Il principio di ne bis in idem in ambito nazionale ed europeo.

 

Il principio di ne bis in idem in ambito nazionale ed europeo.

 

Stefania Martinez Corso Magistratura on line.

Il godimento della libertà personale, al quale si riconnette lo sviluppo della personalità dell’individuo, è un valore costituzionalmente garantito in  un ordinamento democratico qual è il nostro. Tale impianto garantista verrebbe inficiato se l’apparato repressivo statale reiterasse l’azione penale verso lo stesso soggetto, per il medesimo fatto, a seguito di res iudicata. In tale ottica va inquadrato il principio di ne bis in idem, in forza del quale nessuno può essere sottoposto per più di una volta ad un processo penale, per il medesimo fatto, a seguito di una sentenza passata in giudicato, sia essa di condanna o di assoluzione.

Tale principio non trova un riconoscimento costituzionale espresso; cionondimeno viene considerato pacificamente un principio immanente nel nostro ordinamento, che trova fondamento in alcuni principi generali quale quello di ordine pubblico, poiché a seguito di una sentenza definitiva si deve garantire la certezza dei rapporti giuridici, nonché nel diritto civile e politico del cittadino a non essere sottoposto ad un secondo processo penale in presenza di una posizione ormai consolidata. In questo quadro ordinamentale il divieto di bis in idem è, altresì, ancorato ad altri principi cardine del nostro sistema penale, quali il giusto processo (art. 111 Cost.), così come il diritto di difesa (art. 24 Cost.), nonché la finalità rieducativa della pena (art. 27, comma 3 Cost.) e la ragionevole durata del processo (art. 117 Cost. co. 1 e art. 6 CEDU).

È, di fatto, a livello internazionale che il ne bis in idem, principio internazionale originariamente consuetudinario, viene, poi, espressamente affermato, facendo leva sulle norme di cui all’art. 4 Protocollo 7 Convenzione Europea dei Diritto dell’Uomo, nonché sull’art. 50 Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea.

Rispetto a tale profilo, si pone il problema di stabilire quale sia l’ambito di applicazione di tale principio per il diritto interno e quale per il diritto convenzionale e unionale.

Il che ha portato ad un fitto dialogo tra Corti nazionali e internazionali.

Più in particolare, il dibattito tra Tribunali di merito, Corte di Cassazione, Corte Costituzionale, Corte EDU e Corte di Giustizia, a tutt’oggi non sopito, si è svolto, da un lato, in ordine alla compatibilità del doppio binario sanzionatorio, presente nel nostro ordinamento, rispetto alle norme Convenzionali (in specie, art. 4 Prot. 7 CEDU), così come interpretate alla luce della sentenza Grande Stevens, nonché al recente revirement giurisprudenziale della stessa Corte di Strasburgo  sul tema, del quale si avrà modo di precisare meglio di seguito; dall’altro lato, l’attenzione di dottrina e giurisprudenza, inclusa quella costituzionale, si è soffermata sulla nozione di medesimo fatto.

Sotto quest’ultimo profilo, ci si interroga se la nozione di medesimo fatto, sul quale non deve essere reiterata l’azione penale, vada ricondotta a quella di idem legale (così come ritenuto da una parte della giurisprudenza nazionale) ovvero a quella di idem factum (secondo l’orientamento ormai pacifico della Corte EDU). Detto diversamente, si tratta di ricondurre il fatto a quello astrattamente configurato dal legislatore ovvero al fatto storico.

Procediamo con ordine.

La locuzione “medesimo fatto”, in relazione al divieto di un secondo giudizio a cui sottoporre l’imputato (assolto o condannato) a seguito di res iudicata, si rinviene nell’art. 649 c.p.p. (fondamento normativo, seppur a livello di legge ordinaria, nel nostro ordinamento del principio di ne bis in idem), nonché negli artt. 28 codice di rito, in ordine alle ipotesi di conflitti di giurisdizione e di competenza, e 669 stesso codice, attinente, in fase di esecuzione, alla revoca, a seguito di errore giudiziario, di più sentenze di condanna avverso la stessa persona ed a fronte, per l’appunto, del medesimo fatto.

Più in particolare, dal vaglio analitico dell’art. 649 sopra citato si evince che è vietato sottoporre il soggetto ad un secondo giudizio per il medesimo fatto, anche se questo viene diversamente considerato per grado, circostanze ovvero titolo. Sul punto, la Suprema Corte a Sezioni Unite nel 2005 ha ritenuto che il fatto, valutato secondo la triade condotta, nesso di causalità, evento, vada interpretato quale fatto storicamente inteso, ossia evento storico-naturalistico. Nonostante ciò, una parte minoritaria della giurisprudenza ha ritenuto che il fatto del primo e quello del secondo giudizio vanno valutati a livello strutturale in base alla fattispecie astratta creata dal legislatore.

Sulla base dell’approccio ermeneutico da ultimo citato, consolidata giurisprudenza di legittimità ha ritenuto di poter evitare di applicare il divieto di bis in idem in presenza di concorso formale di reati ex art. 81 c.p., posto che con la stessa condotta si violano più volte la stessa o diverse fattispecie incriminatrici. Con maggior sforzo esplicativo, si darebbe vita a più eventi tra loro eterogenei e, di conseguenza, idonei a non integrare lo stesso fatto. Il che mostra come il problema di applicare o meno il principio del ne bis in idem non si sarebbe posto a fronte di un concorso apparente di norme. In tal caso, infatti, alla stessa condotta possono essere riconducibili più norme incriminatrici; tuttavia, di fatto, solo una di esse è applicabile. Ciò avviene tramite l’utilizzo del criterio testuale del principio di specialità (tesi monista) ovvero a mezzo di criterio di assorbimento, consunzione ovvero sussidiarietà, che, seppur affermati dai fautori delle tesi pluraliste nella quali si valorizza il disvalore del fatto, vengono rigettati dall’orientamento prevalente della Suprema Corte quali criteri valoriali, aperti alle interpretazioni intuizionistiche del giudice.

Sennonché, il concetto di “medesimo fatto”, ai fini dell’applicazione del principio del ne bis in idem, è stato interpretato dalla Corte EDU  a partire dalla sentenza Grande Stevens c. Italia sia come illecito penale che come illecito amministrativo. La questione, in particolare, attiene alla presenza del nostro ordinamento di una duplicazione punitiva  in materia di abusi di mercato: una pena per il reato di manipolazione del mercato di cui all’art. 185 TUF, alla quale si affiancano, per lo stesso fatto, delle sanzioni amministrative, irrogate dalla Consob, ai sensi dell’art. 187ter TUF.    E’ evidente, in tal caso, che i due fatti siano, nella sostanza, i medesimi, ai quali vengono applicate sanzioni diverse per natura, secondo la nostra disciplina interna. Tuttavia, il rapporto tra sanzione penale emananda e sanzione amministrativa già irrogata in modo definitivo è stato sottoposta alla Corte di Strasburgo che ha ritenuto le sanzioni entrambe di natura punitiva e, in quanto tali, i relativi procedimenti soggetti al principio penalistico del ne bis in idem. Tale pronuncia fa leva sull’applicazione alle sanzioni amministrative di cui all’art. 187ter dei cosiddetti Engel criteria, ossia dei criteri elaborati dalla Corte nel Caso Engel c. Paesi Bassi. Opinando in tal senso, indipendentemente dalla qualificazione effettuata dalla Stato di appartenenza, la sanzione viene valutata in relazione alla natura giuridica della violazione, alla qualificazione da parte dello Stato della violazione stessa, nonché della gravità e della natura della sanzione medesima. Pertanto, posta la natura punitiva, la Corte di Strasburgo ha ritenuto violativo del ne bis in idem sancito dall’art. 4 Prot. 7 CEDU la pendenza o l’avvio del processo penale per il reato di cui all’art. 185 TUF, conclusosi il procedimento per l’irrogazione delle sanzioni di natura afflittiva di cui all’art. 187ter.

Per quanto attiene al profilo ivi in esame, ossia alla delimitazione del concetto di “medesimo fatto”, la decisione de qua assume rilevanza per due differenti considerazioni.

Si rileva, in primis, che la Corte EDU non  restringe, in generale, l’analisi sull’identità del fatto esclusivamente all’azione o all’omissione; tuttavia, nel caso in esame, l’indagine si è svolta solo in  ordine alla condotta, poiché il reato di cui all’art. 185 TUF è un reato causalmente orientato e, di conseguenza, privo di evento.

Sotto altra ottica, la Corte EDU ha valutato il fatto naturalistico e non ha raffrontato gli elementi del fatto giuridico, ossia gli elementi strutturali confrontati tra fattispecie astratte. Tuttavia, la posizione della Corte non è stata sempre unanime in ordine al criterio di individuazione del medesimo fatto; a tale specifico riguardo, merita evidenziare che in altre sentenze è stato fatto riferimento al nesso di causalità giuridica e non solo alla medesimezza del fatto storico. Ad ogni modo, ad oggi, il contrasto è stato risolto dalla sentenza della Grande Camera (Caso Zolotukine c. Russia), la quale ha sposato il criterio del fatto stotico-naturalistico.

Orbene, alla luce di quanto sin qui esposto e, più in particolare, del criterio dell’idem factum usato dalla Corte EDU, il GUP di Torino, chiamato ad emetter il decreto di rinvio a giudizio nel processo  Eternit bis, si è interrogato se sia costituzionalmente legittimo, in base all’orientamento giurisprudenziale maggioritario (ossia al cosiddetto diritto vivente), muovere una seconda azione penale nel confronti di uno stesso soggetto a seguito di una precedente assoluzione solo perché i fatti, provenienti dalla medesima condotta, integrano fattispecie di reato diverse e, dunque, “fatti giuridici” diversi. In altri termini, ci si interroga su una violazione del doppio binario di giudizio per il medesimo fatto, così come qualificato dalla Corte EDU.

Con maggior impegno esplicativo, l’amministratore delegato dell’impresa multinazionale “Eternit” dalle cui sedi si è propagata la polvere cancerogena di amianto, che ha provocato la morte di centinaia di persone abitanti le zone limitrofe, oltre che di lavoratori dipendenti dell’azienda medesima, era stato assolto per prescrizione dall’imputazione per il reato di disastro innominato ex art. 434 c.p., nonché del reato di omissioni dolose di  cautele contro gli infortuni sul lavoro di cui all’art. 437 c.p. Argomentando in tal senso, alla luce del principio di ne bis in idem– così come interpretato dalla giurisprudenza EDU- il soggetto non dovrebbe essere sottoposto ad un secondo procedimento penale per il reato di omicidio volontario, per il quale il pubblico ministero ha nuovamente esercitato l’azione penale (caso Eternit bis). Cionondimeno, il diritto vivente ritiene che in presenza di un concorso formale di reati- ossia la condotta dell’amministratore delegato integra gli estremi tanto del reato di disastro innominato di cui al 434 c.p., nonché dell’omicidio volontario- il divieto del bis in idem non vada applicato, poiché si è in presenza di eventi eterogenei. A tal punto, il GUP di Torino solleva questione di legittimità costituzionale dell’art.649 c.p.p. per contrasto con l’art. 117 comma 1 Cost. e la norma interposta di cui all’art. 4 Prot. 7 CEDU nella parte in cui limita il principio del ne bis in idem alla sussistenza di un medesimo “fatto giuridico”

La Consulta, in prima battuta, dichiara la compatibilità dell’interpretazione nazionale di medesimo fatto con l’art. 4 Prot. 7 CEDU, poiché l’interpretazione convenzionale e l’approccio ermeneutico interno utilizzano entrambi un criterio fattuale – naturalistico. Invero, la argomentazione del Giudice delle Leggi è maggiormente articolata; ciò in quanto la verifica sulla sussistenza del medesimo fatto storico va effettuata, accanto alla condotta, anche sul nesso causale e sull’evento, ma empiricamente e materialmente considerati. In altri termini, si deve avere riguardo all’evento materiale e non giuridico, nonché al nesso causale così come empiricamente accertato sulla base degli elementi fattuali emersi nel corso del dibattimento del primo processo. Ne discende che la presenza di un evento morte non contestato nel primo giudizio penale è in grado di far definire non identico il fatto storico e, dunque, non applicabile il ne bis in idem. Opinando in tal senso, nel caso Eternit bis, potrà continuare, di certo, il processo nei confronti delle persone offese che non erano tali nel primo procedimento penale. Maggiormente complessa appare la questione in ordine agli eventi morte contestati già nel primo processo. Alla luce dei principi di diritto espressi dalla Consulta, così come sin qui brevemente esposti, si potrebbe ritenere che il secondo procedimento penale potrebbe essere intrapreso qualora emerga, tramite il vaglio degli accertamenti probatori del processo concluso con sentenza definitiva, che l’evento materiale e il nesso causale empiricamente valutato in relazione ai reati di cui al 434 e 437 c.p. non costituiscano lo stesso fatto storico dell’omicidio volontario.

Dagli assunti da ultimo prospettati si evince che spetterà al giudice di merito valutare se, in presenza di un concorso formale, si deve applicare o meno il principio del ne bis in idem. A tale specifico riguardo, è rimesso al Tribunale di merito, in generale, e nel caso Eternit bis al GUP, in particolare, valutare se tra i reati in concorso formale sussista o meno l’idem factum.

Chiarito ciò, la Consulta, ad ogni modo, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p. nella parte in cui, secondo il diritto vivente,  si esclude che il fatto sia il medesimo per la sola sussistenza di un concorso formale tra il reato giudicato con sentenza irrevocabile ed il reato per cui è iniziato un  nuovo processo penale. Detto diversamente, l’art. 649 c.p.p. è costituzionalmente illegittimo secondo lo schema della norma interposta ex 117 Cost., ove non vieta l’esclusione del  ne bis in idem in presenza di un concorso formale per la sola presenza di un idem legale.

Ora, sotto un diverso profilo, si può passare ad interrogarsi se sia compatibile il nostro sistema del doppio binario sanzionatorio con le norme della Convenzione EDU (in particolare, art. 4 Prot. 7 CEDU) e con l’art. 50 CDFUE.

Così come sopra brevemente delineato in ordine al Caso Grande Stevens, in alcune materie – come quella del market abuse e del diritto tributario- il nostro ordinamento statuisce un sistema fondato sul doppio binario sanzionatorio, ossia accanto alla sanzione penale è prevista l’irrogazione di una sanzione amministrativa. Tuttavia, a livello Convenzionale non sussiste un divieto per gli Stati aderenti di non applicare più sanzioni allo stesso fatto; ciò che viene vietato è la duplicazione di procedimenti quando entrambe le sanzioni alla luce degli Engel criteria presentano scopo afflittivo.

È noto che la sentenza Grande Stevens è stata foriera di numerosi dubbi interpretativi.

È, altresì, vero che recentemente la Corte EDU ha rivisitato la sua posizione in tema di doppio binario sanzionatorio sulla base del principio della connessione time and substance.

Procediamo per gradi.

Ebbene, in ordine ai risvolti processuali dell’applicazione del principio del ne bis in idem da parte della Corte EDU al doppio binario sanzionatorio (così come avvenuto nel caso Grande Stevens) sono state sollevate tre questioni di legittimità costituzionale davanti alla Consulta, le quali, per vero, son state ritenute tutte inammissibili dal Giudice delle Leggi.

Al fine di un’adeguata impostazione della materia degli illeciti finanziari, pare opportuno premettere che le condotte di cui al reato di manipolazione del mercato ai sensi dell’art. 185 TUF e al delitto di abuso di informazione privilegiate ai sensi dell’art. 184 TUF (il cosiddetto insider trading) nella sostanza coincidono  con quelle sanzionate in via amministrativa ex artt. 187bis e 187ter TUF. Ne discende che si è in presenza di un doppio binario sanzionatorio idoneo a configgere con il divieto del doppio binario di giudizio così come perimetrato dalla Corte EDU.

Alla luce di ciò, la Cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale in ordine all’art. 649 c.p.p. per contrasto con l’art. 117 comma 1 Cost., in relazione con l’art. 4 Prot. 7 CEDU, nella parte in cui non è prevista l’applicabilità del divieto del secondo giudizio nell’ipotesi in cui un soggetto, per lo stesso fatto, ad esito di un procedimento amministrativo, sia già stato sanzionato ed a tale sanzione sia stata riconosciuta natura penale sulla base della giurisprudenza EDU.

La Corte Costituzionale ha ritenuto la questione inammissibile per le seguenti ragioni.

La Consulta ritiene che un intervento additivo sull’art. 649 c.p.p. non stabilirebbe un ordine di priorità tra il primo e il secondo procedimento. Ne conseguirebbe che la mancata celebrazione del processo penale o la mancata conclusione di un secondo procedimento dipenderebbe esclusivamente, nel caso concreto, da quale procedimento divenga per primo irrevocabile, ossia, detto altrimenti, si sia concluso più celermente. Il che implica che non si fornirebbe un rimedio strutturale per evitare un doppio procedimento avverso lo stesso soggetto per lo stesso fatto, ossia, in altri termini, uno strumento volto ad impedire la violazione del ne bis in idem, così come affermato dalla Corte EDU nel Caso Grande Stevens in materia di market abuse.

Argomentazioni analoghe a quelle dei Giudici di legittimità, così come sopra esposte, sono adottate in materia tributaria dal Tribunale di Bologna nella recente ordinanza con la quale ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p. per contrasto con l’art. 117 comma 1 Cost. in relazione con l’art. 4 Prot. 7 CEDU nella parte in cui non vieti l’apertura di procedimenti penali per reati fiscali; ciò a seguito di applicazione di sovrattasse a scopo sanzionatorio.   A tale specifico riguardo, in materia di illeciti tributari (in particolare, omesso versamento di IVA ex art. 10ter d.lgs. 74/2000), il nostro sistema prevede un doppio binario sanzionatorio, in base al quale la l. 471/1997, da un lato, sancisce una serie di sanzioni amministrative per delle condotte che assumono, dall’altro, anche rilevanza penale se superano le soglie di punibilità previste dal d.lgs. 74/2000. La Corte Costituzionale, cionondimeno, ha ritenuto la questione inammissibile per ius superveniens. È vero che la L. 158/2015 ha introdotto una nuova causa di non punibilità per il soggetto che decide volontariamente di estinguere il debito tributario prima dell’apertura del dibattimento; tuttavia, nulla viene mutato nell’impianto del doppio binario sanzionatorio preesistente.

Sempre in materia Tributaria vi è un ulteriore ordinanza che non può non essere attenzionata. Si rileva, infatti, che il Tribunale di Bergamo investe la Corte di Giustizia di una questione pregiudiziale volta a conoscere se l’art. 50 CDFUE, interpretato alla luce della giurisprudenza EDU sull’art. 4 Prot. 7 CEDU, osti alla celebrazione di un processo penale per uno stesso fatto per il quale all’imputato è stato già irrogata sanzione amministrativa irrevocabile, da qualificarsi come punitiva.

Ora, sul punto, preme evidenziare che la Carta di Nizza ha assunto lo stesso valore giuridico dei Trattati nelle materie comunitarie ai sensi dell’art. 6 TFUE. È palese che sia la materia degli abusi di mercato che l’omesso versamento dell’IVA costituiscono materie comunitarie.

L’ordinanza, se da un lato, ha il pregio di rinviare questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia e, quindi, di non rimettere la questione di legittimità costituzionale davanti alla Consulta ai sensi dell’art. 117, co. 1. Cost., in relazione con l’art. 4 Prot. 7 CEDU; dall’altro lato, sposta il problema sui rapporti tra principi CEDU e principi contenuti dalla Carta di Nizza.

Sul primo versante, occorre sottolineare che, rinviando all’art. 50 CFDUE, il giudice remittente vorrebbe fare leva, ai fini della risoluzione del conflitto, su una norma direttamente applicabile nel nostro ordinamento, quale una norma Unionale di rango pari a quelle del Trattato. La questione si interseca quindi con i complessi rapporti tra diritto penale e fonti eurounitarie. Posto che né il diritto unionale né quello della Convenzione EDU possono incriminare nuove condotte, monopolio quest’ultimo riservato al legislatore, il diritto comunitario può comunque interferire nel diritto interno producendo di regola effetti in bonam partem (recentemente a seguito del Caso Tarrico, pareva essere ammessa anche una influenza indiretta in malam partem). Ciò posto, in virtù del primato del diritto comunitario sul diritto interno, riconosciuto dalla nostra Corte Costituzionale a partire dalla sentenza Granital dell’84, il giudice nazionale dovrebbe disapplicare la norma nazionale (che diverebbe tamquam non esset) contrastante con il diritto comunitario. Alla luce di ciò, l’art. 649 c.p.p. verrebbe disapplicato nella parte in cui contrasterebbe con l’art. 50 CFDUE.

Rispetto a tale profilo, la Suprema Corte con due recentissime ordinanze ha effettuato rinvio pregiudiziale alla Corte di Lussemburgo chiedendo se il giudice interno sia legittimato ad un’applicazione diretta dell’art. 50 CDFUE.

Per quanto attiene all’interpretazione dell’art. 50 CDFUE alla luce del diritto Corte EDU, si rileva che, se da un lato, ai sensi dell’art. 6 TUE i diritti garantiti dalla CEDU fanno parte del diritto unionale in quanto principi generali; dall’altro, ai sensi dell’art. 52 par. 3 CDFUE  i diritti contenuti in tale Carta hanno lo stesso significato attribuito dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo ai diritti della CEDU. Nonostante ciò, dall’analisi della giurisprudenza della Corte di Lussemburgo si evincono delle differenze rispetto ai principi enunciati nella sentenza Grande Stevens. In tal senso, il diritto dell’Unione, specialmente in materia di obblighi dichiarativi in materia di IVA, astrattamente non osta all’inflizione di più sanzioni avverso il medesimo fatto, sia che esse abbiano natura amministrativa, penale ovvero si combinino tra loro. Però, sussiste un divieto di secondo giudizio penale avverso la stessa persona per il medesimo fatto. Ne deriva, in concreto, la violazione del ne bis in idem qualora venga aperto un processo penale a seguito di un procedimento conclusosi con l’irrogazione di una sanzione avente natura sostanzialmente punitiva. Per vero, la natura afflittiva o meno delle sanzioni, in ambito comunitario, viene desunta dagli stessi criteri della Corte EDU. Pertanto, resta, ad ogni modo, rimesso al giudice di merito vagliare se il procedimento, di volta in volta, in esame sia o no soggetto al principio del ne bis in idem.

In attesa della pronuncia della Corte di Giustizia, a seguito del rinvio pregiudiziale tanto del Tribunale di Bergamo, quanto della Corte di Cassazione in materia di reati fiscali, il giudice ordinario si trova quindi a far fronte al problema della compatibilità del doppio binario sanzionatorio con il principio del ne bis in idem, nell’ambito applicativo delineato dalla Corte EDU.

Soffermandosi, seppur per cenni, sui rimedi che possono essere utilizzati dal giudice nazionale per risolvere il contrasto, quest’ultimo potrà in primo luogo far ricorso ove possibile ad un’interpretazione conforme  della norma interna al diritto dell’Unione o alla Convenzione EDU (ossia all’attribuzione alla disposizione di un significato conforme agli obblighi comunitari o convenzionali). Qualora, tale strada non fosse percorribile, il giudice avrebbe davanti un bivio, ossia scegliere se accertare il contrasto della normativa nazionale con l’art. 50 CFDU, così come sopra delineato (con relativa disapplicazione, qualora la questione venisse ritenuta fondata dalla sentenza della Corte di Giustizia pregiudizialmente adita sul punto) ovvero sollevare questione di legittimità costituzionale ex art. 117, co. 1 Cost. e 4 Prot. 7 CEDU. Il che è conforme a quanto affermato dalla Corte Costituzionale con le sentenze gemelle 348 e 349/2007. A tale specifico riguardo, il Giudice delle Leggi ha avuto modo di precisare che le norme della Convenzione hanno rango sub – costituzionale, ossia esse fungono da parametro interposto del sistema tramite il comma 1 dell’art. 117 della Costituzione, ai sensi del quale lo Stato e le Regione devono dare attuazione ai vincoli comunitari e agli altri obblighi derivanti dagli altri Trattati a cui l’Italia ha aderito.

Tuttavia, autorevole dottrina non ha mancato di propendere per la diretta applicabilità delle norme della CEDU, ogniqualvolta si sia di fronte a un vuoto di tutela e, di conseguenza, non vi sia un contrasto con la normativa interna.

Tale interpretazione è stata avallata da alcuni Tribunali di merito tra cui quello di Asti. Invero, la Suprema Corte, adita per saltum dalla pubblica accusa, ha annullato con rinvio la sentenza del Tribunale de qua, che faceva diretta applicazione dell’art. 4 Prot. 7 CEDU. Ciò in quanto solo il diritto comunitario ha efficacia diretta nel nostro ordinamento, a seguito della limitazione di sovranità accettata dal nostro Stato ex art 11 Cost. Peraltro, la Corte di Cassazione ha modo di precisare che il giudice nazionale può ricorrere all’interpretazione conforme della norma interna rispetto agli obblighi comunitari. Tuttavia, la disciplina del divieto di doppio giudizio di cui all’art. 649 c.p.p., così come invocato dalla sentenza in esame, fa riferimento ad una “sentenza” o un “decreto penale” di condanna irrevocabili, nozioni non suscettibili di un’interpretazione conforme talmente estensiva da ricomprendere i provvedimenti amministrativi, seppur qualificati come punitivi alla luce della giurisprudenza della Corte EDU.

È evidente che il principio del ne bis in idem è un principio generale e che sussiste un diritto fondamentale del cittadino a non essere processato più volte penalmente per il medesimo fatto o a essere immediatamente prosciolto qualora il procedimento sia ancora pendente nei suoi confronti, a seguito di res iudicata (ossia soggetto già sanzionato dalla Consob ovvero condannato o assolto dal giudice penale in via definitiva), ovvero, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, anche  di res iudicanda , tramite il ricorso all’analogia iuris in bonam partem.

Però, anche volendo ammettere  la tesi propugnata da una parte della dottrina sulla diretta applicabilità del diritto della CEDU, nell’accezione vincolante fornita dalle sentenze della Corte EDU, quest’ultimo pare, per vero, essere recentemente reinterpretato proprio in ordine al doppio binario sanzionatorio (Caso A e B c. Norvegia).

In generale, il doppio binario sanzionatorio lederebbe il principio del ne bis in idem, così come sin qui delineato nella sua latitudine applicativa dalla Corte EDU. Ne consegue che se ne sarebbe dovuto propugnare il superamento. Tuttavia, i dubbi di incompatibilità del nostro sistema del doppio binario sanzionatorio, in materia tributaria, nonché in quella di abuso di mercato, con la normativa convenzionale pare vengano meno sulla base dei dicta della Grande Camera della Corte EDU nel caso A e B. c. Norvegia.

Ebbene, nel caso in questione la Corte di Strasburgo ha ammesso che possa esistere un doppio binario sanzionatorio all’interno degli Stati aderenti, purché questo sia frutto di un sistema condiviso e unitario, nell’ottica di una strategia unitaria, volta ad affrontare i vari aspetti dell’illecito in modo proporzionato e prevedibile. Ne discende che il principio del ne bis in idem non è violato dalla celebrazione di un processo penale, con l’irrogazione della relativa sanzione, nei confronti di un soggetto già sanzionato in via definitiva dall’amministrazione tributaria con una sovrattassa. Ciò solo se i due procedimenti siano connessi a livello sostanziale e risultino svolti in un arco temporale sufficientemente ristretto.  Al fine di verificare la connessione sostanziale, l’indagine andrà condotta sulla prevedibilità sin dall’origine della possibilità di due distinti procedimenti, nonché sulla loro diversità teleologica; sulla valutazione dell’entità della sanzione inflitta nel primo procedimento al fine di definire quella del secondo procedimento sulla base del principio di proporzionalità; sulla non duplicazione della prova nello svolgimento dei procedimenti. Con maggior sforzo esplicativo si può ritenere che i due procedimenti non contrastino con il principio del ne bis in idem se connessi nella sostanza e se svolti in un arco temporale tale da non comportare un sacrificio sproporzionato per il soggetto. In breve, la Corte EDU ha dato applicazione al principio della connessione substance and time. Il che è dimostrato dal fatto che i due procedimenti non devono essere consecutivi ma paralleli.

Per quanto sin qui esposto, in attesa della pronuncia della Corte di Giustizia, resta auspicabile un intervento legislativo che de iure condendo definisca i rapporti tra il principio del ne bis in idem ed  i due procedimenti del doppio binario sanzionatorio, nonché il loro ordine di trattazione. In questo scenario composito, anche alla luce della recente pronuncia della Corte EDU, il dibattito si può ritenere tutt’altro che sopito. Numerosi, infatti, saranno i dubbi interpretativi, nonché i risvolti applicativi, considerato che, non ultimo, nel nostro apparato ordinamentale, il sistema tributario non è unitario e coeso, bensì del tutto indipendente da quello penale.

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