amministrativi non si applicano nei procedimenti di formazione dei regolamenti e degli atti amministrativi generali; – il sistema di impugnazione delle due categorie di atti è identico, tranne che in relazione alle conclusioni raggiunte dalla giurisprudenza riguardo al potere di disapplicazione del giudice amministrativo; – il giudicato amministrativo di annullamento, per entrambe le categorie di atti, ha effetti erga omnes; – la competenza territoriale del giudice amministrativo, per entrambe le categorie di atti, è regolata dall’art. 13 co. 4 bis del codice del processo amministrativo.
Il fondamento del potere regolamentare è il fatto, l’atto o la situazione in cui il potere regolamentare trova la propria fonte di attribuzione. In virtù del principio di separazione dei poteri, il potere regolamentare non è connaturato all’amministrazione, ma le deve essere attribuito dal legislatore, che è il solo titolare del potere di creare le norme giuridiche. Si può dire allora che il fondamento del potere regolamentare è costituito da una espressa attribuzione di tale potere contenuta in una norma di legge. La pubblica amministrazione ha il potere regolamentare soltanto nei casi ed entro i limiti in cui una norma di legge espressamente glielo attribuisca.
La “norma attributiva del potere” è dunque la norma di legge che attribuisce alla pubblica amministrazione il potere regolamentare. La norma attributiva del potere regge l’atto regolamentare, sia con riguardo alla sua possibilità di emanazione sia con riguardo al suo procedimento di formazione sia con riguardo al suo contenuto, divenendo il principale parametro –ma non l’unico– per giudicare della validità dello stesso. A sua volta la norma di legge è subordinata alle norme di derivazione comunitaria e alle norme di rango costituzionale, di modo che anche queste ultime devono essere prese in considerazione per giudicare della validità del regolamento. Ad es., un regolamento può essere in tutto e per tutto conforme alla norma di legge attributiva del potere, ma se questa norma a sua volta non è conforme alla Costituzione, il regolamento emanato sulla base della norma incostituzionale sarà incostituzionale a sua volta in via derivata.
È discusso quali elementi debba contenere la norma attributiva del potere per realizzare una valida attribuzione del potere regolamentare. Un qualunque potere si caratterizza per alcuni elementi indispensabili: – l’organo competente ad esercitarlo; – il modo in cui deve essere esercitato; – l’eventuale termine finale per esercitarlo; – la materia che ne forma oggetto; – gli eventuali limiti che non deve superare. Questi elementi dovrebbero formare il contenuto indispensabile che la norma di legge attributiva del potere regolamentare non potrebbe mancare di avere, a pena della violazione di specifiche norme costituzionali.
In particolare, si devono citare quattro princìpi di carattere costituzionale che vincolano il legislatore ordinario nell’attribuzione del potere regolamentare alla pubblica amministrazione. Il primo vincolo è che il potere regolamentare non può essere riconosciuto in una materia coperta da una riserva di legge formulata da una norma costituzionale. Il secondo vincolo è che il potere regolamentare non può essere riconosciuto dalla norma statale in una materia che, secondo l’art. 117 Cost., appartiene alla competenza regolamentare delle Regioni. Il terzo vincolo, risultante anch’esso dall’art. 117 Cost., è che il potere regolamentare non può essere riconosciuto in una materia che appartiene alla competenza normativa dell’Unione Europea in virtù del trattato istitutivo di quest’ultima. Il quarto vincolo, risultante dall’art. 25 Cost., è che il potere regolamentare non può essere riconosciuto per la introduzione di un reato e di una pena.
Il regolamento amministrativo è invalido quando è in contrasto con una norma giuridica alla quale l’esercizio del potere regolamentare deve conformarsi: – in primo luogo viene in rilievo la norma di legge attributiva del potere regolamentare; – in secondo luogo vengono in rilievo le altre norme giuridiche di rango primario; – in terzo luogo vengono in rilievo le norme giuridiche di derivazione comunitaria; – infine vengono in rilievo le norme costituzionali.
Il contrasto può riguardare o il modo di esercizio del potere regolamentare o l’atto regolamentare o il contenuto dell’atto. Va precisato che il contrasto tra il regolamento e la norma di derivazione comunitaria, secondo l’orientamento attuale della Corte costituzionale, non determina l’invalidità dell’atto ma la sua disapplicabilità ad opera di qualsiasi operatore del diritto nazionale, al fine di ristabilire il primato del diritto comunitario violato.
La mancanza della norma attributiva del potere è “originaria” quando la norma non è mai esistita e quindi la carenza di potere regolamentare sussisteva fin dal momento in cui il regolamento è stato emanato. È invece “sopravvenuta” quando la norma esisteva nel momento in cui il regolamento è stato emanato, ma è venuta meno in un momento successivo (ad es., per dichiarazione di illegittimità costituzionale). La mancanza della norma attributiva del potere regolamentare dovrebbe dare luogo a nullità del regolamento, in base all’art. 21 septies della l. 241/1990, che prevede come causa di nullità il difetto assoluto di attribuzione.
Può essere che la norma attributiva del potere esista ma siano violate le regole e le condizioni in essa stabilite per l’esercizio del potere. Ad es., non viene seguito il procedimento di formazione dell’atto previsto dalla legge. Il vizio che trova attuazione qui è la violazione di legge, con conseguente annullabilità. Un caso particolare è quello della emanazione del regolamento dopo la scadenza del termine fissato dalla legge per l’esercizio del relativo potere. Qui la conseguenza della violazione non è chiara. Se il termine viene considerato come perentorio, la conseguenza dovrebbe essere la nullità. Se invece viene considerato come ordinatorio, la conseguenza dovrebbe essere l’annullabilità.
Può essere che sia violato il riparto di competenza normativa tra Stato e Regioni stabilito nell’art. 117 Cost. Anche qui è discusso quale sia l’effetto della violazione. Se si considera l’incompetenza come un mero vizio di legittimità ex art. 21 octies della l. 241/1990, la conseguenza dovrebbe essere l’annullabilità del regolamento. Tuttavia bisogna considerare che in questo caso viene in rilievo il rapporto tra due enti giuridici diversi e che la violazione riguarda una norma della Costituzione. Se dunque si considera la violazione dell’art. 117 Cost. come un vizio che incide sull’attribuzione del potere regolamentare, dovrebbe discenderne la nullità del regolamento per difetto assoluto di attribuzione in base all’art. 21 septies della l. 241/1990.
Il regolamento, essendo un atto formalmente amministrativo, è sottoposto alla disciplina giuridica propria di questa categoria di atti. La tutela giurisdizionale nei confronti del regolamento illegittimo sarà dunque la stessa che è prevista dall’ordinamento nei confronti dell’atto amministrativo illegittimo.
Il regolamento illegittimo è sottratto al sindacato di legittimità costituzionale della Corte costituzionale, perché quest’ultimo in base all’art. 134 Cost. si esercita soltanto sulle legge e sugli atti aventi forza di legge, mentre il regolamento è una fonte normativa subordinata alla legge. Nondimeno in caso di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma di legge attributiva del potere regolamentare, la pronuncia della Corte costituzionale determinerebbe l’automatica caducazione del regolamento che trovi il proprio fondamento nella norma dichiarata incostituzionale. Inoltre il regolamento illegittimo può venire in rilievo davanti alla Corte costituzionale nell’ambito del sindacato sui conflitti di attribuzione tra lo Stato e le Regioni o tra le Regioni di cui all’art. 134 Cost.
Il regolamento illegittimo può venire in rilievo in una controversia davanti al giudice ordinario, il quale ha il potere di disapplicarlo ai sensi dell’art. 5 della legge sul contenzioso amministrativo. Si pensi al caso che la pubblica amministrazione emani un regolamento edilizio in violazione delle norme del codice civile che riguardano le distanze minime nelle costruzioni e successivamente rilasci un permesso di costruire applicativo di questo regolamento. Il regolamento è illegittimo per vizio proprio e il permesso di costruire lo è per vizio derivato. Il privato ha facoltà di agire innanzi al giudice amministrativo per far valere l’illegittimità del regolamento e del provvedimento applicativo oppure in alternativa ha facoltà di agire innanzi al giudice ordinario ex art. 872 cod. civ. chiedendo la riduzione in pristino e il risarcimento del danno. Il giudice ordinario in tal caso deciderà la controversia disapplicando il regolamento e il provvedimento applicativo illegittimi.
Il privato, che voglia ottenere l’annullamento con efficacia erga omnes del regolamento illegittimo, ha l’onere di impugnarlo davanti al giudice amministrativo entro il termine di decadenza di sessanta giorni. Regole particolari disciplinano l’impugnazione del regolamento davanti al giudice amministrativo. In alcuni casi vige la regola della impugnazione congiunta del regolamento e dell’atto applicativo, in altri casi vige la regola della immediata impugnazione del regolamento.
La regola dell’impugnazione congiunta vale per il caso che il regolamento –com’è proprio degli atti normativi– contenga norme generali e astratte, ossia norme che non si riferiscono ad un soggetto determinato e ad una fattispecie concreta, ma richiedono l’emanazione di un apposito atto applicativo per essere riferite a un dato soggetto e a una data fattispecie. Quando abbia un contenuto generale e astratto il regolamento non è idoneo ad arrecare lesione alla posizione del privato. Questa lesione potrà essere prodotta soltanto per effetto della emanazione dell’atto applicativo. Il privato quindi non può impugnare direttamente il regolamento illegittimo, perché gli fa difetto l’interesse a ricorrere che nasce dalla lesione. Il privato dovrà aspettare che venga emanato l’atto applicativo del regolamento e allora dovrà impugnare congiuntamente tanto il regolamento illegittimo quanto l’atto applicativo viziato in via derivata.
La regola della immediata impugnazione vale per il caso che il regolamento –com’è proprio degli atti amministrativi– contenga norme particolari e concrete, ossia norme che si riferiscono ad un soggetto determinato e ad una fattispecie concreta. Quando abbia un contenuto particolare e concreto il regolamento è già di per sé idoneo ad arrecare lesione alla posizione del privato e non ha bisogno che venga emanato l’atto applicativo per produrre questo effetto. Il privato quindi non solo ha facoltà ma ha anche l’onere di impugnare immediatamente il regolamento senza aspettare l’emanazione dell’atto applicativo.
Il principio della iniziativa di parte nel giudizio d’impugnazione comporta che in caso di inerzia della parte processuale interessata il giudice amministrativo sia costretto ad emettere una decisione in contrasto con il principio di gerarchia delle fonti normative: – in caso di inerzia del resistente e del controinteressato, il giudice dovrebbe annullare il provvedimento applicativo in contrasto con il regolamento illegittimo; – in caso di inerzia del ricorrente, il giudice dovrebbe rifiutarsi di annullare il provvedimento applicativo conforme al regolamento illegittimo.
Si consideri il caso in cui il regolamento è contrario alla legge, mentre l’atto applicativo è conforme alla legge e quindi contrario al regolamento. L’atto applicativo è dunque illegittimo con riferimento al regolamento, ma è legittimo con riferimento alla legge. Il soggetto danneggiato dall’atto applicativo lo impugna, facendo valere la sua contrarietà al regolamento. Se il resistente e il controinteressato non propongono ricorso incidentale contro il regolamento illegittimo allo scopo di impedire l’accoglimento del ricorso principale, il giudice amministrativo dovrebbe accogliere quest’ultimo e annullare un provvedimento che, benché violativo del regolamento, è però conforme alla legge. In tal modo la legge, fonte normativa sovraordinata al regolamento, finirebbe per essere disapplicata dal giudice nel caso concreto.
Si consideri ora il caso in cui il regolamento è contrario alla legge e l’atto applicativo è conforme al regolamento e quindi anch’esso è contrario alla legge. L’atto applicativo è dunque legittimo con riferimento al regolamento, ma è illegittimo con riferimento alla legge. Il soggetto danneggiato dall’atto applicativo lo impugna, facendo valere la sua illegittimità derivata dal regolamento, ma omette di impugnare congiuntamente anche il regolamento. Se il ricorrente non rispetta la regola dell’impugnazione congiunta, il giudice amministrativo dovrebbe dichiarare inammissibile il ricorso e mantenere in essere un provvedimento che, benché conforme al regolamento, è però violativo della legge. In tal modo ancora una volta la fonte normativa sovraordinata finirebbe con l’essere disapplicata dal giudice nel caso concreto. Una soluzione a questi inconvenienti, posti dal principio della iniziativa di parte, si avrebbe se il giudice amministrativo, al pari del giudice ordinario, avesse il potere di disapplicare d’ufficio il regolamento illegittimo non impugnato dalla parte interessata.
La giurisprudenza tradizionale ha riconosciuto questo potere al giudice amministrativo soltanto per la tutela dei diritti soggettivi nell’ambito della giurisdizione esclusiva, mentre nell’ambito della giurisdizione generale di legittimità lo ha negato principalmente per tre ragioni: 1) non si può esercitare un potere se la legge non lo attribuisce espressamente e la legge non attribuisce il potere di disapplicazione al giudice amministrativo; 2) il potere di disapplicazione sarebbe incompatibile con l’attribuzione al giudice amministrativo del potere di annullamento; 3) il potere di disapplicazione sarebbe incompatibile con il principio d’inoppugnabilità dell’atto amministrativo una volta decorso il termine perentorio per la sua impugnazione.
La giurisprudenza più recente ha però rivisto l’orientamento tradizionale ed ha riconosciuto al giudice amministrativo il potere di disapplicare d’ufficio il regolamento illegittimo non impugnato dalla parte interessata. Il problema della disapplicazione, che prima veniva risolto alla luce delle regole d’impugnazione degli atti amministrativi, viene oggi risolto alla luce del principio di gerarchia che regola il rapporto tra le fonti del diritto e vincola il giudice nell’applicazione del diritto. Il giudice, nel risolvere la controversia sottoposta al suo esame, deve applicare anche d’ufficio la norma giuridica che ha efficacia vincolante nel caso concreto. Quando venga dedotto in giudizio un provvedimento conforme o contrario a un regolamento illegittimo, è in sostanza un contrasto tra norma legislativa e norma regolamentare che viene in rilievo davanti al giudice. E il giudice deve risolvere questo contrasto tra norme dotate di forza giuridica differente applicando la norma legislativa e non applicando la norma regolamentare. Ciò in ossequio al principio di gerarchia delle fonti normative. Quindi è potere-dovere del giudice amministrativo, anche in mancanza di richiesta della parte interessata, sindacare il regolamento che viene in rilievo nella controversia sottoposta al suo esame, al fine di stabilire se il regolamento abbia o no l’ attitudine a fornire la regola di giudizio per risolvere la controversia stessa.
Al giudice amministrativo dunque viene attualmente riconosciuto dalla giurisprudenza il potere di “disapplicazione normativa”, così denominata per distinguerla dalla “disapplicazione provvedimentale”, che invece gli è senz’altro preclusa. Nell’ambito della disapplicazione normativa si distingue una “disapplicazione conservativa” e una “disapplicazione caducativa”.
La “disapplicazione conservativa” è la disapplicazione del regolamento illegittimo effettuata dal giudice amministrativo allo scopo di conservare il provvedimento applicativo che sia contrario al regolamento ma conforme alla legge. Il giudizio nasce dall’impugnazione proposta contro il provvedimento applicativo dal soggetto che ne è danneggiato, il quale col ricorso fa valere la contrarietà del provvedimento al regolamento. Nel giudizio così instaurato l’amministrazione resistente e il controinteressato rimangono inerti e non eccepiscono l’illegittimità del regolamento. Se il giudice amministrativo non potesse esercitare il potere di disapplicazione, dovrebbe annullare il provvedimento impugnato, il quale, benché conforme alla legge, è pur sempre contrario al regolamento. Ma a seguito di tale pronuncia la legge, fonte normativa sovraordinata al regolamento, finirebbe con l’essere disapplicata nel caso concreto. Il giudice amministrativo allora disapplica il regolamento –ossia decide la causa come se il regolamento non esistesse– e respinge il ricorso, ponendo rimedio all’inerzia del resistente e del controinteressato.
La “disapplicazione caducativa” è la disapplicazione del regolamento illegittimo effettuata dal giudice amministrativo allo scopo di annullare il provvedimento applicativo che sia conforme al regolamento ma contrario alla legge. Il giudizio nasce dall’impugnazione proposta contro il provvedimento applicativo dal soggetto che ne è danneggiato, il quale col ricorso fa valere la illegittimità derivata dal regolamento. Il ricorrente omette però di impugnare congiuntamente il regolamento illegittimo, che costituisce il presupposto del provvedimento impugnato. Se il giudice amministrativo non potesse qui esercitare il potere di disapplicazione, dovrebbe dichiarare inammissibile il ricorso per carenza d’interesse, mantenendo in essere un provvedimento che, benché conforme al regolamento, è però contrario alla legge. Il giudice amministrativo allora disapplica il regolamento e accoglie il ricorso, ponendo rimedio all’inerzia del ricorrente. Più propriamente dovrebbe parlarsi di “invalidazione” anziché di disapplicazione, perché il giudice amministrativo, in assenza d’impugnazione di parte e quindi d’ufficio, riconosce la trasmissione del vizio di legittimità dal regolamento non impugnato al provvedimento applicativo impugnato
Legislazione correlata
• Costituzione, art. 117
• Legge n. 400/1988