Il superamento del modello di amministrazione gerarchizzata con particolare riferimento al sistema dei controlli sugli atti amministrativi

Il modello di amministrazione disegnato ai tempi di Cavour ed esteso, poi, all’Italia unita, fondato su una struttura burocratica fortemente accentrata e gerarchizzata, è sopravvissuto fino ai primi anni ‘90 del ‘900.

Tale modello di amministrazione si sostanzia in un sistema nel quale i diversi plessi amministrativi dipendono dal Ministro, che costituisce il vertice della gerarchia; sicché, il Ministro è a capo dell’amministrazione, la sovraintende e ne controlla l’attività mediante l’esercizio del potere d’ordine, così come controlla gli atti amministrativi.

Questo modello burocratico presuppone la compenetrazione tra politica e amministrazione: i due piani si confondono nell’alveo di un ordine nel quale l’Amministrazione, facente capo al Ministro, rientra nello schema di responsabilità democratica, ovvero nel circuito Parlamento-Governo. In particolare, il Governo è responsabile del suo operato davanti al Parlamento, organo rappresentativo democraticamente eletto, e i ministri sono individualmente responsabili degli atti dei rispettivi dicasteri, secondo quanto previsto dall’art. 95 Cost.

La Costituzione sembra, dunque, da una parte sposare un’accezione di Pubblica amministrazione intrinsecamente connessa al Potere politico, secondo la logica della responsabilità collegiale dei ministri per gli atti imputabili al Governo e della loro responsabilità individuale per gli atti ascrivibili in capo ai singoli dicasteri, nell’ambito di una struttura gerarchizzata e verticistica.

Inoltre, il modello cavouriano dell’amministrazione porta con sé una serie di precipitati: in prima battuta, il rapporto di gerarchia in senso proprio che intercorre tra organi individuali, quale il rapporto tra ministro e direttore generale, determina la sussistenza in capo all’organo sovraordinato del potere di avocazione delle funzioni attribuite all’organo subordinato dal punto di vista gerarchico.

Il potere di avocazione si presenta come un potere discrezionale, che, in accordo con tale modello burocratico è nella disponibilità del superiore gerarchico e, talvolta, viene usato in situazioni di urgenza.

Pertanto, l’esercizio di tale potere rappresenta la regola in un apparato centralizzato, gerarchico e che assomma nel ministro il potere politico e amministrativo; non è necessaria una legge che lo attribuisca.

Un ulteriore corollario del modello di amministrazione gerarchizzata in esame consiste nella previsione di un potere di sostituzione in capo all’organo amministrativo superiore. In specie, l’esercizio di tale potere presuppone un’inerzia da parte dell’organo cui è assegnato lo svolgimento di determinate funzioni nell’interesse pubblico; e, allo stesso tempo, presuppone un atto di messa in mora nei confronti dell’amministrazione inadempiente.

Nell’ipotesi in cui decorra inutilmente il periodo della mora senza che l’amministrazione intimata abbia provveduto, l’organo gerarchicamente sovraordinato si sostituisce a quello inferiore inadempiente.

Al potere di avocazione e a quello di sostituzione si aggiunge, poi, il potere di controllo sugli atti amministrativi. Si tratta, anche in questo caso, di un potere generale, costituente la regola nell’alveo dei rapporti amministrativi di gerarchia.

Il potere di controllo sugli atti può definirsi come il potere di valutare la conformità dell’atto al paradigma legislativo ovvero al parametro di buona amministrazione, secondo i dettami dell’opportunità e della convenienza per la Pubblica amministrazione.

Da ciò si evince come il controllo sugli atti possa estrinsecarsi in un controllo sulla legittimità degli stessi oppure in un controllo sul merito.

A ciò si aggiunga che il controllo sugli atti amministrativi da parte dell’organo sovraordinato è prodromico al potere di annullamento degli atti ritenuti illegittimi. Il potere di annullamento risponde, infatti, alla necessità di assicurare la legalità dell’azione amministrativa e di eliminare, quindi, quegli atti che in quanto viziati esporrebbero l’organo di vertice a responsabilità politica, oltre che amministrativa.

Un ultimo aspetto, poi, del modello di amministrazione gerarchizzata risiede nella predisposizione dello strumento giustiziale di tutela degli interessi legittimi consistente nel ricorso gerarchico proprio. Quest’ultimo, al contrario del ricorso gerarchico improprio, non necessita di espressa previsione legislativa: esso rappresenta, del resto, un istituto generale, di cui i privati si avvalgono in quanto gratuito e idoneo a sindacare anche i vizi di merito del provvedimento amministrativo.

Occorre, inoltre, considerare che al modello cavouriano di Pubblica amministrazione non è sconosciuta l’esperienza delle aziende autonome, qualificabili come enti pubblici estranei al circuito democratico, dotati di autonomi poteri gestionali, finanziari e di spesa, nonché di poteri decisori. In specie, questi enti agiscono secondo logiche imprenditoriali e nella dimensione delle amministrazioni parallele,

Il sistema sopra delineato può considerarsi, a ben vedere, superato, anche in punto di controllo sugli atti amministrativi, per effetto di un processo di riforma avviato a partire dagli anni ‘90 con le leggi sulla privatizzazione.

Bisogna, anzitutto, premettere che le leggi di modifica dell’impianto burocratico esistente nel nostro ordinamento trovano un fondamento costituzionale nell’art. 97 Cost. e nell’art. 5 Cost.

In particolare, la figura di Pubblica amministrazione che si ricava dall’art. 97 Cost. è quella di una Pubblica amministrazione pluralistica, i cui uffici sono organizzati secondo disposizione di legge, in modo che ne sia assicurato il buon andamento e l’imparzialità, e in relazione a precise sfere di competenza, attribuzioni e con determinazione delle responsabilità proprie dei funzionari.

L’organizzazione dell’Amministrazione è, dunque, imperniata sul principio di legalità e modellata sullo schema del decentramento. In tal modo, l’art. 97 Cost. viene interpretato alla luce dell’art. 5 Cost. e ne risulta una concreta applicazione.

Conseguentemente, è possibile evidenziare come da un modello accentrato, statalista e gerarchizzato si passi a uno decentrato, promotore delle autonomie e pariordinato.

Questa diversa visione dell’apparato burocratico è fatta propria dalla legge n. 29/93, dalla legge n. 80/98 e, da ultimo, dal d.lgs. n. 165/2001: testi legislativi che hanno introdotto e disciplinato la contrattualizzazione del pubblico impiego, oggi definito rapporto di lavoro alle dipendenze della PA.

In particolare, l’art. 3 l. 29/93, prima, e l’art. 4 d.lgs. 165/2001, dopo, hanno sancito il principio di separazione tra politica e amministrazione, sicché appare ormai evidente che gli organi di governo esercitano le funzioni di indirizzo politico-amministrativo mediante l’adozione degli atti e dei provvedimenti amministrativi, ovvero attraverso la spendita di autonomi poteri di gestione finanziaria, tecnica e amministrativa.

Dalla norma in esame si deduce, dunque, come i vertici politici, i ministri, siano distinti dai dirigenti pubblici per sfere di attribuzione: i primi esercitano poteri di indirizzo, i secondi, invece, i poteri necessari a esplicare e portare a compimento gli obiettivi pubblici fissati. Da qui i dirigenti sono responsabili in via esclusiva dell’attività amministrativa, della gestione e dei relativi risultati, come risulta confermato dall’art. 4, co. 2, d.lgs. 165/2001.

Il principio della distinzione tra indirizzo e controllo, da un lato, e attuazione e gestione, dall’altro, è, inoltre, evidenziato dal quarto comma dell’articolo sopra menzionato e ulteriormente espresso dagli artt. 14 e 15 d.lgs. 165/2001, che rispettivamente definiscono le funzioni attribuite al Ministro e quelle spettanti ai dirigenti.

In tale quadro emerge un nuovo modello di amministrazione costruito sulle finalità, sugli obiettivi pubblici da realizzare, per cui le amministrazioni, vincolate al perseguimento di determinati obiettivi stabiliti mediante legge, sono, tuttavia, libere nella scelta delle modalità con le quali perseguire quei fini.

Le stesse sono, infatti, dotate di autonomia gestionale e decisionale e al loro interno spicca la figura del responsabile del procedimento, cristallizzata nell’art. 5 l. 241/90, legge sul procedimento amministrativo.

Pertanto, per effetto delle norme contenute nella legge 241/90 dedicate al responsabile del procedimento si realizza l’autonomia del funzionario responsabile rispetto al dirigente dell’unità organizzativa, ove le due figure non coincidano in capo al secondo, e si stabilisce la responsabilità piena del funzionario per gli atti del procedimento.

L’analisi fin qui svolta riguardo alla mutata concezione dell’apparato amministrativo consente, poi, di mettere in evidenza le caratteristiche essenziali dei rapporti interni a ogni singola amministrazione.

In maniera speculare a quanto esposto con riferimento al modello gerarchizzato della PA, è possibile sostenere come alla base del modello decentrato e per finalità si rinvenga il potere di raccomandazione e non d’ordine.

Sul punto, venuta meno la gerarchia in senso proprio tra organi individuali dell’amministrazione e affermatasi la logica degli obiettivi da raggiungere nel rispetto dei principi del buon andamento e dell’imparzialità, l’unico potere ammesso all’interno di ogni unità organizzativa della PA è quello di direzione e d’indirizzo.

Il dirigente, infatti, non può impartire ordini, in un’ottica di stampo militare, al responsabile del procedimento, così come il ministro non può impartire ordini al dirigente generale.

Al tempo stesso, l’assenza di un rapporto gerarchico determina il venir meno del potere di avocazione in capo all’organo sovraordinato: il potere in questione, prima considerato generale, diviene un potere eccezionale, che richiede un’espressa previsione normativa.

Tale assunto trova un addentellato positivo nell’art. 14, co. 3, d.lgs. 165/2001, per cui il Ministro non può avocare a sé, ma neanche revocare, riformare, riservare a sé o altrimenti adottare provvedimenti o atti di competenza dei dirigenti.

Residua, invece, il potere di sostituzione anche nel modello amministrativo di direzione e per finalità sul fondamento logico-giuridico che la sostituzione integri uno strumento in grado di supplire a eventuali inefficienze e inadempienze dell’organo amministrativo.

In questo modo, viene ripristinato l’ordine dell’azione amministrativa al fine di soddisfare, in ultima istanza, le pretese dei privati amministrati.

Come chiarito sopra, il potere sostitutivo presuppone l’inerzia e la messa in mora dell’organo affinché quest’ultimo provveda. Pertanto, nel caso di inerzia o di grave inosservanza delle direttive generali da parte del dirigente competente, il Ministro può nominare un commissario ad acta ai sensi dell’art. 14, co. 3, d.lgs. 165/2001.

Occorre, ancora, sottolineare come il potere sostitutivo non sia, in ogni caso, considerato un potere generale, ma richieda una puntuale disposizione legislativa.

Esaminati, dunque, i tratti peculiari del nuovo modello amministrativo, emerge un altro tema, quello dei controlli sugli atti amministrativi, anch’esso impattato dal superamento del modello gerarchizzato.

Sicché, è opportuno valutare se e come il sistema dei controlli sugli atti amministrativi sopravviva anche dopo la trasformazione dell’apparato burocratico statale e la riforma del Titolo V della Costituzione, che ha valorizzato l’autonomia degli enti locali e sancito il principio di equiordinazione tra Stato e Regioni o, per meglio dire, ha conferito alle Regioni poteri legislativi esclusivi e concorrenti, oltre che poteri regolamentari.

Quanto al controllo sugli atti amministrativi da parte dell’organo sovraordinato, consistente nella verifica della rispondenza degli stessi alla legge (controllo di legittimità) o alle regole di buona amministrazione (controllo di merito), tale istituto incontra ormai forti limiti, tanto da essere stato relegato in spazi angusti di operatività.

In particolare, una lettura progressista dell’art. 97 Cost. e, in specie, del principio di buon andamento ha indotto la dottrina a ritenere superati il sistema dei controlli sugli atti amministrativi.

Invero, la necessità di garantire il rispetto dei principi di efficienza, di efficacia, di economicità, che sono espressione del buon andamento, ha spinto verso un superamento del controllo sugli atti e ha finito per privilegiare diverse forme di controllo, quelle sulla gestione e sui risultati dell’attività amministrativa.

L’idea che la PA debba ispirarsi ai canoni dell’efficienza, ovvero della corretta gestione delle risorse materiali e finanziarie a disposizione per il perseguimento dei fini pubblici, e dell’economicità, nel senso di ponderare la spesa delle risorse pubbliche, implica una visione della PA orientata a logiche imprenditoriali.

In questa prospettiva, il legislatore è intervenuto riformando il sistema dei controlli interni all’amministrazione e potenziando il controllo sulla gestione. Prova ne è la riforma della dirigenza pubblica di cui al d.lgs. 165/2001, TU sul pubblico impiego, e la riforma Brunetta, la quale ha introdotto un sistema di valutazione delle performances non solo degli uffici della PA, ma anche dei singoli dipendenti in un’ottica meritocratica e, da ultimo, dei dirigenti, i quali rispondono a livello disciplinare per il mancato raggiungimento degli obiettivi prefissati.

Riguardo alla valorizzazione del sistema dei controlli di gestione e al superamento di quello dei controlli sugli atti amministrativi, può evidenziarsi l’art. 4 d.lgs. 165/2001, secondo il quale gli organi di governo verificano la rispondenza dei risultati dell’attività amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti.

Alla luce del quadro delineato, il sistema dei controlli sulla gestione risulta, quindi, in linea con la concezione della PA quale amministrazione che deve perseguire e conseguire obiettivi e finalità pubblicistiche.

Al tempo stesso, il sistema dei controlli sugli atti appare in distonia con le misure di privatizzazione e di liberalizzazione adottate dal legislatore in relazione ad alcuni settori dell’economia.

Occorre, ancora, precisare che nello spazio residuo assegnato ai controlli sugli atti si coglie il venir meno del potere di annullamento degli atti amministrativi delle Regioni spettante al Governo prima della Riforma del Titolo V della Costituzione.

La legge costituzionale n. 3/2001 porta a compimento quel percorso di decentramento amministrativo e di pluralismo degli ordinamenti all’interno della Repubblica avviato con la legge Bassanini.

Sul presupposto della pari dignità tra Stato e Regioni, che esercitano nelle sfere di rispettiva competenza, secondo uno spirito di leale collaborazione, la potestà legislativa e quella regolamentare, è venuto meno il potere di annullamento straordinario dello Stato rispetto agli atti amministrativi delle Regioni.

Ciò è quanto statuito dalla Corte costituzionale nella sentenza con la quale ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 1, co. 3., lett. p) l. 400/88, che prevedeva la possibilità per il Consiglio dei Ministri di annullare gli atti amministrativi delle Regioni.

La Corte costituzionale ha, dunque, circoscritto l’ambito di applicazione della norma, che sembra essere limitata ai soli atti degli Enti locali. Il riscontro di tale interpretazione si rinviene nell’art. 138 TU Enti locali, che attribuisce al Governo, a tutela dell’unità dell’ordinamento, il potere di annullare gli atti degli enti locali affetti da vizi di legittimità di cui all’art. 21 octies l. 241/90.

Sebbene alcuni in dottrina abbiano sostenuto come la norma in esame sia illegittima alla luce del nuovo assetto dell’ordinamento delineato dalla Costituzione, occorre, tuttavia, rilevare che il potere di annullamento rispetto agli atti amministrativi degli Enti locali è limitato dalla condizione “tutela dell’unità dell’ordinamento” e, quindi, dall’interesse superiore dell’unità statale.

Rossella Bucceri

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