Interessi legittimi e responsabilità risarcitoria. Si soffermi il candidato sul danno da ritardo.
Interessi legittimi e responsabilità risarcitoria. Si soffermi il candidato sul danno da ritardo.
di Carmen Oliva
L’assodata qualificazione dell’interesse legittimo come situazione giuridica soggettiva suscettibile di piena tutela risarcitoria, oltre che impugnatoria, costituisce il traguardo di un lento e graduale percorso evolutivo che ha animosamente coinvolto, tanto dottrina e giurisprudenza, quanto il legislatore.
Prima della storica sentenza delle Sezioni Unite n. 500/1999, la tutela giurisdizionale dell’interesse legittimo era confinata al solo rimedio caducatorio, consistente nel mero annullamento del provvedimento amministrativo illegittimo. A diverse conclusioni non si poteva, del resto, pervenire giacché la giurisprudenza tradizionale, fortemente ancorata al formalismo, concepiva il processo amministrativo come un processo sull’atto, più che sul rapporto intercorrente tra consociato e p.a.
La pronuncia della Suprema Corte del 1999 ha avuto il pregio di aver scalfito definitivamente il dogma dell’irrisarcibilità dell’interesse legittimo. Con la citata pronuncia, infatti, la Cassazione, attraverso un’opera di riqualificazione in chiave sostanzialistica della situazione di interesse legittimo e di dilatazione del concetto di “danno ingiusto” rilevante ai sensi dell’art. 2043 c.c., ha ammesso la piena risarcibilità della situazione de qua e ha ricondotto la relativa responsabilità nell’ambito della responsabilità aquiliana.
Sulla scorta di tale premessa che ammette la pacifica risarcibilità del danno derivante dalla lesione di un interesse legittimo (pretensivo o oppositivo) , ci si può soffermare, nello specifico, sulla questione della risarcibilità del danno da ritardo che, nell’ultimo decennio, ha dato luogo ad un vivace dibattito sia dottrinale che giurisprudenziale.
Per danno da ritardo si intende il danno arrecato al privato qualora la PA non adotti il provvedimento nei termini prefissati dalla legge. Dunque, ontologicamente la configurazione di un danno da ritardo presuppone necessariamente un obbligo di provvederedella PA che, di fatto, non è adempiuto. Esulano perciò dalla risarcibilità di tale fattispecie di danno le ipotesi di cd. silenzio significativo, in cui il decorso del termine di conclusione del procedimento assume valore provvedimentale, escludendo quindi la configurabilità di un inadempimento.
Restano,inoltre, fuori dal campo d’indagine anche tutti i casi in cui all’istanza del privato faccia seguito una mera facoltà di attivazione del procedimento da parte della PA (come nel caso in cui un privato chieda l’esercizio dei poteri di autotutela), giacchè in tali casi per la P.A. non sussiste un vero e proprio obbligo di provvedere.
Il danno da ritardo può essere oggi definito come quel danno eventuale ed ingiusto cagionato al privato dall’inosservanza colposa o dolosa del termine prescritto dalla legge per provvedere(l’art. 2 bis l. 241 del 1990). È dunque una lesione ad interessi legittimi pretensivi che il privato vanta verso la PA.
La giurisprudenza chiarisce che si ricade nell’ambito del danno da ritardo in una serie di ipotesi e precisamente: quando il pregiudizio lamentato consiste nel ritardo con cui la stessa amministrazione ha emanato il provvedimento richiesto ( in tale ipotesi, il danno risarcito è quello subìto per aver avuto in ritardo il bene della vita cui si aveva titolo); quando il pregiudizio lamentato consiste nel danno prodottosi medio temporetra l’annullamento del diniego di provvedimento per motivi formali e la riedizione del potere amministrativo comportante il rilascio del provvedimento richiesto( anche in tale ipotesi, il danno risarcito è quello derivante dal ritardo con il quale è stato conseguito il bene della vita cui si aveva titolo); quando il pregiudizio lamentato consiste nel fatto che l’amministrazione non emani alcun provvedimento, ovvero emani un provvedimento negativo, ma in ritardo: anche in quest’ultimo caso, peraltro, il danno lamentato non consiste nell’illegittimo diniego del bene della vita (che andrebbe impugnato), bensì nell’aver provveduto in ritardo, con ciò solo causando un danno al privato.
Quanto alla natura della responsabilità della PA per ritardo nell’adozione del provvedimento amministrativo nell’ambito di un’istanza mossa dal privato, le tesi elaborate possono essere ricondotte a tre filoni giurisprudenziali contrapposti.
Un primo orientamento riconduce il danno da ritardo alla fattispecie contrattuale.
In sostanza, si osserva che nel caso di ritardo nell’adozione del provvedimento manca il presupposto fondante la responsabilità aquiliana di cui all’art. 2043 cc, ossia l’estraneità dei soggetti coinvolti.
Il privato e la PA, infatti, secondo tale orientamento, sono legati dal vincolo procedimentale, idoneo a ricondurre tale responsabilità al paradigma della responsabilità contrattuale. Suddetta responsabilità si configura pertanto ogni qualvolta la PA violi gli obblighi ad essa imposti dalla l. 241/1990, quale espressione dei principi che governano l’azione amministrativa.
In particolare, una parte della dottrina ricollega la responsabilità della PA al mancato adempimento non di una prestazione contrattuale in senso stretto, ma di una obbligazione senza prestazione. La responsabilità per danno da ritardo della PA viene così collocata nell’ambito della violazione di un obbligo di protezione che sulla stessa grava in favore del privato.
La ricostruzione in termini di responsabilità contrattuale è stata di recente seguita dal TAR Lombardia, con una sentenza del 2015, facente riferimento alla fattispecie risarcitoria del danno derivante da tardiva adozione del provvedimento favorevole, legittimamente spettante al privato.
In tale pronuncia, il TAR Lombardia ricostruisce in termini funzionali le due contrapposte ipotesi di responsabilità extracontrattuale e contrattuale e conclude ritenendo che le esigenze di tutela del danno da ritardo aderiscano maggiormente alla ratiodella responsabilità contrattuale.
Infatti, la ratiodella responsabilità di cui all’art. 2043 cc è quella di ripristinare lo status quo ante, e dunque di ripristinare l’integrità patrimoniale lesa o riparare il danno cagionato alla persona da un comportamento contrario al principio generale del neminem leadere; diversamente, la responsabilità contrattuale persegue una differente finalità consistente nell’ attribuire al soggetto che subisce l’inadempimento ciò che ad esso sarebbe spettato in funzione del tempestivo adempimento della controparte.
Sulla scorta di tale distinzione i giudici osservano come, nel caso di tardiva adozione del provvedimento amministrativo, la responsabilità invocata per il ritardo della PA miri a porre l’amministrato nella situazione in cui egli si sarebbe trovato se l’amministrazione avesse provveduto tempestivamente sull’istanza.Per questa ragione, tale responsabilità sarebbe funzionalmente assimilabile alla responsabilità contrattuale, trattandosi di una compensazione economica per un’aspettativa non realizzata.
Le implicazioni pratichederivanti dall’adesione alla teoria contrattuale sono notevoli, soprattutto in termini di onere probatorio, il quale seguirebbe le regole di cui all’art. 1218 cc, gravando sul debitore (e dunque sulla PA) l’onere di provare l’assenza di colpa per l’inadempimento e dunque di dimostrare la riferibilità dell’inadempimento ad una causa a lei non imputabile. Il privato, dal canto suo, può limitarsi ad allegare il mero inadempimento del rispetto del termine per provvedere.
Inoltre, quanto alla spettanza del bene della vita, ricostruendo la fattispecie in termini di responsabilità contrattuale, alcun rilievo dovrebbe attribuirsi all’eventuale spettanza o meno del provvedimento favorevole al privato.
In questi termini si aprirebbe la strada anche alla risarcibilità del danno da “mero ritardo”, inteso quale lesione cagionata dalla violazione di un dovere di protezione dell’affidamento del privato, ingenerato dal mancato rispetto di un obbligo di provvedere che prescinde dal contenuto del provvedimento stesso.
In sostanza, se si segue la tesi contrattualistica deve ritenersi che la responsabilità dell’amministrazione è ancorata al mancato rispetto del termine che la PA è sempre tenuta ad osservare, sia quando intenda accogliere l’istanza del privato sia quando decida per il rigetto della stessa.
La qualificazione della risarcibilità del danno da ritardo in termini di responsabilità contrattuale incide poi anche sulla delimitazione del danno risarcibile e sul calcolo degli interessi e rivalutazione monetaria.
Infatti, il danno risarcibile per inadempimento contrattuale è il danno che, ai sensi delll’art. 1225 cc, era prevedibile al momento della “conclusione del contratto”. Inoltre, per l’obbligazione risarcitoria in questione, gli interessi e la rivalutazione sono da computarsi dalla domanda, ferma restando la regola giurisprudenziale del divieto di cumulo.
La tesi in esame non è andata esente da critiche. Certamente è innegabile che questa ricostruzione consente di attribuire al privato una posizione processualmente più agevole, soprattutto sul piano probatorio, essendo egli sollevato dall’onere di provare l’addebitabilità dell’inadempimento alla PA; tuttavia, essa conduce al paradosso applicativo di riconoscere la tutela al mero interesse procedimentale al rispetto del termine stabilito per la conclusione del procedimento, tutela tradizionalmente esclusa dalla giurisprudenza prevalente.
L’impostazione più diffusa, che sembra esser poi stata consacrata in via legislativa con l’introduzione dell’art. 2 bis della l. 241 del 1990, ricostruisce la responsabilità della p.a. da ritardo in termini di responsabilità extracontrattuale.
Tale tesi è suffragata dal tenore letterale della disposizione richiamata la quale, utilizzando l’espressione “risarcimento del danno ingiusto”, riprodurrebbe espressamente il paradigma risarcitorio previsto dall’art. 2043 cc..
A questo orientamento ha aderito di recente anche la sez. V del Consiglio di Stato, la quale ha ripercorso gli elementi caratterizzanti la fattispecie risarcitoria per il ritardo nell’attivazione e nella conclusione del procedimento amministrativo.
In tema di danno da ritardo, la qualificazione giurisprudenziale di tale responsabilità in termini di responsabilità aquiliana ex art 2043 c.c., si giustifica per la ricostruzione concettuale del danno da ritardo in sé quale danno ingiusto, mentre non può riconoscersi autonoma rilevanza giuridica al “bene‐tempo”.
Da ciò deriva che il ritardo della PA non assume rilievo in termini assoluti, ma si poggia sulla rilevanza della situazione giuridica sostanziale sottesa all’istanza del privato rimasta inevasa dalla PA.
La peculiarità, rispetto al danno da provvedimento illegittimo della p.a., è che qui l’illegittimitànon attiene al provvedimento tempestivamente adottato ma, più propriamente, al comportamento inerte della PA.
Analogamente a quanto affermato dalla Cassazione a SS.UU. nella sentenza 500 del 1999 circa la generale risarcibilità degli interessi pretensivi lesi da un atto illegittimo della PA, tale orientamento ritiene risarcibile il danno arrecato per il ritardo nell’emanazione del provvedimento solo ove questo abbia portata favorevole al privato, e sempreché sussista un eventuale danno ingiusto, eziologicamente causato dal ritardo colposo o doloso della PA nell’adozione dell’atto.
Dunque, ai fini della risarcibilità del danno da ritardo diviene fondamentale la valutazione circa la spettanza del bene della vita.
In questo senso, il privato avrebbe titolo al risarcimento solo in ipotesi di tardiva emanazione del provvedimento favorevole e non, invece, nel caso di tardiva emanazione di provvedimento legittimo sfavorevole al privato.
Sul punto è apparso risolutivo l’intervento dell’Ad. Plen. del 2005, in cui sono stati enunciati principi poi recepiti e consacrati in via legislativa.
L’Adunanza Plenaria del 2005 ha negato rilievo giuridico al cd. “bene tempo”, in sé considerato, ancorando il concetto di risarcibilità alla tardiva attribuzione del bene della vitaa cui il privato aspira. In questi termini dunque è evidente come la spettanza del provvedimento favorevole è il presupposto per la configurabilità della responsabilità risarcitoria, non essendo possibile individuare un danno ad una posizione sostanziale che di fatto non sussiste.
Ulteriori implicazioni attengono alla ripartizione dell’onere probatorio, giacchè , in questo caso, spetta al privato che attiva il rimedio risarcitorio offrire la prova della sussistenza degli elementi costitutivi della fattispecie, così come dispone l’art. 2697 cc.
In sostanza, ove vi sia un provvedimento favorevole al privato emesso oltre il termine per provvedere, non è sufficiente allegare la tardività dello stesso al fine di comprovare la spettanza del risarcimento, poiché è necessario che alla vana decorrenza del termine imposto dalla legge per concludere il procedimento faccia seguito l’effettiva sussistenza di un danno, causato dallo stesso silenzio della PA.
Il ritardo della PA rileva, dunque, come presupposto oggettivo per la configurabilità della fattispecie, oltre che come elemento qualificante l’illegittimità del danno.
Sul versante soggettivo, invece, è necessario che la fattispecie sia riconducibile ad un comportamento colposo o doloso dell’amministrazione, della cui prova è onerato il privato.
A fronte di questi due orientamenti contrapposti, si è affermato un terzo filone giurisprudenziale che propende per la natura sui generis della responsabilità da ritardo della p.a..
Secondo alcuni autori la responsabilità della PA configura un’autonoma fattispecie di responsabilità, oggi governata da regole sue proprie, specie per quanto riguarda il profilo processuale.
Questo orientamento non discute dell’indubbia circostanza per cui l’art. 2 bis l. 241 del 1990 individua gli elementi costitutivi della fattispecie in esame sulla base del modello generale di cui all’art. 2043, ma ritiene che ciò non giustifichi l’automatica conclusione in termini di piena sovrapponibilità dei due istituti.
Difatti, se si ritiene che il danno da ritardo e più in generale la responsabilità risarcitoria della PA rientrino nell’ambito applicativo della norma di diritto comune di cui all’art. 2043, l’art. 30 cpa sarebbe da intendersi come un inutile duplicato normativo.
In effetti, seguendo l’esposto orientamento, si giunge ad affermare un’autonoma configurazione della responsabilità risarcitoria della PA, sorretta dalle specifiche norme dettate dal legislatore agli artt. 30 e 133 cpa e, per quanto attiene al ritardo della PA, all’art. 2 bis l. 241 del 1990.
L’art. 2 bis l. 241 del 1990, introdotto dalla legge 69 del 2009, al primo comma sancisce la responsabilità di ogni amministrazione per il danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento. In modo complementare, l’art. 30 cpa sancisce la risarcibilità del danno cagionato dal mancato esercizio dell’attività amministrativa obbligatoria.
Dunque, la fattispecie è integrata in presenza degli elementi identificati da suddette norme e non già per assimilazione alla responsabilità di cui all’art. 2043 cc.
Quanto al piano probatorio, la lettura in termini sui generisdella responsabilità della PA comporta alcune variazioni rispetto a quanto considerato dai sostenitori della tesi della responsabilità extracontrattuale.
L’art 30, comma 4 cpa, nell’individuare il termine per l’esercizio dell’azione, fa riferimento all’“eventuale danno” che il ricorrente comprovi di aver subito in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento.
Per tale ragione, l’orientamento in esame ritiene che al privato spetti provare gli elementi oggettivi della fattispecie, mentre il versante soggettivo è rimesso ad un generale giudizio di rimproverabilità da parte del giudice.
La compiuta disciplina legislativa in materia non solo ha operato una mediazione tra le tesi contrapposte, ma ha anche sopito una serie di risalenti dispute, prevedendo la proponibilità dell’azione risarcitoria in via autonoma, (e dunque sconfessando un eventuale rapporto di pregiudizialità tra l’azione avverso il silenzio e l’azione per il risarcimento del danno), nonchè un termine di decadenza di 120 giorni per proporre l’ azione risarcitoria, che nel caso di silenzio inadempimento non decorre fintanto che perdura l’inadempimento, se non trascorso un anno dalla scadenza del termine per provvedere.
Ripercorsi i diversi orientamenti in ordine alla natura della responsabilità in questione, è chiaro che la risarcibilità del danno da ritardo è strettamente connessa alla spettanza del bene della vita.
L’art. 30 cpa comma 4, infatti, attribuisce espressamente al ricorrente la prova del danno di cui chiede ristoro. Si esclude, così, indirettamente un automatismo tra superamento del termine e responsabilità della PA, che accompagnava la tesi della natura contrattuale della responsabilità dell’amministrazione.
Il legislatore, infatti, si riferisce “al danno eventuale” che il ricorrente prova di aver subitoin conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento.
La disposizione, così formulata, depone in favore della tesi contraria al riconoscimento del rilievo del mero interesse procedimentale e della natura contrattuale della responsabilità.: infatti, se così non fosse, il danno in discorso non sarebbe affatto eventuale, ma certo nella sua esistenza (anche se incerto nel suo ammontare) tutte le volte in cui la PA non rispetti il termine per provvedere.
Un ulteriore elemento sui cui poggia la ricostruzione del risarcimento del danno da ritardo in termini di risarcimento per tardiva attribuzione del bene della vita, è dato dal riferimento che il legislatore fa al danno subito “in conseguenza” dell’inosservanza del termine.
Diversamente, il danno sarebbe in re ipsaper il mero ritardo nel provvedere e dunque il danno subito non sarebbe un danno conseguente all’inadempimento della PA, ma piuttosto coinciderebbe proprio con il ritardo stesso.
Il quadro normativo delineato negli ultimi anni, in effetti, se da un lato ha consentito al legislatore di porre dei punti fermi nell’individuazione della disciplina applicabile alle ipotesi di danno da ritardo, dall’altro ha lasciato aperte alcune questioni: tra queste quella della risarcibilità del danno da mero ritardo.
Invero, con il più recente intervento normativo del 2013, il legislatore ha aggiunto un ulteriore comma all’art. 2, a mente del quale al privato è attribuito il diritto all’indennizzo da mero ritardo.
Ad oggi, dunque, può osservarsi come la tardiva conclusione del procedimento amministrativo rilevi sotto due diversi e distinti profili: in primis, in termini risarcitori, ove il ritardo colposo o doloso arrechi un danno ingiusto al privato come dispone l’art. 2 bis, comma 1, governato sul piano processuale dall’art. 30 cpa; in secundis, in termini indennitari, per il danno da mero ritardo, sempreché venga rispettata la apposita procedura di cui all’art. 1‐ bis dell’art. 2‐bis della l. 241 del 1990.
Dalla novella legislativa possono, quindi, trarsi definitivamente argomenti favorevoli all’irrilevanza sul piano risarcitorio del mero fattore tempo, avendo il legislatore dedicato al mero ritardo una norma ad hoc, che prevede un semplice indennizzo.
Sul piano ontologico, questi due profili sono notevolmente diversi, giacchè la fattispecie risarcitoria di cui al comma 1 art 2 bis è dotata di precisi elementi costitutivi, delineati in via normativa, quali la sussistenza di un danno, il legame eziologico tra il danno e il ritardo della PA e l’inosservanza colposa o dolosa del termine per provvedere. Inoltre, la spettanza del provvedimento favorevole costituisce presupposto per la configurabilità della fattispecie risarcitoria. Il mero ritardo, invece, assume rilievo giuridico nonin termini risarcitori bensì indennitari.
L’indennizzo per il mancato rispetto del termine procedimentale è stato concepito dal legislatore in modo totalmente autonomo rispetto al risarcimento per la tardiva attribuzione del bene della vita. Pertanto a differenza di quanto previsto in tema di risarcimento, l’indennizzo da mero ritardo prescinde dalla spettanza o meno del bene della vita. Quello che qui rileva è la sola inosservanza del terminedi conclusione del procedimento ad istanza di parte, sempre che sussista l’obbligo della PA di pronunciarsi.
Del pari, in un’ottica “oggettiva”, alcun cenno è fatto al profilo soggettivo della colpa o del dolo della PA.
La fattispecie indennitaria si giustifica solo nel comportamento illegittimo della p.a. consistente nel superamento del termine per provvedere, senza che assuma rilievo l’ illegittimità del provvedimento tardivamente adottato.
Difatti, l’indennizzo è una forma di ristoro di un danno che, tuttavia, non consegue ad un illecito e che perciò non dà luogo ad una responsabilità in termini civili, diversamente dal risarcimento che mira a reintegrare un danno prodotto non iure e contra ius.
Generalmente l’indennizzo intende ripristinare l’equità turbata dal legittimo comportamento dannoso. È così, ad esempio, nel caso di indennità di esproprio. Tuttavia, se generalmente l’indennizzo è uno strumento volto a ripristinare una forma di equità, ciò non può aprioristicamente affermarsi per l’indennizzo per danno da mero ritardo, il quale persegue anche ulteriori finalità.
Tradizionalmente l’indennizzo si ricollega ad un atto o comportamento lecito che cagiona però un danno ad altri. L’indennizzo da mero ritardo, invece, attiene ad un comportamento illegittimo, cioè l’inadempimento della PA del dovere di provvedere entro il termine prescritto dalla legge (che non si traduce in un’illegittimità del provvedimento tardivamente adottato dalla PA) che però esula da ogni danno concretamente riscontrabile.
Ed invero, nella fattispecie indennitaria in esame, benché non sia da escludersi lo scopo di ristorare il privato per il mancato rispetto del termine per provvedere, è forse preminente una funzione coercitiva e latamente punitiva della PA inadempiente.
Tale diversità di scopo si riviene anche nella determinazione del quantum da indennizzare che, nel caso di indennità di esproprio, è determinato in base al valore del bene espropriato, mentre nel caso di indennità per mero ritardo della p.a. è determinato in termini fissi, indipendentemente dalla portata dei danni cagionati dall’inadempimento stesso. Pertanto, la prospettiva assunta dal legislatore sembra essere sbilanciata più verso l’inadempimento della PA che non già verso un fine equitativo dell’indennizzo stesso.
In conclusione, in materia di danno da ritardo, può oggi affermarsi univocamente che va esclusa la risarcibilità del cd. mero ritardo. La fattispecie risarcitoria attiene più propriamente alla ingiustificata tardiva attribuzione del bene della vita a cui il privato aspira attraverso la propria istanza.
Il bene‐tempo,invece, anche a seguito della riforma del 2013, continua a non avere un autonomo rilievo nel nostro ordinamento.
L’indennizzo da mero ritardo, per come è stato concepito dal legislatore, nella sostanza si avvicina di più ad uno strumento di coercizione indiretta all’adempimento di un dovere, consistente nel rispetto del termine di conclusione del procedimento da parte della PA. In questo senso, il tempo rileva come parametro cui commisurare la “penalità” da comminare all’amministrazione inadempiente, e non già come bene leso a cui si intende dare ristoro.