IL RUOLO DEL TERZO NEL GIUDIZIO AMMINISTRATIVO

 

IL RUOLO DEL TERZO NEL GIUDIZIO AMMINISTRATIVO

 autore Silvia Riccetti

Il ruolo esplicato dal terzo all’interno del giudizio amministrativo vede un’evoluzione e una maggiore considerazione in parallelo alle mutate sembianze assunte dal giudizio stesso.

Rispetto a quest’ultimo risulta subito evidente la divergenza con la figura del terzo evocata nel giudizio civile e penale.

Il concetto di terzo, infatti, pur invocando una medesima idea di fondo, ovvero quella dell’estraneità di un soggetto rispetto alle parti in giudizio, finisce per assumere sfumature diverse a seconda della sua esatta collocazione.

Nel giudizio penale, invero, la posizione del terzo è difficilmente individuabile: al più l’idea di un soggetto estraneo ai fatti, in qualche modo interessato, sia pure in via mediata, ovvero per le conseguenze civili che il fatto criminoso può aver prodotto, è la parte civile.

Già questa emersione dei profili civilistici, tuttavia, rende giustizia del fatto che di “terzi” propriamente tali, è dato discutere solo nel giudizio civile.

Questo, essendo un giudizio di parti in cui viene condensata una vicenda biunivoca, ben ammette l’esistenza di terze persone, estranee ai soggetti tra i quali è intercorsa la singola quaestio iuris, che abbiano comunque un interesse riflesso, o collaterale, a quello dell’attore e del convenuto.

L’idea del terzo nata in sede civilistica, d’altra parte, informa di sé anche quella veicolata nel giudizio amministrativo: qui, infatti, ogni qual volta si discuta di terzi, lo si fa recependo gli istituti processual-civilistici a tutela di questi ultimi.

Il giudizio amministrativo, in realtà, per la caratura dei soggetti che lo animano e dell’oggetto su cui verte, ben si presta ad accogliere la figura dei terzi, ma lo fa in modo anomalo, ricomprendendoli tra le parti stesse.

Ci si riferisce alla posizione dei controinteressati. Sono questi, infatti, ad assumere la qualifica di terzi in tutti i casi in cui si faccia riferimento a tale concetto; purtuttavia, da sempre, essi vengono classificati formalmente come parti necessarie, accanto al ricorrente e al resistente.

Nel giudizio amministrativo è assente quella vicenda biunivoca e confinata, come per la gran parte dei casi, in un rapporto contrattuale; ci si trova di fronte, diversamente, ad un’estensione della platea dei soggetti coinvolti data dalla presenza di un soggetto pubblico.

Il raggio dei poteri della P.A., e ormai anche dei comportamenti che da questi scaturiscono, è tale da rendere diverso e proteiforme il concetto stesso di parte.

Riferendosi alle parti necessarie, infatti, accanto alle due che prima facie rilevano quali ricorrente e P.A. resistente, viene introdotta la posizione dei controinteressati, tanto in senso formale quanto sostanziale.

Formalmente sono coloro ai quali viene notificato il ricorso, mentre sostanzialmente risultano coloro che vantano un interesse attuale e di segno contrario a quello perseguito dal privato. Se si immagina dunque la classica vicenda condensata nel giudizio amministrativo, ovvero l’annullamento di un provvedimento asseritamente illegittimo, l’interesse di cui è titolare il controinteressato coinciderà proprio con la conservazione del predetto atto.

Si è fatto notare, tuttavia, come l’idea di parte necessaria sia un concetto relativo e parziale: perché si dia avvio al giudizio, strutturato nelle forme della “vocatio iudicis”, è realmente necessaria solo la posizione del ricorrente.

L’idea di terzo, tuttavia, filtra anche nella categoria delle cosiddette “parti eventuali”: ci si riferisce, con tale locuzione, ai cointeressati e agli interventori. Se i cointeressati risultano coloro che sono dotati di un interesse speculare a quello del ricorrente principale, gli interventori, per contro, sono coloro che più si avvicinano all’idea di terzo processual-civilistica.

La figura dell’interventore è stata meglio definita, rispetto alla Legge Tar, proprio dal Codice del processo amministrativo, mediante la disciplina agli artt. 28, 50, 51 dell’intervento giudiziale come forma di tutela del terzo.

Il terzo controinteressato, infatti, può risultare pregiudicato almeno sotto un triplice aspetto.

Da un lato può risultare meramente pretermesso. Il ricorrente principale in sostanza ha omesso la notificazione del ricorso nei suoi confronti, sempre che per potersi ammettere il ricorso medesimo ai sensi dell’art. 27 comma 2 c.p.a., vi sia stata l’evocazione di almeno uno dei controinteressati. In tal caso sarà il giudice ad ordinare, ex art. 49 comma 2 c.p.a., l’integrazione del contraddittorio nei suoi confronti.

Il controinteressato, tuttavia, può risultare altresì sopravvenuto. E’ in ciò che si percepisce l’evoluzione del modo di intendere il giudizio amministrativo, quale vicenda incentrata più che sull’atto sic et simpliciter, sullo stesso rapporto, nel suo svolgersi cronologico.

Ebbene nel dipanarsi di quest’ultimo è possibile che il controinteressato assuma tale status solo successivamente, per effetto di un provvedimento ulteriore conseguente alla conclusione di un procedimento autonomo.

Ad esso, al pari del controinteressato occulto, deve essere garantita una forma di tutela che gli consenta l’ingresso nel giudizio, una volta che è già incardinato ed avanzato, senza che tale successiva entrata lo collochi in una posizione svantaggiosa.

Occulto è il controinteressato sostanzialmente tale ma difficilmente individuabile. Non sempre, infatti, risulta agevole identificare il terzo nell’ambito di un giudizio, quale per l’appunto quello amministrativo, dotato di una potenziale vis expansiva.

Un problema di questo tipo si è posto con riguardo agli atti amministrativi generali e regolamentari, quali il P.R.G. In tal caso, da una parte della giurisprudenza si negava la possibilità di riconoscere ex ante l’esistenza di soggetti terzi in senso stretto, non essendo possibile compiere a priori una valutazione sull’interesse del terzo alla conservazione dell’atto. Il rischio, inoltre, veniva visto nello svilimento totale dell’idea dell’intangibilità del giudicato.

Altra parte della dottrina e della giurisprudenza, contrariamente, ammette l’individuabilità di terzi pur a fronte di atti generali, facendo leva sull’indagine relativa all’utilità che questi possono trarre dalla sentenza conclusiva del giudizio.

Nell’ipotesi di controinteressati sopravvenuti e, più in particolare pretermessi, dunque, le chances di tutela da questi esperibili si indirizzano su due fronti.

In primo luogo, come si anticipava, è ammessa ed espressamente codificata la possibilità di intervenire.

L’art. 28 c.p.a. individua tre tipi di intervento: uno attuabile (comma 1) dalle  “parti” non intimate, nel significato atecnico che il termine “parte” assume; uno di tipo volontario (comma 2) e un terzo (comma 3; art. 51 c.p.a.) iussu iudicis.

L’intervento volontario può essere sia “ad adiuvandum”, ovvero a sostegno dei motivi addotti in via principale, qualora vi sia un interesse mediato e riflesso ad annullare l’atto; sia “ad opponendum”, in una direzione opposta al ricorrente principale, in quanto l’interesse mediato e riflesso è alla conservazione dell’atto.

L’intervento avviene con l’accettazione dello stato e del grado in cui si trova il giudizio. Tale precisazione è sintomatica del carattere accessorio dell’intervento, soprattutto ad adiuvandum, dovendo l’interventore attenersi alle sorti del ricorso principale, rispetto al quale vi è un divieto sia di modificazione dell’oggetto che di ampliamento dei motivi.

Il terzo comma, invece, prevede l’ipotesi dell’intervento per ordine del giudice, strutturato sulla falsariga degli artt. 106 e 107 c.p.c.  Nell’ordinare l’intervento il giudice individua gli atti da notificare all’interventore e il termine entro cui esso deve svolgersi, la prescrizione del quale determina l’improcedibilità del ricorso.

Rimedio più drastico è rappresentato invece dall’ulteriore chance dell’opposizione di terzo prevista dall’art. 108 c.p.a.

Anche in tal caso la previsione nasce sulla scia dell’analogo istituto di cui all’art. 404 c.p.c., nell’intento di colmare la lacuna che in precedenza caratterizzava il giudizio amministrativo.

La Corte Costituzionale con la sentenza n. 177/1995 si è pronunciata sul punto dichiarando la illegittimità costituzionale delle previsioni della Legge Tar nella parte in cui non consentivano il rimedio dell’opposizione di terzo in sede amministrativa.

Così facendo, infatti, si veniva a creare un’evidente disparità di tutela tra interessi legittimi e diritti soggettivi, con violazione degli artt. 24 e 113 Cost. L’unica possibilità che si riconosceva ai soggetti pregiudicati, non partecipanti al giudizio, era l’appello: al di là di ciò, ove fosse intervenuto il giudicato, non veniva concessa alcuna tutela a coloro che, ignari del ricorso, si trovassero a subire gli effetti sfavorevoli della sentenza.

E’ per questo che il Consiglio di Stato ha sollevato la questione di legittimità costituzionale degli artt. 28 e 36 L. Tar, sollecitando la pronuncia della Consulta.

Con questa, infatti, il rimedio straordinario dell’opposizione di terzo viene riconosciuto a favore dei controinteressati pretermessi, sopravvenuti, ignoti, nonché per i soggetti che siano rimasti estranei al rapporto processuale e ciononostante dispongano di una situazione giuridica autonoma e incompatibile con quella del ricorrente principale.

Si escludono del tutto i cointeressati, i quali avrebbero dovuto al più proporre un autonomo ricorso principale, e i titolari di interessi di mero fatto e di situazioni giuridiche derivate.

Sebbene la Corte Costituzionale, nell’ammettere l’istituto, lo avesse concepito solo avverso le sentenze passate in giudicato, la giurisprudenza successiva si è spinta ad ammetterlo anche contro le sentenze meramente esecutive.

Soluzione, questa, che da un alto si propone l’obbiettivo di assicurare una maggior tutela al litisconsorte necessario pretermesso, ma dall’altro rischia di dar vita ad un possibile contrasto tra giudicati nonché ad interferenze rispetto alla proponibilità dell’appello.

Piuttosto che procedere ai sensi dell’art. 108 c.p.a., il terzo può dispiegare intervento nel giudizio di appello, pur derogando al generico divieto di intervento in tale ambito previsto, al fine di evitare una eccessiva dilatazione dei termini decadenziali per le impugnazioni.

Viceversa, può accadere che il controinteressato risulti tale ex post, nelle more del giudizio di primo grado, trovandosi così davanti alla scelta tra appello e opposizione di terzo.

Come nel modello civilistico, viene mantenuta la distinzione tra opposizione ordinaria (comma 1) e revocatoria (comma 2), quest’ultima riconosciuta ad aventi causa e creditori di una parte. Quella ordinaria, per contro, è esperibile da terzi che, alla stregua del primo correttivo al codice, non sono più tenuti ad allegare l’autonomia e l’incompatibilità della propria posizione rispetto al ricorrente in via principale.

Né tale prova deve vertere sulla prevalenza della medesima posizione nel confronto con il ricorrente principale.

Si noti come, infatti, nel giudizio amministrativo la valutazione di prevalenza è solitamente effettuata in una fase antecedente, nel momento procedimentale, a differenza di quanto accade nel giudizio civile.

Qui il conflitto biunivoco tra le parti è risolto per l’appunto in base a criteri di prevalenza tra situazioni giuridiche soggettive.

Ciò spiega il perché di un’ulteriore differenza tra l’istituto previsto dall’art. 404 c.p.c. e quello di cui al 108 c.p.a

Il primo, infatti, è un rimedio straordinario e facoltativo, da proporre in alternativa al giudizio principale.

In sede amministrativa, per contro, pur se drastico, rappresenta una soluzione “obbligata” sol se si pensa al tipico oggetto del giudizio amministrativo.

Vertendo su un provvedimento, la pronuncia costitutiva di annullamento dello stesso ha efficacia “erga omnes”, ovvero nei confronti di quanti siano interessati da esso. Ne discende che l’intervenuto giudicato preclude al terzo qualsiasi altra possibilità rimediale.

Una considerazione, questa, come si diceva strettamente legata sia all’interpretazione originaria del rimedio, possibile solo avverso sentenze passate in giudicato, e alla struttura tradizionale del giudizio amministrativo, di tipo impugnatorio- caducatorio.

Ma una tale configurazione, ad oggi, non risulta più l’unica ipotizzabile.

La riconosciuta atipicità delle azioni amministrative e l’ampliamento della categoria delle stesse, ben oltre il solo annullamento, ha risentito della necessità, per l’appunto, di assicurare una tutela effettiva ai terzi latu sensu intesi.

L’evoluzione dell’oggetto del giudizio, verso il rapporto, non si percepisce solo con riguardo alla delineazione di varie tipologie di controinteressati.

Il riferimento, in particolare, è all’azione di accertamento, oggi ammessa dopo molteplici incertezze giurisprudenziali.

E’ stata proprio la posizione del terzo ipoteticamente leso da una D.I.A. a far sorgere la necessità di individuare un rimedio diverso e ulteriore rispetto ai tradizionali, al contempo satisafttivo per lo stesso.

Il privato controinteressato che si lamenta degli effetti sfavorevoli derivanti da un’attività intrapresa sulla base di una D.I.A. illegittima risulta avere pochi margini di manovra.

Poco efficace è la via della diffida alla P.A. volta a sollecitare il suo potere di autotutela; parimenti è improponibile un’azione impugnatoria avverso la D.I.A. in quanto atto privato di liberalizzazione.

L’unico modo per tutelare adeguatamente la posizione del terzo è un’azione di accertamento autonomo volta a constatare, da parte del G.A., la mancanza dei presupposti legittimanti l’attività intrapresa.

Accertamento cui farà seguito l’obbligo per la P.A. di rimuovere gli effetti della condotta lesiva posta in essere dal privato.

Ancora, il ruolo del terzo è preso in considerazione altresì in sede di ottemperanza.

Qui, invero, vi sono soluzioni discordanti sul tipo di rimedio attivabile dallo stesso, a seconda del carattere di cui si ritiene dotato il giudizio di ottemperanza.

Ritenerlo dotato di natura cognitoria, infatti, renderebbe del tutto possibile esperire l’opposizione di terzo ordinaria avverso le sentenze emesse in esito allo stesso.

Concludere per il carattere eminentemente esecutivo del relativo giudizio, invece, obbligherebbe a percorrere la strada dell’opposizione di terzo all’esecuzione di cui all’art. 619 c.p.c.

Molto dipende, in realtà, dal tipo di statuizioni adottate dal giudice in sede di ottemperanza: ove queste siano rivolte alla determinazione della portata nonché dei limiti dell’obbligo attuativo della P.A., è difficile negarne attitudine cognitoria escludendo l’esperibilità dell’opposizione di terzo.

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