IL REGIME DEI CONTROLLI AMMINISTRATIVI CON PARTICOLARE RIFERIMENTO ALLE FORME DI TUTELA ESPERIBILI AVVERSO IL DECRETO DI SCIOGLIMENTO DEI CONSIGLI COMUNALI E PROVINCIALI PER INFILTRAZIONI MAFIOSE
L’espressione “controlli amministrativi” suole indicare un potere amministrativo esercitato al fine di vagliare la legittimità o l’opportunità di un atto o di un’attività di una PA ad opera di un Soggetto Pubblico diverso da quello al quale l’atto o l’attività sono riconducibili.
In generale, i controlli possono atteggiarsi come controlli di legittimità se scrutinano la conformità dell’atto alla legge, o di merito, se mirano a vagliarne l’opportunità; ancora, possono avere ad oggetto singoli atti, un organo oppure la generale corrispondenza dei risultati raggiunti agli obiettivi programmati (il c.d. “controllo di gestione”); infine, in relazione al momento in cui il controllo viene esercitato, può atteggiarsi come controllo preventivo e condizionare l’efficacia dell’atto controllato, oppure successivo, ed incidere su un atto che è già efficace.
Ed invero, a seguito della storica Legge Costituzionale 3/2001, il regime dei controlli ha subito notevoli modifiche. Innanzitutto, il controllo sugli organi risulta fortemente limitato, grazie soprattutto alla soppressione della figura del Commissario di Governo. Ancora, anche il controllo sui singoli atti risulta sensibilmente ridotto a favore di un generale controllo di gestione. Infine, il controllo repressivo o sanzionatorio ha ceduto il passo, al di là di eccezionali ipotesi, ad un controllo di tipo collaborativo.
E pur tuttavia, è rimasto comunque inalterato ed, anzi, risulta anche potenziato, il controllo sugli organi da esercitarsi in ipotesi di infiltrazioni mafiose.
In modo specifico, un potere particolarmente significativo concerne la possibilità di disporre lo scioglimento dei consigli comunali e provinciali per infiltrazioni mafiose.
Tale potere così invasivo e penetrante è giustificato dal dilagare sempre più preoccupante del fenomeno della collusione mafia/politica e dalle sue inevitabili ricadute negative sull’ordine pubblico e la sicurezza collettiva.
La mafia, infatti, negli ultimi tempi, mostra tendenze “tentacolari” ed intrusive, manifestando una spiccata abilità nell’ingerirsi nei tessuti più profondi dell’ordinamento, contaminando l’economia, la sicurezza pubblica nonché la politica. Pertanto, di fronte ad una criminalità organizzata che si presenta sempre più capace di infiltrarsi nei meandri dello Stato, la risposta dell’ordinamento deve essere sempre più marcata e reattiva, nonché multidirezionale.
Infatti, l’ordinamento, oltre a predisporre adeguati strumenti penali, reagisce anche con controlli di tipo amministrativo, tra i quali, come si è accennato, quello di maggior spessore è senza dubbio il decreto di scioglimento dei consigli comunali e provinciali per infiltrazioni mafiose, laddove l’infiltrazione sia stata così penetrante da compromettere la stabilità del sistema e l’idoneità al governo della “res publica”.
Ed invero, nonostante le nobili e sicuramente meritevoli esigenze che giustificano tale provvedimento, è inevitabile la sua incidenza sui diritti inviolabili costituzionalmente garantiti: non soltanto il diritto di accedere alle cariche elettive (art. 51 Cost.), ma anche il diritto di voto ex art. 48 Cost., che verrebbe sicuramente vulnerato da uno scioglimento coattivo di un organo che la volontà democratica popolare aveva scelto e dal quale si sentiva rappresentata.
Proprio per tali ragioni, è indispensabile scrutinare attentamente le forme di tutela esperibili avverso il decreto di scioglimento in oggetto, qualora si pretenda illegittimo e lesivo.
Ma, a tal fine, è dapprima doveroso indagare il fondamento, anche costituzionale, di tale decreto, i presupposti legittimanti nonché la natura giuridica, poiché sono tutte tematiche che influenzano gli strumenti di tutela esperibili.
Procedendo con ordine, non soltanto si è faticato ad individuare un fondamento costituzionale a tale forma di controllo sugli organi, ma si è addirittura dubitato della sua legittimità. Lo scioglimento, infatti, oltre ad arrecare nocumento alla rappresentatività democratica, colpisce l’intero consiglio e quindi anche quei consiglieri che, in realtà, non sono collusi con la criminalità.
Ebbene, la Corte Costituzionale ha individuato il fondamento e, dunque, la legittimità di tale misura, nella tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica, nonché nel buon andamento e nella legalità dell’agire amministrativo, ex artt. 2 e 97 Cost.
Se così è, allora, il decreto di scioglimento non viola la volontà popolare, ma, viceversa, la tutela, poiché se il consiglio comunale/provinciale è contaminato dall’influenza criminale può assicurare una gestione della “res publica” disfunzionale e distorta. L’Ente, dunque, non è idoneo a soddisfare le esigenze del bacino d’utenza, poiché ha piegato la funzione amministrativa ai bisogni della mafia.
Or dunque, il provvedimento di scioglimento è funzionale al ripristino della legalità violata.
Ancora, la Consulta ha chiarito che tale decreto, proprio per la sua gravità, deve rappresentare l’”extrema ratio” e, dunque, emanarsi soltanto laddove la contaminazione mafiosa sia così radicata da non potersi porre rimedio con provvedimenti più flessibili, per esempio la sospensione o la revoca di singoli amministratori.
Infine, il decreto deve essere giustificato da una contaminazione reale e non meramente ipotetica, suffragata da un riscontro obiettivo nonché da una adeguata motivazione.
Ebbene, anche il legislatore sembrerebbe aver aderito a tale orientamento, rivolto al bilanciamento di tutte le esigenze coinvolte.
Il T.U.E.L., infatti, prevede all’art. 141 le cause “ordinarie” di scioglimento e sospensione dei consigli comunali e provinciali, da ravvisarsi, per esempio, nel compimento di atti contrari alla Costituzione. L’art. 143, invece, prevede le ipotesi di scioglimento dei consigli comunali e provinciali “fuori dai casi previsti dall’art. 141”, individuando i presupposti nonché un articolato iter procedimentale di emanazione del decreto di scioglimento per infiltrazioni mafiose.
In sintesi, il prefetto, al fine di verificare la sussistenza del condizionamento, deve disporre ogni opportuno accertamento, potendo promuovere anche l’accesso all’ente interessato, nominando, in tal caso, una commissione di indagine. Entro il termine stabilito, il prefetto invia una relazione al Ministro dell’Interno con cui si dà conto dell’eventuale sussistenza del condizionamento. Lo scioglimento è disposto con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri ed è immediatamente trasmesso alle Camere. Nella proposta devono essere indicati analiticamente le anomalie riscontrate e i provvedimenti adottati per rimuovere gli effetti più gravi per l’interesse pubblico; altresì, devono essere indicati gli amministratori responsabili delle condotte che hanno causato lo scioglimento. Ancora, anche qualora non venga disposto lo scioglimento ma emergano elementi di collegamento con la criminalità, viene adottato ogni provvedimento utile a far cessare immediatamente il pregiudizio e a ricondurre a normalità la vita amministrativa dell’ente.
Infine, per completezza, si dà atto della recente L.132/2018 che ha previsto che gli amministratori che hanno causato lo scioglimento non possono essere candidati alla camere dei Deputati, al Senato della Repubblica, al Parlamento Europeo, alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali, in relazione ai due turni elettorali successivi allo scioglimento, qualora l’incandidabilità venga dichiarata con provvedimento definitivo.
Ebbene, analizzato l’iter procedimentale, occorre vagliare attentamente i presupposti che giustificano l’emanazione del decreto ai sensi dell’art. 143 comma 1° T.U.E.L.
La norma, infatti, richiede non semplici sospetti o congetture, ma l’emersione di elementi “concreti, univoci e rilevanti” su collegamenti da parte degli amministratori con la criminalità mafiosa oppure l’esistenza di forme di condizionamento. Pertanto, gli elementi devono essere non ipotetici ma reali e passibili di riscontro empirico (“concreti”), devono poter assumere come unico significato possibile il collegamento o il condizionamento (“univoci”) ed essere idonei a creare tali forme di collegamento o di condizionamento (“rilevanti”). Tra l’altro, il collegamento o il condizionamento non hanno rilevanza “in re ipsa”, ma devono essere tali da determinare “un’alterazione del procedimento di formazione della volontà dell’organo” e anche da comprometterne “il buon andamento e l’imparzialità” oppure “da arrecare grave e perdurante pregiudizio alla sicurezza pubblica”.
Solo in presenza di tali rigidi presupposti il decreto di scioglimento potrà dirsi giustificato dal ripristino dell’interesse pubblico violato, dovendosi riconoscere, altrimenti, il potere degli amministratori di attivare gli adeguati mezzi di tutela.
Ed invero, come si è già accennato, l’esatta individuazione dei mezzi di tutela esperibili è influenzata dalla natura giuridica di tale atto.
In modo particolare, occorre preliminarmente chiarire se si sia in presenza di un atto politico (e come tale sottratto al sindacato giurisdizionale) oppure di un atto di alta amministrazione, che, com’è noto, funge da “cerniera” tra gli atti politici e gli atti amministrativi in senso stretto, pur essendo sottoposto al regime di questi ultimi.
La sottile differenza viene solitamente individuata in base ad indici oggettivi e obiettivi. Innanzitutto nel carattere dei fini perseguiti, che è libero nell’atto politico e vincolato alla causa attributiva del potere nell’atto di alta amministrazione.
In secondo luogo, nella natura dell’interesse da realizzare, che è generale nell’atto politico e settoriale nell’atto di alta amministrazione.
Applicando quanto esposto al decreto di scioglimento, anche se, come si vedrà, la PA (nella persona del prefetto) gode di un’ampia discrezionalità nella valutazione della natura indiziante degli elementi raccolti, essa è comunque vincolata al perseguimento dell’interesse pubblico nonché a quegli elementi “concreti, univoci e rilevanti” che hanno comportato un’obiettiva perdita di rappresentatività dell’ente.
Ancora, l’interesse perseguito ha natura settoriale e non generale, in quanto è da individuarsi nell’interesse alla legalità di quello specifico comune o di quella specifica provincia e, quindi, nel corretto funzionamento di quella amministrazione.
Pertanto, tale decreto va ascritto ai provvedimenti di alta amministrazione.
Ed ancora, una volta acclarata la natura giuridica, va chiarito se esso si atteggi come provvedimento preventivo o sanzionatorio.
L’opinione dominante ne sostiene con convinzione la natura preventiva e cautelare.
Infatti, ai fini dell’emanazione del decreto non è richiesto il compimento di reati oppure l’esistenza di provvedimenti penali definitivi, bensì la sussistenza di collegamenti o condizionamenti con gruppi criminali tali da ingenerare il fondato timore che la funzione del consiglio venga turbata e, quindi, che esso non si presenti idoneo ad amministrare il territorio con obiettività ed in modo univocamente finalizzato alle esigenze della collettività.
Ebbene, come si è detto, la natura giuridica influenza le forme di tutela esperibili avverso il decreto.
In via principale, la natura preventiva, come si è detto, non richiede provvedimenti penali definitivi, ma elementi indizianti l’avvenuta infiltrazione, da accertare, tra l’altro, non in base al criterio penalistico dell’ “oltre ragionevole dubbio” ma in base a quello, civilistico, del “più probabile che non”.
Ancora, se è un atto di alta amministrazione, è sindacabile dal G.A., seppur con il limite della discrezionalità amministrativa, nonché sottoposto ai principi della L. 241/90.
In via principale, il privato è tutelato dall’obbligo di motivazione (art.3 L. 241/90) che si atteggia particolarmente stringente, quasi a compensare la forte discrezionalità della quale la PA gode. Pertanto, l’autorità prefettizia deve dare atto dell’esistenza di indici probanti reali e, soprattutto, di come essi comportino l’impossibilità per i governati di essere adeguatamente rappresentati, così intervenendo, ove possibile, anche prima che il buon andamento venga compromesso definitivamente e irrimediabilmente. Per esempio, possono essere bastevoli anche legami d’amicizia o di parentela con gli appartenenti alla cosca, purché, però, si siano tradotti in una subdola forma di condizionamento o di controllo.
Ancora, anche episodi risalenti nel tempo possono giustificare il decreto, purché emerga un quadro probatorio che faccia ragionevolmente deporre per l’attualità e la persistenza dell’infiltrazione.
Infine, occorre precisare che non è richiesto, in sede di motivazione, un esame puntuale, spasmodico e frazionato di tutti i singoli elementi raccolti, ben potendo la PA dare atto di un quadro probatorio complessivo ed unitario “inquinante” globalmente considerato.
Altresì, occorre domandarsi, acclarata la natura di atto di alta amministrazione, se possa trovare applicazione l’obbligo di avviso dell’inizio del procedimento ex art. 7 L.241/90. Ed invero, la natura preventiva e cautelare del decreto osta all’applicazione della norma, perché tale avviso ne rallenterebbe i tempi di emanazione, vulnerando quindi le esigenze di celerità e speditezza al fine o di evitare la compromissione dell’interesse pubblico oppure di bloccare tempestivamente un’aggressione già in atto al predetto interesse.
Ciò posto, esaminate le garanzie procedimentali a favore dei soggetti incisi dal decreto, occorre concentrare l’attenzione sui mezzi di tutela esperibili contro un provvedimento di scioglimento ritenuto lesivo e illegittimo.
Se è da considerarsi un atto amministrativo, per quanto espressione di “alta amministrazione”, allora esso è impugnabile innanzi al G.A. ai sensi degli artt. 103 e 113 Cost., 21-octies L.241/90 e 30 cpa.
In modo particolare, il consigliere ne potrà chiedere l’annullamento per violazione di legge qualora ritenga l’atto emanato in mancanza dei presupposti, oppure, come avviene più frequentemente, per eccesso di potere, sub specie di carenza di istruttoria e di motivazione.
Con la precisazione, però, che venendo in rilievo la discrezionalità amministrativa e non versandosi nelle tassative ipotesi di giurisdizione estesa al merito, il G.A. potrà esercitare solamente un sindacato di tipo debole, estrinseco ed assolutamente non sostitutivo. Pertanto, il G.A. potrà valutare soltanto la laconicità dell’istruttoria, oppure l’illogicità, l’irragionevolezza o la contraddittorietà della motivazione, o, ancora, la scarsità dell’impianto motivazionale laddove emerga un quadro indiziante carente o insufficiente.
Ancora, il destinatario del decreto potrà avanzare richiesta di risarcimento del danno, seppur con le dovute precisazioni. Innanzitutto, il danno risarcibile va individuato nel vulnus non patrimoniale subito dal proprio diritto all’onore, nonché nell’eventuale danno patrimoniale riportato, da ravvisarsi, per esempio, nelle spese sostenute per il ripristino della propria immagine.
Ancora, il danno non è una conseguenza automatica della caducazione del decreto, dovendo provarsi la ricorrenza degli elementi dell’illecito ex art. 2043 cc, ossia il predetto danno, nesso di causalità e colpa.
Con riguardo alla colpa, come noto, l’opinione dominante ritiene che la violazione grave e manifesta di una norma di legge integri una presunzione di colpa della PA, spettando a quest’ultima la prova dell’assenza di colpa per errore scusabile.
Tornando al caso di specie, il risarcimento va negato se il prefetto prova l’errore scusabile consistito in un quadro indiziario raccolto che fondava una plausibile e ragionevole valutazione circa l’infiltrazione mafiosa e il relativo condizionamento. Viceversa, il risarcimento va disposto se gli indizi erano così fumosi, labili ed inconsistenti da consentire una valutazione soltanto evanescente e non sufficientemente attendibile circa l’esistenza del condizionamento in base alle comuni regole di esperienza.
Infine, una recentissima pronuncia ha chiarito se tra le forme di tutela esperibili può rientrare anche l’azione popolare.
Come noto, il privato, con tale azione, può far valere l’interesse pubblico sostituendosi alla stessa PA rimasta inerte (azione suppletiva) oppure rimediare alla lesione all’interesse pubblico subita a causa dell’illegittimità posta in essere dalla PA (azione correttiva).
In modo particolare, ci si interroga sulla legittimazione dell’ex consigliere ad esperire l’azione popolare contro il decreto per far valere il vulnus subito dal consiglio o dalla provincia, sostituendosi ai medesimi.
La risposta del G.A. è stata negativa: l’Ente nel suo complesso non è stato vulnerato dal decreto ma dall’infiltrazione mafiosa. Il decreto, quindi, tutela l’Ente, perché dà atto dell’impossibilità di una sua corretta gestione.
Mancando, quindi, il vulnus all’interesse pubblico, difetta anche la legittimazione dell’Ente.
In conclusione, può sottolinearsi che, a fronte di un provvedimento gravoso come un decreto di scioglimento di un consiglio provinciale o comunale, i soggetti attinti non restano comunque sprovvisti di tutela. Con la precisazione che, qualora il provvedimento sia emanato in presenza dei presupposti richiesti ex lege e sia assistito da congrua motivazione, deve ritenersi legittimo, perché a tutela della legalità e dell’ordine pubblico, valori da considerarsi primari e mai sacrificabili.
G M