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IL PRINCIPIO DI EFFETTIVITA’ E LE AZIONI ESPERIBILI NEL PROCESSO AMMINISTRATIVO

IL PRINCIPIO DI EFFETTIVITA’ E LE AZIONI ESPERIBILI NEL PROCESSO AMMINISTRATIVO

di Carmen Oliva

il principio di effettività assume un rilievo centrale nel sistema processuale nazionale e sovranazionale, rappresentando un indice cui deve attenersi  non solo il legislatore nel definire gli strumenti di tutela azionabili da parte dei singoli, ma anche il giudice, che nell’esercizio della funzione giurisdizionale, deve fornire al soggetto la più ampia e satisfattoria tutela delle sue ragioni.

Secondo il principio di effettività il giudice “ deve assicurare una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo” ( art.1 c.p.a.). La codificazione del principio porta a compimento un lungo percorso  di affinamento degli strumenti necessari ad assicurare una tutela piena ed effettiva ai singoli. Con l’art 1 è stata enunciata ed enfatizzata, con norma positiva, la valenza costituzionale del principio di effettività e, allo stesso tempo, si è riconosciuto il legame diretto tra processo amministrativo e diritto europeo.  Un primo addentellato del principio in esame lo rinveniamo, sul piano costituzionale, con gli art. 24 e 113 della Costituzione. Il primo, nell’ enunciare il diritto all’azione presso gli organi giurisdizionali, riconosce pari dignità e meritevolezza sia alla tutela dei diritti soggettivi che degli interessi legittimi, senza margine di discriminazione alcuna. Il secondo, invece, con specifico riferimento agli atti della p.a.,  ammette sempre la tutela giurisdizionale avverso gli stessi,  escludendone qualsiasi tipo di limitazione.

In ambito internazionale il principio di effettività trova, poi, riconoscimento nell’art.47 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE e nell’art. 13 della CEDU, che sancisce il diritto ad un ricorso effettivo a favore di ogni persona i cui diritti e libertà fondamentali  siano stati violati.

Prima della espressa codificazione nell’art 1 c.p.a., il principio di effettività era rimesso alla sensibilità del giudice nazionale, mentre, ad oggi, rappresenta un criterio-guida, dal quale trarre indici interpretativi validi non solo per il singolo caso di volta in volta oggetto di giudizio, ma dotati di valenza generale e utili ad indirizzare anche l’applicazione  di altre norme del codice. La giurisprudenza è ricca di casi in cui il principio di effettività è stato utilizzato come strumento di estensione della tutela ad aree o questioni per le quali il giudice non disponeva di una norma positiva di specie e tale tendenza si è andata rafforzando via via che il diritto europeo ha stabilito un nesso sempre più stretto fra la propria effettività e l’effettività della tutela giurisdizionale contro gli atti degli Stati e delle amministrazioni nazioni.

Si è stabilito così, per addurre un esempio, che, proprio in ragione del principio di effettività, desumibile oltre che dall’art.24 Cost anche dagli artt.6 e 13 della CEDU, il giudice amministrativo possa emettere una sentenza di condanna idonea a divenire titolo per l’esecuzione forzata ai sensi degli artt.389 e 474 c.p.c..

La codificazione del principio di effettività, declinato anche sul versante della pienezza della tutela, fornisce quindi all’interprete una chiave di lettura e di interpretazione dell’intero corpo codicistico e rafforza la centralità nel processo della pretesa sostanziale prospettata dal ricorrente. Il giudice è chiamato ad accertare l’effettiva consistenza di questa pretesa e ad assicurare, a fronte di una legittima lesione, la soluzione più satisfattiva tra quelle in concreto disponibili, ivi compreso il risarcimento nelle sue varie forme. Parte integrante dell’effettività della tutela è la sua concentrazione espressamente enunciata all’art 7 comma 7, ove si legge che il principio di effettività è realizzato attraverso la concentrazione dinanzi al giudice amministrativo di ogni forma di tutela degli interessi legittimi e,  nelle particolari materie indicate dalla legge, dei diritti soggettivi.

Il principio di effettività trova realizzazione nell’ambito del giusto processo. Il principio del giusto processo è anch’esso, ad oggi codificato nel c.p.a., accanto ai principio di motivazione dei provvedimenti del giudice e di sinteticità degli atti ( sia quelli del giudice che delle parti). In sostanza, il principio di effettività e pienezza della tutela implica che il processo debba, necessariamente , essere lo strumento attraverso cui il soggetto leso possa ottenere, ricorrendo al giudice, tutto quello che gli spetta in base al diritto sostanziale e quindi la tutela più idonea ad assicurare allo stesso la concreta utilità che da tale tutela ne deriva.

In questa prospettiva il principio del giusto processo , che dall’esegesi della bozza della Commissione era stato interpretato come sostanziale principio di parità delle parti,  è stato poi interpretato in chiave restrittiva. È stata eliminata la qualificazione in termini di effettività del principio di parità, ma si tratta comunque di una modifica che non comporta conseguenze significative, dato che l’effettiva parità delle parti può essere agevolmente desunta dall’art. 111 Cost.. L’asimmetria tra le parti, che  risulta ormai legislativamente superata grazie ad una serie di disposizioni (si pensi ad esempio alla posizione di privilegio garantita all’amministrazione nella disponibilità di fatti e documenti, ormai superata dall’affermazione del diritto di accesso e di partecipazione nel procedimento) può essere, ad ogni modo, corretta dal giudice utilizzando anche a pieno le disposizioni in materia di disponibilità, onere e valutazione della prova  come regolate dall’art.64 c.p.a..

In definitiva, richiamando la giurisprudenza della Corte di Strasburgo  sugli artt. 6 e 13 della CEDU, il principio di effettività può ritenersi rispettato quando sono rispettate tre regole fondamentali:

  • La prima esige che la decisione finale irrevocabile attribuisca al ricorrente vittorioso tutte le utilità che gli spettano in base al diritto sostanziale e sia anche tempestiva ( e quindi utile) perché emanata nel rispetto del principio della ragionevole durata del giudizio;
  • La seconda esige che la decisione irrevocabile sia rapidamente eseguita e che, altrimenti, il ricorrente vittorioso possa agire con una azione di esecuzione, per ottenere l’ottemperanza della amministrazione recalcitrante;
  • La terza esige che nel corso del giudizio possa essere emanata ogni opportuna misura cautelare affinchè la decisione possa attribuire tutte le utilità che spettano in base al diritto sostanziale.

Prima di esaminare come il principio di effettività trova oggi attuazione nel processo amministrativo , ed in particolare nell’ esercizio delle azioni esperibili, appare opportuno ripercorrere brevemente le tappe evolutive del sistema delle tutele invocabili avverso gli atti della P.A..

La tutela dell’interesse legittimo viene riconosciuta solo a partire dall’istituzione del Consiglio di Stato,  tramite un’unica azione di annullamento innanzi al giudice amministrativo istituito. Vigeva infatti un principio di rigorosa tipicità, per cui l’unica tutela che il privato poteva esperire a protezione  dell’interesse legittimo era quella caducatoria, mentre a protezione dei diritti soggettivi era esperibile, dinanzi al giudice ordinario, ogni azione costitutiva, dichiarativa o di condanna, tipica o atipica. La sentenza che accoglieva il ricorso, poi, determinava l’annullamento ex tunc del provvedimento lesivo e faceva salvo il futuro esercizio del potere da parte della p.a., non pronunciandosi il giudice in alcun modo sulla fondatezza della pretesa del ricorrente.  Si trattava quindi di un modello oggettivo di giurisdizione, in quanto il processo aveva come oggetto esclusivo l’atto amministrativo, senza che potesse avere alcun rilievo la pretesa sostanziale del ricorrente. Tale modello di giurisdizione era in grado di fornire adeguata tutela solo all’interesse legittimo oppositivo( ossia l’interesse leso da un provvedimento), con cui il privato intendesse proteggere un bene già esistente nella propria sfera giuridica , mentre l’interesse legittimo pretensivo  ( c.d. interesse bisognoso di un provvedimento) ossia l’interesse del privato a conseguire un bene della vita tramite l’esercizio del potere amministrativo, non trovava adeguata tutela.  Infatti, mentre per il primo l’annullamento ex tunc del provvedimento lesivo era tutela idonea a reintegrare la sfera giuridica del ricorrente del bene illegittimamente sottrattogli dalla P.A., per il secondo l’azione di annullamento non rappresentava una tutela effettiva, poiché lasciava insoddisfatta la pretesa del ricorrente ad ottenere il provvedimento richiesto.

Il modello delineato prima dell’introduzione del codice del processo amministrativo, prevedeva un sistema basato su due azioni, attribuite alla giurisdizione di due giudici distinti: l’azione di annullamento esperibile dinanzi al g.a. contro gli atti amministrativi illegittimi lesivi di un interesse legittimo; l’azione di risarcimento del danno che costituiva invece la forma di tutela principale esperibile davanti al g.o. nei confronti di comportamenti illeciti della pubblica amministrazione lesivi di un diritto soggettivo.

Anche il potere del giudice di annullare gli atti amministrativi illegittimi era concepito in modo tale da rispettare il principio della separazione dei poteri. La sentenze di annullamento infatti contenevano sovente lo stilema “fatti salvi  gli ulteriori provvedimenti dell’autorità amministrativa”, proprio per indicare che l’annullamento azzerava, per così dire, l’operato dell’amministrazione, ma non stabiliva direttamente, soprattutto se si trattava di potere discrezionale, come l’amministrazione doveva provvedere. Il giudice amministrativo cioè non era in grado di sostituire in modo diretto la sua decisione a quella dell’amministrazione.

A poco a poco, la giurisprudenza, sulla scia della ricostruzione dottrinale, ha chiarito che la sentenza di annullamento è in grado di produrre un triplice effetto: rimuove l’atto ed i suoi effetti retroattivamente (effetto annullatorio); mira a ricostruire, per quanto possibile, la situazione di fatto e di diritto anteriore al provvedimento annullato ( effetto ripristinatorio);crea , in capo all’amministrazione, un vincolo, qualora la stessa decida di emanare un provvedimento in sostituzione di quello impugnato ( effetto conformativo o ordinatorio). L’ampiezza di quest’ultimo effetto si determina in funzione dei motivi del ricorso e posti alla base della sentenza di annullamento.

L’annullamento dell’atto illegittimo costituì in origine, e costituisce ancora oggi, il rimedio più efficace in tutti quei casi in cui l’amministrazione ha il potere di incidere negativamente sulla posizione giuridica del privato , in quanto ripristina in suo favore la situazione precedente all’emanazione del provvedimento, eliminando così la lesione subita.  I danni ulteriori ai quali l’annullamento non riesce a porre rimedio possono essere risarciti. L’azione di risarcimento del cosiddetto “ danno consequenziale” all’annullamento, fino a pochi anni fa, era proponibile solo dinanzi al giudice ordinario. Ciò costringeva il privato a proporre un doppio giudizio davanti a due giudici diversi: il primo finalizzato all’annullamento dell’atto illegittimo; il secondo finalizzato ad ottenere il risarcimento.

Solo nel 2000, in seguito alla storica sentenza della Corte di Cassazione n.500/99, è stato superato il tradizionale principio della non risarcibilità del danno da lesione di interesse legittimo. Di seguito, con l’art7 L 205/2000, il legislatore, allo scopo di ridurre i tempi ed i costi a carico del privato, ha espressamente stabilito che il giudice amministrativo, oltre ad annullare l’atto amministrativo, possa condannare anche l’amministrazione al pagamento dei danni provocati dall’atto illegittimo.

Ben presto, l’azione di annullamento, come già accennato, si rivelata poco efficace in una serie di ipotesi.

Si pensi al caso in cui il privato chiede all’amministrazione il rilascio di un’autorizzazione o di una licenza necessaria ad avviare un’attività e l’amministrazione emani un atto che rigetta la domanda, eccependo, adempio che manca per il rilascio uno dei requisiti richiesti dalla legge. Il privato che reputa il diniego illegittimo può certamente impugnarlo, richiedendone al giudice l’annullamento, ma il giudice amministrativo potrà solo verificare se il motivo del diniego, ossia la mancanza del requisito,  è o meno legittimo e, se del caso, annullare l’atto amministrativo, ma non potrà direttamente stabilire se l’amministrazione sia tenuta ad emanare l’atto amministrativo richiesto. Dopo l’annullamento l’amministrazione deve rivalutare la domanda proposta dal privato. All’esito di questa, potrebbe ben accadere che l’amministrazione confermi il diniego all’atto richiesto, magari perché accerta la mancanza di un altro requisito richiesto dalla legge, diverso da quello posto alla base del primo diniego annullato.

 Si pensi, ancora, al caso in cui, dopo la presentazione della domanda per il rilascio di un’autorizzazione o licenza da parte del privato, la pubblica amministrazione rimanga inerte, cioè non prenda alcuna decisione esplicita, né positiva né negativa. Contro il silenzio dell’amministrazione, infatti, l’azione di annullamento è uno strumento inutilizzabile, perché il giudice non ha di fronte a sé un atto da annullare, ma un mero comportamento omissivo della pubblica amministrazione. Le conseguenze sono  pressoché paradossali: infatti, nel caso meno grave di rigetto espresso dell’istanza privata, nel quale l’amministrazione ha dovuto comunque esaminare l’istanza prima di ritenere di non poterla accogliere, il privato poteva utilizzare dell’azione di annullamento dell’atto di diniego; nel caso più grave di inerzia totale ( dovuta a negligenza o trascuratezza della p.a.), invece, il privato era privo di ogni tutela.

Per risolvere il problema, il Consiglio di Stato fu costretto a fare ricorso ad alcuni artifici interpretativi. Qualificò infatti il silenzio mantenuto dall’amministrazione oltre un certo tempo di fronte all’istanza del privato come atto tacito di diniego. Contro questa finzione di atto si ritenne, pertanto, proponibile l’azione di annullamento anche avverso il comportamento inerte della p.a.. Il privato, però, prima di proporre il ricorso al giudice amministrativo, doveva notificare all’amministrazione una diffida assegnandole un termine congruo entro il quale rispondere all’istanza. Decorso infruttuosamente il termine, senza che l’amministrazione si fosse pronunciata in senso positivo o negativo sull’istanza, il silenzio poteva essere impugnato come atto tacito di diniego.

Questa posizione è stata poi superata, verso la fine degli anni settanta,dalla stessa giurisprudenza del Consiglio di Stato, il quale ritenne che, di fronte al silenzio dell’amministrazione, il privato potesse proporre direttamente un’azione di accertamento volta a far dichiarare illegittimo tale comportamento inerme e a condannare l’amministrazione all’adozione di un provvedimento espresso ( negativo o positivo) sull’istanza.  Queste pronunce rappresentarono un primo passo verso il riconoscimento di una azione di accertamento ed una di condanna nei confronti della p.a.; azioni, oggi pienamente recepite nel codice del processo amministrativo.

La spinta propulsiva ad una definizione unitaria della materia avvenne anche dopo l’affermato superamento del tradizionali confini di giurisdizione del giudice ordinario e amministrativo, fondata prevalentemente sulla distinzione tra diritto soggettivo ed interesse legittimo. Poiché in molte materie queste due figure erano intrecciate in modo inestricabile e ciò creava gravi incertezze, il legislatore pensò di introdurre delle eccezioni al criterio generale. Tali eccezioni, riferibili dapprima a singoli casi, si sono poi ampliate a blocchi di materie.  Si è stabilito così che, per alcune materie indicate in modo tassativo dalla legge, il giudice amministrativo potesse decidere su controversie riguardanti non solo gli interessi legittimi, ma anche i diritti soggettivi.  Lo spostamento della giurisdizione di alcune controversie dalla sede naturale del giudice ordinario a quella del giudice amministrativo, comportò un ampliamento dei poteri di quest’ultimo. Infatti in caso di controversie riguardanti diritti soggettivi il giudice amministrativo doveva essere investito degli stessi poteri  istruttori del giudice ordinario.

In un contesto così definito, la Corte Costituzionale con una storica sentenza (n.204/2004) dichiarò incostituzionali gli artt. 33 e 34 del dlg n.80/98 e stabilì il principio secondo il quale il giudice amministrativo ha come sua funzione specifica quella del controllo sul potere amministrativo in senso proprio, non già quella di giudicare sui meri comportamenti della pubblica amministrazione.

 Un altro filone legislativo ampliò i poteri del giudice amministrativo in materie particolare. Così, ad esempio, in materia di accesso, da parte dei privati, ai documenti amministrativi detenuti dagli uffici pubblici, la l. 241/1990 prevede che nel caso di diniego di accesso, il richiedente possa proporre azione davanti al giudice amministrativo entro trenta giorni  e che quest’ultimo possa ordinare all’ufficio di esibire e/o di rilasciare una copia dei documenti richiesti.

Il caso più significativo di ampliamento della giurisdizione del giudice amministrativo è costituito dal potere di condannare la p.a. al risarcimento dei danni conseguenti all’emanazione di atti illegittimi, consacrato nella legge n.205/2000. Tutti questi casi di ampliamento hanno portato il  Consiglio di Stato, anche prima dell’approvazione del codice del processo amministrativo, a considerare ormai superato il principio della tipicità, ammettendo, anche in assenza di un’espressa disposizione, anche azioni atipiche, come ad esempio l’azione di accertamento.

Allo stato normativo attuale, dunque, l’obiettivo di effettività della tutela è stato raggiunto con il superamento della centralità dell’azione di annullamento e l’accoglimento del principio di pluralità e atipicità delle tecniche di tutela dell’interesse legittimo. Il dlgs 160/2012 all’art 34, co 2 ha introdotto la c.d. azione di condanna pubblicistica, attraverso la quale il privato può ottenere, accanto all’annullamento del provvedimento illegittimo, la condanna della P.a., al rilascio del provvedimento richiesto, nei limiti di cui all’art 31, comma 3 c.p.a.. Tale norma relativa all’azione avverso il silenzio, prevede infatti la possibilità che il giudice, accertato l’inadempimento dell’obbligo della p.a. di provvedere nel termine di conclusione del procedimento, valuti la fondatezza della pretesa sostanziale del ricorrente, qualora si tratti di attività vincolata  o quando la p.a. abbia consumato la discrezionalità originariamente spettantele.

Si tratta quindi di un modello di giurisdizione in cui il privato può esperire tutte le azioni , dichiarative, costitutive e di condanna, tipiche e atipiche, necessarie per la protezione dell’interesse sostanziale che l’ordinamento gli riconosce, e che nell’ ambito del processo può ottenere una tutela specifica e piena , già illo tempore riconosciuta al diritto soggettivo.

Come anticipato, il principio di effettività della tutela si rivolge anche al giudice, il quale, in un modello di giurisdizione soggettiva, in cui l’interesse legittimo ( e non il provvedimento) è l’oggetto principale del giudizio, deve farsi orientare nello svolgimento della propria funzione non più dall’interesse oggettivo dell’ordinamento alla legittimità, ma dall’interesse soggettivo al bene della vita.

L’introduzione del codice del processo amministrativo ( dlgs n.104/2010) rappresenta uno degli interventi più organici in materia di tutela del cittadino nei confronti della p.a..

In primo luogo, il codice disciplina l’azione di annullamento del provvedimento illegittimo, senza novità particolari. L’art.29 stabilisce infatti che l’azione di annullamento per violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere si propone nel termine di decadenza di sessanta giorni.  Ai sensi dell’art.34 , comma 1 lett.a), se la domanda viene accolta, il giudice “ annulla in tutto o in parte il provvedimento impugnato”. È stata invece espunta dal testo la formula precedente “ salvi gli ulteriori provvedimenti dell’autorità amministrativa” e tale omissione sta ad indicare che non è più vietato in via assoluta al giudice emanare sentenze di condanna al rilascio da parte della p.a. di un determinato atto. Si ammette così, in maniera implicita, la possibilità per il privato di esperire nei confronti della p.a. un ‘azione di adempimento.

Ne deriva la trasformazione del giudizio amministrativo( ove non vi si frapponga l’ostacolo dato dalla non sostituibilità di attività discrezionali riservate alla pubblica amministrazione) da giudizio amministrativo sull’atto, teso a vagliarne la legittimità alla stregua dei vizi denunciati in sede di ricorso e con salvezza del riesercizio del potere amministrativo, a giudizio sul rapporto regolato dal medesimo atto, volto a scrutinare la fondatezza della pretesa sostanziale azionata. Alla stregua di tale dilatazione delle tecniche di protezione, viene confermata e potenziata la dimensione sostanziale dell’interesse legittimo in una con la centralità che il bene della vita assume nella struttura di detta situazione soggettiva.

 Come osservato dalle Sezioni Unite nella citata sentenza n. 500/1999 l’interesse legittimo non rileva come situazione meramente processuale, ossia quale titolo di legittimazione per la proposizione del ricorso al Giudice Amministrativo, né si risolve in un mero interesse alla legittimità dell’azione amministrativa in sé intesa, ma si rivela posizione schiettamente sostanziale, correlata, in modo intimo e inscindibile, ad un interesse materiale del titolare ad un bene della vita, la cui lesione (in termini di sacrificio o di insoddisfazione a seconda che si tratti di interesse oppositivo o pretensivo) può concretizzare un pregiudizio. L’interesse legittimo va, quindi, inteso come la posizione di vantaggio riservata ad un soggetto in relazione ad un bene della vita interessato dall’ esercizio del potere pubblicistico, che si compendia nell’ attribuzione a tale soggetto di poteri idonei ad influire sul corretto esercizio del potere, in modo da rendere possibile la realizzazione o la difesa dell’interesse al bene.

Anche nei riguardi della situazione di interesse legittimo, l’interesse effettivo che l’ordinamento intende proteggere è quindi sempre l’ interesse ad un bene della vita che l’ordinamento, sulla base di scelte costituzionalmente orientate confluite nel disegno codicistico, protegge con tecniche di tutela e forme di protezione non più limitate alla demolizione del provvedimento ma miranti, ove possibile, alla soddisfazione completa della pretesa sostanziale.

L’art.30 poi disciplina l’azione di condanna al risarcimento del danno provocato da un atto illegittimo che lede un interesse legittimo. Essa può essere proposta sia congiuntamente all’azione di annullamento, sia in via del tutto autonoma. L’azione deve essere proposta entro il termine di centoventi giorni dal fatto o dalla conoscenza del provvedimento che ha provocato il danno. I primi commenti al codice hanno evidenziato come un termine simile fosse eccessivamente breve se comparato all’ordinaria azione di risarcimento proponibile in sede civile, il cui termine è fissato in cinque anni.

Un’altra disposizione controversa  è quella che penalizza il ricorrente che propone la sola azione risarcitoria senza aver proposto prima o contestualmente l’azione di annullamento, poiché in casi simili, nel momento in cui si determina l’ammontare del risarcimento, il giudice amministrativo è tenuto ad escludere “ i danni che si sarebbero potuti evitare  usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento dei mezzi di tutela previsti”. Tale espressione è stata pacificamente interpretata dal consiglio di Stato nel senso di ritenere compresa nella generica espressione “esperimento dei mezzi di tutela previsti” anche il mancato esperimento dell’azione di annullamento, che va così ad incidere negativamente sulla liquidazione del quantum risarcibile.

In definitiva, da una lettura congiunta delle disposizioni, è chiaro che il Codice sembra dare preferenza all’azione di annullamento e considera l’azione di risarcimento del danno solo come un’azione complementare  alla prima, cioè riguardante soltanto i danni ai quali l’azione di annullamento non riesce a porre rimedio.  La sottrazione dell’azione risarcitoria dalla competenza del g.o., a favore di quella del g.a. segue una logica compromissoria, infatti come si capisce dall’analisi dell’art.30 del Codice,  esso è vero che consente un’azione risarcitoria autonoma ( o pura), ma è anche vero che da un lato prevede una restrizione rappresentata da un termine breve, e dall’altra prevede una penalizzazione per coloro che si astengono dal proporre congiuntamente l’azione di annullamento.

Accanto all’azione di condanna al risarcimento del danno si pone anche la questione se l’art30 ammetta anche altri tipi di azione, ed in particolare l’azione di condanna della p.a. all’emanazione dell’atto richiesto.  In origine, il progetto di codice elaborato dalla commissione tecnica presso il Consiglio di Stato conteneva una disposizione sulla cosiddetta “ azione di adempimento”  delineata sulla falsariga del modello tedesco della Verpflichtungsklage, ed ammessa quando, alla conclusione del processo amministrativo, l’amministrazione non risulti avere alcuna discrezionalità nella negazione dell’atto richiesto. In questi casi,  con la stessa sentenza di annullamento dell’atto di diniego al rilascio del provvedimento, si ordina all’amministrazione di emanare l’atto.  Nell’approvazione definitiva del Codice, però, tale disposizione  è stata espunta, ma la sua ammissibilità è stata dedotta in via interpretativa attraverso l’esegesi delle altre norme del Codice. In particolare, l’art34 che disciplina i tipi di sentenze che il giudice può emettere , attribuisce al giudice amministrativo anche il potere di adottare “ le misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio”. Il codice non ha accolto il principio di tipicità, e dunque il giudice può emanare, su richiesta della parte, ogni tipo di sentenza, a seconda della specifica esigenza di tutela. Ciò ha consentito alla giurisprudenza di ritenere pacificamente ammessa anche l’azione di adempimento ( Adunanza Plenaria Consiglio di Stato n.3/2011).

Deve, inoltre, rilevarsi che il Legislatore, sia pure in maniera non esplicita, ha ritenuto esperibile, anche in presenza di un provvedimento espresso di rigetto e sempre che non vi osti la sussistenza di profili di discrezionalità amministrativa e tecnica, l’azione di condanna volta ad ottenere l’ adozione dell’ atto amministrativo richiesto. Ciò è desumibile dal combinato disposto dell’art. 30, comma 1, che fa riferimento all’ azione di condanna senza una tipizzazione dei relativi contenuti  e dell’art. 34, comma 1, lett. c), ove si stabilisce che la sentenza di condanna deve prescrivere l’ adozione di misure idonee a tutelare la situazione soggettiva dedotta in giudizio. In definitiva, il disegno codicistico, ha superato la tradizionale limitazione della tutela dell’ interesse legittimo al solo modello impugnatorio, ammettendo l’ esperibilità di azioni tese al conseguimento di pronunce dichiarative, costitutive e di condanna idonee a soddisfare la pretesa della parte vittoriosa.

L’art.31 disciplina altre due azioni : quella che può essere proposta nel caso di inerzia o silenzio ( ossia nel caso di mancata risposta da parte della p.a. alla richiesta di un provvedimento da parte di un privato)  e l’azione di accertamento che ha lo scopo di accertare che l’atto amministrativo sia viziato in modo così grave da dover essere ritenuto nullo, ossia inidoneo a produrre qualsiasi tipo di effetto giuridico.

Il primo tipo di azione ( quella proponibile in caso d’inerzia) può essere proposta entro un termine di un anno. Se nel frattempo l’amministrazione emana un provvedimento che nega la richiesta, esso può essere impugnato con la normale azione di annullamento. Il giudice può ordinare all’amministrazione di provvedere alla richiesta del privato, assegnandole un termine. Nei casi in cui il giudice accerti che l’amministrazione non ha discrezionalità nell’emanazione del provvedimento, ma si tratta di un atto dovuto, può condannare direttamente l’amministrazione all’emanazione dell’atto.

L’azione di accertamento, invece, può essere proposta entro il termine di centoottanta giorni, ma la nullità dell’atto può essere dichiarata anche ex ufficio dal giudice.

Con la sentenza n. 15/2011, il Consiglio di Stato ha ammesso l’esperibilità di un’azione di accertamento atipica, compatibile con l’art. 34, comma 2, c.p.a. che vieta al Giudice di pronunciare su poteri non ancora esercitati, ritenendo che la mancata previsione espressa dell’azione di accertamento non osti alla sua configurabilità se sia l’unico rimedio per garantire una tutela adeguata ed immediata dell’interesse legittimo. Si legge nella pronuncia che “l’Adunanza in adesione alla tesi già sostenuta dal Consiglio di Stato reputa che l’assenza di una previsione legislativa espressa non osti all’esperibilità di un’azione di tal genere nei casi in cui detta tecnica di tutela sia l’unica idonea a garantire una protezione adeguata ed immediata dell’interesse legittimo”. Sviluppando il discorso già avviato dall’Adunanza Plenaria con la richiamata decisione n. 3/2011, si deve, infatti, ritenere che, nell’ambito di un quadro normativo sensibile all’esigenza costituzionale di una piena protezione dell’interesse legittimo come posizione sostanziale correlata ad un bene della vita, la mancata previsione, nel testo finale del codice del processo, dell’ azione generale di accertamento non precluda la praticabilità di una tecnica di tutela, ammessa dai principali ordinamenti europei, che, ove necessaria al fine di colmare esigenze di tutela non suscettibili di essere soddisfatte in modo adeguato dalle azioni tipizzate, ha un fondamento nelle norme immediatamente precettive dettate dalla Carta Fondamentale al fine di garantire la piena e completa protezione dell’ interesse legittimo (artt. 24, 103 e 113).

Anche per gli interessi legittimi, infatti, come pacificamente ritenuto nel processo civile per i diritti soggettivi, la garanzia costituzionale impone di riconoscere l’esperibilità dell’azione di accertamento autonomo, con particolare riguardo a tutti i casi in cui, mancando il provvedimento da impugnare, una simile azione risulti indispensabile per la soddisfazione concreta della pretesa sostanziale del ricorrente.
A tale risultato non può del resto opporsi il principio di tipicità delle azioni, in quanto corollario indefettibile dell’ effettività della tutela è proprio il principio della atipicità delle forme di tutela. In questo quadro la mancata previsione, nel testo finale del codice, di una norma esplicita sull’ azione generale di accertamento, non è sintomatica della volontà legislativa di sancire una preclusione di dubbia costituzionalità, ma è spiegabile, anche alla luce degli elementi ricavabili dai lavori preparatori, con la considerazione che le azioni tipizzate, idonee a conseguire statuizioni dichiarative, di condanna e costitutive, consentono di norma una tutela idonea ed adeguata che non ha bisogno di pronunce meramente dichiarative in cui la funzione di accertamento non si appalesa strumentale all’ adozione di altra pronuncia di cognizione ma si presenta, per così dire, allo stato puro, ossia senza sovrapposizione di altre funzioni. Ne deriva, di contro, che, ove dette azioni tipizzate non soddisfino in modo efficiente il bisogno di tutela, l’azione di accertamento atipica, ove sorretta da un interesse ad agire concreto ed attuale ex art. 100 c.p.c., risulta praticabile in forza delle coordinate costituzionali e comunitarie richiamate dallo stesso  art 1 del codice oltre che dai criteri di delega di cui all’art. 44 della legge n. 69/2009.

il Legislatore ha deciso, infatti, con il dlgs 160/2012, di integrare il portato normativo dell’articolo 34, comma 1, lettera c),allo scopo proprio di chiarire i dubbi circa l’ammissibilità di un’azione di accertamento, introducendo le parole «l’azione di condanna al rilascio di un provvedimento richiesto è esercitata, nei limiti di cui all’articolo 31, comma 3, contestualmente all’azione di annullamento del provvedimento di diniego o all’azione avverso il silenzio”.

Una simile tutela era già contenuta nell’art. 124 c.p.a. (che consente di domandare il conseguimento dell’aggiudicazione e del contratto a seguito dell’annullamento dell’invalida aggiudicazione e della conseguente declaratoria di inefficacia del contratto), nonché nell’art. 114, comma 4, lett. e).

L’azione di condanna al rilascio di un determinato provvedimento può essere esperita contestualmente ad altra azione, di annullamento o avverso il silenzio, nei casi ove non residuino spazi di discrezionalità amministrativa e non siano necessari ulteriori adempimenti istruttori. Probabilmente, il motivo per cui il legislatore ha limitato l’esperibilità di tale azione deriva dalla constatazione che la condanna al rilascio di un determinato provvedimento deve confrontarsi con la caratteristica intrinseca della funzione amministrativa sottoposta a giudizio, ovvero quella di essere volta al contemperamento di interessi differenziati per il raggiungimento del superiore interesse pubblico.

 In linea con le menzionate pronunce della Adunanza Plenaria, dunque, la pronuncia n. 28/2012,  ha sentenziato anche l’esperibilità dell’azione ai sensi dell’art 2932 c.c..

 In sostanza, gli artt. 1 c.p.a. e 24 Cost. impongono la realizzazione di quella tutela effettiva che ha come necessario corollario il principio di atipicità e molteplicità delle tutele: l’azione deve essere funzionale alla pretesa dedotta in giudizio e, quindi, le azioni variano col variare dell’oggetto di essa.

Le ultime due azioni disciplinate dal Codice completano quelle sin qui esaminate.

La prima è l’azione cautelare, che consente di richiedere al giudice provvedimenti interinali in cui vi è necessità di evitare danni gravi ed irreparabili che si potrebbero produrre in attesa della sentenza definitiva. Tale azione, già regolata dalla normativa pre-codicistica, è stata notevolmente rinforzata dal codice che, articolandola in ben sette articoli ( da 55 a 62,) la potenzia ulteriormente.

Caratteristica dell’azione de qua è innanzitutto che le misure cautelari possono essere richieste già nel corso del ricorso principale o in qualsiasi momento successivo all’instaurazione del giudizio. Esse si sostanziano nella sospensione degli effetti dell’atto impugnato o nel pagamento, in via provvisoria, di una somma di denaro. Il codice attribuisce ampia discrezionalità al giudice nell’individuare il rimedio più efficace a prevenire il danno. Di regola, l’azione cautelare viene proposta al collegio che decide la causa nel merito, ma viene esaminata in tempi più brevi, stante l’urgenza che la caratterizza. Una novità del Codice è che le misure cautelari possono essere richieste, in casi eccezionali di urgenza, anche prima che sia proposto il ricorso principale (c.d. ricorso ante causam). Quest’ultimo deve essere notificato entro quindici giorni dalla concessione delle misure cautelari che altrimenti decadono automaticamente. Dopo la proposizione del ricorso le misure devono essere confermate dal collegio.

L’ultima azione è quella che può essere esperita nel giudizio di ottemperanza, ossia quando l’amministrazione non esegua la sentenza del giudice amministrativo ( ovvero quella del giudice civile). Nel giudizio di ottemperanza il giudice amministrativo esercita una giurisdizione di merito che gli consente di sostituirsi all’amministrazione inadempiente. Così in particolare, se in seguito alla sentenza l’amministrazione è tenuta ad emanare, ad esempio, un’autorizzazione o a riconsegnare un terreno espropriato, il giudice può prescrivere all’amministrazione le modalità esecutive o addirittura provvedere direttamente o tramite un commissario ad acta. L’azione può essere proposta entro dieci anni dal giorno in cui si forma il giudicato. Il giudice può anche condannare l’amministrazione al risarcimento dei danni derivanti dalla mancata esecuzione della sentenza ed al pagamento di un’ulteriore somma di denaro per ogni giorno di ritardo da parte dell’amministrazione.

In conclusione,  in tema di azioni, il Codice prende atto dell’evoluzione legislativa e giurisprudenziale che ha via via integrato il modello originario fondato sulla sola azione di annullamento. Quest’ultima resta ancora l’azione più importante, ma fanno contorno ad essa tutti i tipi di azione necessari per rendere completa ed effettiva la tutela richiesta dal cittadino nei confronti della pubblica amministrazione. Anche la mancata inclusione dell’azione di adempimento  tra le azioni contemplate, non ha impedito al giudice amministrativo di ritenerla comunque inclusa nella più generale azione di condanna.

Certamente la novità principale riguarda l’azione di condanna al risarcimento del danno, rispetto alla quale emerge con maggior spicco, l’incisività del principio di effettività della tutela del singolo, rispetto agli atti e i comportamenti della p.a.

Lo stesso Consiglio di Stato , nella già citata pronuncia n.3 del 2011, ha ribadito che « Il riconoscimento dell’autonomia, in punto di rito, della tutela risarcitoria si inserisce ( in attuazione dei principi costituzionali e comunitari in materia di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale) in un ordito normativo che, portando a compimento un lungo e costante processo evolutivo tracciato dal legislatore e dalla giurisprudenza, amplia le tecniche di tutela dell’ interesse legittimo mediante l’introduzione del principio della pluralità delle azioni. Si sono, infatti, aggiunte alla tutela di annullamento, la tutela di condanna risarcitoria e reintegratoria (ex art. 30), la tutela dichiarativa ( l’azione di nullità del provvedimento amministrativo ex art. 31, comma 4) e, nel rito in materia di silenzio-inadempimento, l’azione di condanna della p.a.(cd. azione di esatto adempimento) all’adozione del provvedimento, anche previo accertamento, nei casi consentiti, della fondatezza della pretesa dedotta in giudizio (art. 31, commi da 1 a 3)”.

 

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