Il regime giuridico dei beni appartenenti a soggetti pubblici dopo i procedimenti di privatizzazione.

  Il regime giuridico dei beni appartenenti a soggetti pubblici dopo i procedimenti di privatizzazione.

di Silvia Grasselli

La disamina del regime giuridico dei beni attributi a società di diritto privato in esito ai processi di privatizzazione di enti pubblici deve necessariamente muovere da un’attenta riflessione sulle regole che l’ordinamento giuridico appresta in tema di beni cosiddetti pubblici.

Anzitutto, occorre rilevare come la dizione beni pubblici, seppur di uso corrente, possa apparire fuorviante, in quanto inidonea a descrivere la pluralità di discipline cui i beni suddetti possono essere sottoposti in ragione sia dell’appartenenza sia delle loro peculiari caratteristiche.

Ancorché, infatti, la stessa Costituzione Repubblicana all’art. 42 distingua i beni in pubblici o privati, gli artt. 822 e ss. del codice civile rivelano che i beni pubblici sono classificati in demaniali, patrimoniali indisponibili e patrimoniali disponibili.

Mentre i beni del patrimonio disponibile soggiacciono alle medesime regole previste per i beni appartenenti a privati (e quindi, salvo ipotesi specifiche, essi sono oggetto di libero godimento e ampia disponibilità), per i beni demaniali e patrimoniali indisponibili vigono regole particolari che, in ragione della loro importanza o funzione, ne limitano sia la circolazione sia l’utilizzazione.

In particolare, i beni del demanio necessario di cui all’art. 822 comma 1 non possono appartenere ad altri se non allo Stato o ad altri enti territoriali e quelli contemplati nel comma 2 (cosiddetto demanio accidentale), ancorché possano essere di proprietà privata, in ragione della mera appartenenza ai soggetti suddetti, soggiacciono al medesimo regime di inalienalibilità, incedibilità a terzi, inusucapibilità e inespropriabilità. Tali limitazioni vengono meno solo con la sdemanializzazione, che può essere , a seconda dei casi,  espressa o tacita.

Analogamente, i beni del patrimonio indisponibile (contemplati nell’art. 826 comma 2 e 3 c.c.), ancorché cedibili in godimento a terzi ed espropriabili per superiori ragioni di interesse pubblico, non possono essere né alienati né usucapiti in ragione della loro specifica destinazione a pubblico servizio. Solo quando detta funzionalizzazione cessa (per atto espresso o per comportamento concludente dell’Amministrazione), essi risultano nuovamente sottoposti alle regole civilistiche.

Invero, siffatta distinzione fra i beni pubblici è stata oggetto di critica dottrinale: si è rilevato, infatti, come essa non consenta di cogliere la ratio del sistema  e soprattutto le sue evoluzioni. Si è osservato, in realtà, che la vera linea di discrimine, anche alla luce delle leggi speciali ( si pensi alla disciplina dei beni paesaggistici e culturali), è quella funzionalistica: se il bene è destinato a soddisfare interessi di carattere superiore, ciò giustifica un regime (più o meno pervasivo) di vincoli; se, invece, il bene esprime un mero interesse individuale esso non può che essere assoggettato a libero godimento e disposizione.

La giurisprudenza, tuttavia, ha sempre riaffermato i criteri tradizionali di distinzione, rilevando che il regime dei beni discende dalla loro ascrivibilità alle categorie previste ex lege: ancorché, cioè, l’inquadramento sia suscettibile di assumere talora una certa elasticità, non è possibile ignorare il dato normativo.

La stessa Cassazione, chiamata a pronunciarsi sulla controversa natura delle valli da pesca nella Laguna di Venezia, ha ribadito il principio, rilevando che, tuttavia, è lo stesso legislatore, riguardo ai beni del patrimonio indisponibile, a consentire una piena valorizzazione della destinazione collettiva (e non meramente individuale) di un bene, anche in ragione della mutata percezione sociale.

Mentre, dunque, per i beni demaniali occorre fare riferimento alle ipotesi espressamente contemplate, la natura di bene del patrimonio indisponibile può essere desunta dalla specifica destinazione alla soddisfazione di bisogni superindividuali o percepiti come tali in un dato contesto di riferimento.

Tenendo fermo il dato normativo, tale pronuncia consente, dunque, di approcciare in chiave funzionalistica anche il problema relativo al regime dei beni, originariamente pubblici, trasferiti a enti regolati dal diritto privato nell’ambito dei processi di privatizzazione avviati a partire dagli anni ’90.

Come noto, infatti, nel secondo dopoguerra l’intervento dello Stato in economia era stato quanto mai pervasivo e si era concretizzato nella creazione di una serie di enti pubblici, cui erano stati demandati compiti variegati fra cui la creazione di infrastrutture (strade, ferrovie, reti elettriche e telefoniche eccetera) nonché il generico riavvio di attività industriali e commerciali (così per l’IRI, istituto per la riconversione industriale o per l’INA, l’istituto nazionale per le assicurazioni).

È indubbio che detti soggetti, promanazione dello Stato, abbiano proceduto  a consistenti investimenti finalizzati ad una ripresa dell’economia e che tali ingenti costi siano stati compensati (quanto meno in parte) dagli introiti derivati da un regime di gestione monopolistica dei servizi forniti (si pensi al servizio elettrico gestito dall’ENEL, all’ENI per l’energia o alla SIP per la telefonia).

Tale sistema è stato, tuttavia, posto in discussione a partire dagli anni ‘80 e via via eliminato nei decenni successivi.

Da più parti, infatti, si era caldeggiata la necessità che lo Stato ponesse termine alla sua funzione di interventore in economia (essendo venuto meno l’interesse di far ripartire il Paese), lasciando finalmente ai privati la possibilità di esercitare la loro libertà di iniziativa economica in un mercato concorrenziale, scevro da posizioni di privilegio divenute ormai discutibili.

Se, infatti, monopoli pubblici in determinati settori potevano essere giustificati  in precedenza dall’esigenza di assicurare i bisogni della collettività, dette ragioni non risultavano più sussistenti in un momento storico in cui le iniziative private apparivano pienamente idonee a soddisfare tali necessità.

A tali considerazioni, si aggiungeva la spinta sovranazionale per la creazione di un mercato economico comune europeo: tale processo, infatti, obiettivo della Comunità Economica Europea fin dalla sua creazione, risultava di fatto ostacolato da qualsivoglia limitazione interna al libero esplicarsi della concorrenza nonché dall’esistenza della mano pubblica nell’economia dei singoli Stati membri.

Per porre termine a tale anomala situazione di Stato regolatore e giocatore nel mercato, sono stati avviati anche in Italia i processi di privatizzazione, prima formale poi sostanziale, degli enti pubblici economici.

In un primo momento, infatti, attraverso apposite leggi (si pensi alla legge del 1992 su IRI,ENI,INA e ENEL) si è proceduto alla trasformazione degli enti in società per azioni e si è stabilito che, dopo la fissazione del capitale sociale iniziale con apposito decreto ministero, l’intera partecipazione azionaria spettasse al Ministero di riferimento (di regola quello del tesoro), quale articolazione dello Stato apparato: l’operazione, infatti, era finalizzata a consentire l’uso delle più agili forme societarie per procedere poi alla successiva dismissione del capitale sociale. Sono state così create ENEL s.p.a., ENI s.p.a., ferrovie dello stato s.p.a. eccetera.

Per esigenze di continuità nell’attività economica, si è previsto, tuttavia, che tali soggetti continuassero a svolgere la precedente attività, anche in regime di esclusiva, sulla base di una concessione. In tal modo, gli enti, da esplicazione diretta del soggetto pubblico, divenivano concessionari, cioè titolari di un rapporto (privilegiato) con la Pubblica Amministrazione ma in posizione di alterità soggettiva.

In un secondo momento e in maniera progressiva, è stata avviata la privatizzazione sostanziale, cioè l’uscita vera e propria dello Stato dall’economia: infatti, si sono cedute nel libero mercato molte delle partecipazioni detenute dai Ministeri con riguardo alle neonate s.p.a..

In tal modo, le società derivate dalla trasformazione sono state assoggettate per l’amministrazione e la gestione alle regole civilistiche.

Nonostante ciò, al soggetto pubblico sono comunque rimasti taluni poteri gestori o di controllo: essi, per lo più, consistono in facoltà connesse alla partecipazione azionaria (ancora) detenuta ma, talvolta, si tratta di facoltà assolutamente sui generis, svincolate dal mero dato quantitativo del capitale posseduto ( si pensi alla nomina dell’organo di vertice o al diritto di veto sulle decisioni strategiche) tanto che la dottrina  parla della cosiddetta golden share pubblica (cioè di un’azione d’oro).

Tale processo ha indotto, comunque, gli interpreti a domandarsi quali siano i mutamenti intervenuti con riguardo ai beni detenuti da tali società derivate dalla trasformazione di enti pubblici.

Bisogna, infatti, rilevare come, nel momento in cui tali soggetti avevano veste pubblicistica, non vi fossero dubbi sul fatto che i beni di cui erano proprietari (a fronte dell’assegnazione ex lege o della creazione/costruzione ex novo) fossero beni pubblici destinati a pubblico servizio e, pertanto, assoggettati al regime di cui all’art. 828 comma 2 c.c., quale norma atta a preservarne la funzione.

La sopravvenuta privatizzazione, però, ha posto in discussione l’assunto, in quanto beni come le infrastrutture stradali e autostradali, le reti (elettrice, energetiche e telefoniche) sono state conferite a soggetti diversi da enti pubblici.

Al fine di evitare dubbi sulla qualificazione e sulla relativa disciplina, il legislatore, nel momento in cui ha imposto le trasformazioni suddette, ha previsto delle regole ad hoc volte a evitare che beni di primaria importanza per lo sviluppo del Paese potessero essere oggetto di commercializzazione o distrazione dalla funzione loro propria, imponendo alle società proprietarie divieti di alienazione, obblighi di conservazione e mantenimento particolarmente cogenti e talora obblighi di miglioramento dei beni stessi.

A tali vincoli, tuttavia, hanno fatto spesso da contrappeso sensibili vantaggi: le società create, infatti, hanno molto spesso continuato a gestire servizi, produttivi di rilevanti introiti economici, in regime di esclusiva o comunque in una posizione di forza rispetto a altri (cioè nuovi) operatori economici. Si pensi a Autostrade s.p.a. e a Ferrovie italiane s.pa. oppure a ENI s.p.a. e Enel s.p.a.

A partire dagli anni 2000, tuttavia, anche la permanenza di tali posizioni di vantaggio in seno al mercato e soprattutto in settori sensibili quali quelli dei pubblici servizi ha destato l’attenzione della dottrina, della giurisprudenza e della legislazione, nazionale e sovranazionale.

Si è rilevato, infatti, come una vera attuazione del principio di concorrenza, non potesse prescindere da un’effettiva apertura anche di tali mercati a nuovi operatori economici (italiani ma soprattutto comunitari), non potendosi consentire la permanenza di regimi di maggior favore per taluni soggetti privati (salvo specifiche esigenze di interesse superiore, da valutare attentamente e di caso in caso).

Si è osservato, dunque, che, finché la proprietà di beni che consentono di fornire un servizio di interesse pubblico permane in capo allo stesso soggetto che lo gestisce, l’apertura del mercato è solo apparente.

Quel soggetto cioè, in ragione della proprietà di quel bene, sarà favorito e tenderà a escludere tutti coloro che vorranno fare ingresso nel mercato.

Costoro, infatti, potranno svolgere la medesima attività economica solo dopo ingentissimi investimenti per la creazione di infrastrutture o reti comparabili a quelle già possedute dai soggetti prima pubblici e ora privati, fornendo il servizio a costi di certo non competitivi per gli utenti finali.

Ci si è domandati, dunque, se questa “frizione” all’ingresso di nuovi operatori nei mercati, che sussiste sempre ma diviene di fatto paralizzante nelle attività in cui si generano forti economie di scala e che richiedono apparati infrastrutturali capillari e costosi, sia compatibile con la logica che aveva giustificato l’intervento pubblico nel dopoguerra.

Poiché era stato il soggetto pubblico a creare o rendere moderni quegli apparati, non è apparso né equo né compatibile coi principi comunitari che solo determinati soggetti (privati) finissero per trarre profitto da tali investimenti pubblici.

Nell’ottica, dunque, di favorire i fruitori dei servizi e cioè i cittadini stessi, con norme ad hoc si è provveduto a creare un sistema che consentisse effettivamente l’ingresso di nuovi operatori economici in tali mercati attraverso un processo che è stato definito di separazione fra la titolarità della rete e la gestione del servizio.

La legislazione ha obbligato, infatti, le grandi s.p.a. nate dalle privatizzazioni degli anni ’90 a conferire i beni infrastrutturali di cui erano titolari a distinte società, anch’esse di diritto privato, create proprio per gestire, mantenere o concedere a terzi in uso le reti necessarie per l’espletamento di un servizio di pubblico interesse e di rilievo economico.

Così, per esemplificare, Enel S.p.a ha creato Terna s.p.a. cui sono state attribuite tutti gli apparati atti all’approvvigionamento dell’energia e Ferrovie dello Stato s.p.a. ha costituito Rete Ferrovie Italiane s.p.a., proprietaria di larga parte delle strade ferrate sul territorio nazionale.

Si potrebbe, pensare, dunque che, con tale operazione, vi sia stata la terza privatizzazione: cioè la sottoposizione definitiva anche delle reti alle logiche privatistiche dell’appartenenza e della libera disponibilità.

Invero, occorre dire che la separazione suddetta, resasi necessaria per garantire l’utilizzo delle infrastrutture anche a operatori diversi dalle partecipate statali, è stata circondata da una serie di cautele atte a evitare comunque che la funzionalizzazione di tali beni ai bisogni (divenuti) imprescindibili dei cittadini potesse venire meno.

Si è stabilito, infatti, seppur con previsioni diverse di caso in caso, che le reti (elettriche, telefoniche, ferroviarie ect.) siano inalienabili e che le società proprietarie siano gravate, invece, dell’onere di mantenerle, migliorarle e gestirle, anche attraverso la concessione (onerosa) in godimento a uno o più operatori economici per l’ erogazione di servizi, secondo principi di trasparenza e non discriminazione.

Il peculiare regime giuridico dei beni suddetti ha giustificato anche l’attribuzione di poteri sui generis, tradizionalmente pubblicistici: i gestori delle reti hanno, infatti, il potere di espropriare aree per ragioni di pubblico interesse nonché di espletare gare per individuare la/le controparti legittimate a ottenere l’affidamento per lo svolgimento del servizio.

Ad uno sguardo d’insieme, si può affermare, dunque, che la vocazione del bene alla soddisfazione di interessi generali, pur non essendo tale da consentire di qualificarlo come pubblico in senso stretto in ragione dell’appartenenza a soggetto formalmente privato, non impedisce e anzi giustifica un regime vincolistico assimilabile a quello normalmente previsto per i beni del patrimonio indisponibile.

È, allora, corretto concludere che, a prescindere dall’appartenenza pubblica o privata, il bene rimane assoggettato ad una disciplina tale da garantire e conservare la piena funzionalizzazione ai bisogni della collettività.

Si potrebbe, allora, ipotizzare che la vicenda relativa ai beni degli enti pubblici poi privatizzati induca a ritenere esistente un tertium genus di beni, intermedio fra quelli pubblici e quelli privati, cioè quello dei beni destinati (a una funzione di interesse generale).

Invero, ad una simile conclusione è possibile solo pervenire in linea descrittiva: è chiaro, infatti, che l’apposizione di vincoli e limiti alla circolazione e all’uso dei beni, ancorché appartenenti a privati, è pienamente compatibile con lo stesso disposto della Costituzione.

Ciò non giustifica, tuttavia, creare un tertium genus.

Non bisogna dimenticare, infatti, che l’art. 42 comma 2 Cost., nel sancire la potestà legislativa di conformazione della proprietà privata, assume quale criterio orientatore quello dell’utilità sociale.

In tale ottica non è possibile negare che peculiari regimi possano giustificarsi in ragione delle specifiche caratteristiche di un bene, laddove esse siano tali da renderlo diverso da altri e ascriverlo entro una determinata categoria ritenuta meritevole di disciplina ad hoc.

In tal senso, la vicenda dei beni trasferiti a società per azioni in esito alla privatizzazione non appare molto diversa da quella relativa ai beni culturali.

Come noto, infatti, anche i beni culturali, in quanto facenti parte del demanio accidentale, possono essere sia di dominio pubblico che privato: questo non significa, però, che il proprietario di un immobile riconosciuto di pregio storico e artistico possa comportarsi alla stregua di un qualsiasi proprietario.

Il codice dei beni culturali (d.lgs. 42/2004) pone, infatti, una serie di limitazioni circa gli interventi realizzabili sul bene, talora vietandoli, talora sottoponendoli a controllo amministrativo nonché prevede un’apposita disciplina per l’alienazione del bene culturale da parte di un privato in modo da consentire allo Stato e agli enti pubblici territoriali l’esercizio della prelazione.

Da tali brevi considerazioni si trae come il regime  del bene non possa essere dedotto sic et simpliciter dalla natura del soggetto cui appartiene; la disciplina cui è assoggettato dipende, infatti, da un insieme di fattori fra cui acquistano indubbia preminenza le specifiche caratteristiche che il bene possiede e le esigenze che esso è atto a soddisfare.

Un conto è, dunque, la titolarità del bene; un altro conto è la disciplina cui esso è sottoposto.

Alla luce di tale ratio vanno esaminate tutte le norme di dettaglio, stratificatesi nelle diverse leggi intervenute in materia, volte a definire il peculiare regime giuridico dei beni conferiti agli enti pubblici poi trasformati in s.p.a.

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