La compatibilità tra tentativo e delitto preterintenzionale

La compatibilità tra tentativo e delitto preterintenzionale

di Selene DeSole

Al fine di valutare la compatibilità del delitto preterintenzionale con la struttura e le peculiarità del tentativo, è necessario attenzionare preliminarmente la disciplina del delitto tentato nel codice penale, chiarendone anche la ratio ed il fondamento nell’impianto codicistico. Infatti, gli elementi strutturali del tentativo precludono una compatibilità generalizzata con qualsiasi figura delittuosa, per cui si rende indispensabile definire i medesimi in maniera precipua.

La disciplina positiva del tentativo si rinviene, attualmente, nell’art. 56 c.p. In via di prima approssimazione, si deve rilevare che il tentativo rappresenti un’ipotesi di anticipazione della tutela penale, dato che con esso si dà rilevanza ad atti che di per sé non costituirebbero reati consumati. Allora, emerge la necessità di chiarire la differenza tra delitto consumato e tentato. Come noto, l’iter criminis è tradizionalmente così strutturato: ideazione, esecuzione, perfezione e consumazione; ciò permette di affermare che anche il delitto tentato sia in sé un delitto perfetto, sebbene non consumato ed, infatti, lo stesso presenta gli elementi della tipicità, antigiuridicità, colpevolezza e punibilità. Proprio per questo il delitto tentato ha una sua dignità giuridica che permette di non considerarlo un quid minus rispetto al delitto consumato, ma una fattispecie completa ed autonoma rispetto a quest’ultimo. Infatti, il tentativo rappresenta anche una delle forme di manifestazione del reato e la norma di cui all’art. 56 c.p. ha la funzione di estendere la punibilità, essendo il suo disposto combinabile con buona parte delle fattispecie criminose contenute nella parte speciale del codice penale.

Ciò considerato, ci si è chiesti quale fosse il criterio utile al fine di individuare il tentativo penalmente rilevante; infatti, si deve tenere conto del fatto che l’attuale impianto codicistico, sebbene risalga al 1930, abbia subito notevoli influenze dall’avvento della Carta costituzionale, le quali hanno imposto un’interpretazione costituzionalmente orientata di diverse disposizioni del Codice penale Rocco. Per ciò che rileva in tale sede, si deve osservare che la disciplina del tentativo abbia delle implicazioni di rilievo nei confronti dei principi di offensività e di materialità. Senza un eccessivo dilungamento sul punto, basti precisare che tali principi non hanno un fondamento espresso nel dettato costituzionale, ma è possibile rinvenirlo in una serie di disposizioni in esso contenute, come rilevato anche dalla Corte Costituzionale. In brevis, il principio di offensività presuppone che la rilevanza penale di un fatto sia configurabile solo ove il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice subisca un’offesa, da intendersi quale danno o lesione o, almeno, messa in pericolo del bene giuridico; il principio di materialità, invece, troverebbe un fondamento in varie disposizioni, nonché nell’impianto stesso dell’ordinamento penale, e lo stesso presupporrebbe che la rilevanza penale sia configurabile solo per condotte dotate di materialità, intesa quale percezione sensoriale nella realtà fenomenica dell’azione o omissione posta in essere dal soggetto agente e, proprio in virtù di ciò, non potrà darsi rilevanza penale alla mera ideazione o cogitazione, salvi i casi in cui si tuteli un bene giuridico di rilevanza tale da giustificare siffatta anticipazione della tutela penale.

Pertanto, in considerazione del rilievo riconosciuto ai principi di materialità e offensività, deve ritenersi che gli stessi debbano calarsi anche nell’ambito della disciplina del tentativo punibile, essendo necessario che gli atti posti in essere dal soggetto agente abbiano l’attitudine alla tangibilità e alla lesività del bene giuridico tutelato dalle norme incriminatrici. Tuttavia, gli interpreti non hanno mostrato unanimità nell’individuazione dei criteri utili per la determinazione del tentativo rilevante.

Un primo criterio utile al fine indicato si fondava sulla nota distinzione tra atti preparatori ed atti esecutivi. La distinzione trovava un fondamento positivo nel Codice penale Zanardelli, all’art. 61. La disposizione citata riconosceva il tentativo punibile nel c.d. “cominciamento dell’esecuzione”, ponendo in tale momento lo spartiacque tra atti preparatori ed esecutivi, con la conseguenza che saranno penalmente irrilevanti gli atti preparatori. Tuttavia, la distinzione tra preparazione ed esecuzione non emerge nell’art. 56 dell’attuale codice penale e, inoltre, non è sempre agevole individuare nettamente una linea di demarcazione; il criterio, pertanto, presenta dei margini di incertezza, inaccettabili per il diritto penale e, per questo, è stato progressivamente abbandonato dalla dottrina e dalla giurisprudenza.

Altro criterio utilizzato per l’individuazione del tentativo penalmente rilevante si fondava sulla c.d. teoria dell’aggressione, per la quale la rilevanza è riconoscibile ogni qual volta il soggetto agente ponga in essere atti che aggrediscano il bene giuridico tutelato dalle norme incriminatrici. Questa teoria, però, si caratterizza per un’eccessiva incertezza: l’identificazione del bene giuridico non è sempre facile e, talvolta, lo stesso si connota per una fumosità che non consente di farlo assurgere a parametro in base al quale valutare la rilevanza penale di una determinata condotta.

Non resta, quindi, che valorizzare gli elementi che lo stesso art. 56 c.p. considera quali fondanti nella struttura del tentativo penalmente rilevante, ovvero i requisiti dell’idoneità e dell’univocità.

Per chiarezza espositiva, si deve prima dare conto della distinzione contenuta nel comma primo dell’art. 56 c.p., ovvero quella tra tentativo compiuto ed incompiuto; è compiuto nei casi in cui il soggetto ponga in essere un’azione completa, ma non si verifichi l’evento causalmente collegato alla medesima e richiesto dalla norma incriminatrice; invece, è incompiuto laddove non sia portata a compimento integrale l’azione in sé, a prescindere dal fatto che dalla stessa derivi o meno un qualche evento quale elemento costitutivo del reato.

Inoltre, si specifica che sulla portata e il fondamento del tentativo si sono contrapposte due differenti teorie: una prima teoria interpretativa ha base oggettiva e considera penalmente rilevante il tentativo che ponga in pericolo il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice; una seconda teoria, invece, ritiene di dover dare rilievo al substrato soggettivo del soggetto agente, con riferimento alla sua pericolosità sociale. Ad ogni modo, appare preferibile una tesi mista che valuti congiuntamente i due aspetti della lesione del bene giuridico e della pericolosità sociale del soggetto agente, dal momento che i due requisiti da soli non sono sufficienti a giustificare la rilevanza penale della fattispecie tentata; infatti, come in parte già precisato, non sempre è agevole individuare il bene giuridico considerato e, d’altra parte, anche la valutazione dell’animus del soggetto agente può presentare ugualmente elementi di incertezza che non permettono di fondare la responsabilità penale.

Ciò premesso, ci si sofferma a questo punto sui concetti di idoneità e univocità; l’art. 56 c.p., infatti, nel descrivere gli atti che caratterizzano il delitto tentato li descrive come “idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto”.

Per quanto riguarda l’idoneità, questa è definibile approssimativamente come l’attitudine dell’atto alla commissione di una fattispecie consumata. In particolare, l’accertamento dell’idoneità avviene con un giudizio di prognosi postuma ex ante: il giudice valuterà se gli atti posti in essere potevano causalmente condurre alla commissione di un delitto nella forma consumata, ponendosi idealmente con uno sguardo nel passato, precisamente nel momento in cui il soggetto agente poneva in essere l’atto. Secondo l’opinione prevalente, il giudice dovrà tenere conto unicamente delle circostanze che erano note al soggetto agente nel momento in cui agiva e non di tutte le circostanze riconoscibili ex post. Se così non fosse, si tratterebbe di un giudizio a base totale, che una certa dottrina ritiene preferibile in virtù del maggior garantismo che lo caratterizzerebbe. E’ importante osservare che nel disposto di cui all’art. 56 c.p. l’idoneità è riferita agli atti; ed allora il concetto di idoneità di cui all’art. 49 comma 2 c.p., che si riferisce all’azione, è diverso da quello di cui all’art. 56 c.p.; l’atto è un quid manus rispetto all’azione, la quale rappresenta una fattispecie completa rispetto all’atto che si caratterizza per essere un frammento dell’azione interamente considerata. Tale considerazione è utile per negare la tesi che vede nell’art. 49 comma 2 c.p. un inutile doppione in negativo del tentativo, trattandosi invece di un’autonoma fattispecie qualificata come reato impossibile.

L’altro requisito richiesto per la configurabilità del tentativo, come anticipato, è l’univocità; precisamente la norma di cui all’art. 56 c.p. richiede che gli atti, oltre che idonei, siano diretti in modo non equivoco a commettere un delitto. In primo luogo, si osserva che la direzione degli atti debba essere valutata con riferimento  alla commissione di un delitto, che rappresenta, quindi, l’obiettivo a cui gli atti debbono tendere. Si pone, però un problema sull’interpretazione del concetto di univocità. Secondo un primo orientamento, si deve intendere l’univocità in senso oggettivo, cioè si valuta l’atto in sé per comprenderne la direzione; altro orientamento, invece, sostiene che si debba tenere in considerazione l’intenzionalità del soggetto agente rispetto all’obiettivo delittuoso perseguito. Entrambe le tesi sono da sole insufficienti ad individuare l’univocità ed è preferibile una concezione mista che tenga conto di entrambi i profili, oggettivo e soggettivo. Taluni hanno ritenuto che non necessariamente l’univocità sia da considerare quale requisito di essenza, ma che la stessa sia un elemento probatorio rinvenibile aliunde rispetto all’atto in sé considerato. Siffatta tesi, tuttavia, non ha avuto grande seguito, perché darebbe luogo a eccessivi margini di incertezza e non corrisponderebbe a quanto previsto dalla lettera della norma.

Nel proseguire l’analisi della disciplina del tentativo, si dà conto delle disposizioni contenute nei commi successivi al primo dell’art. 56 c.p. In particolare, il primo comma specifica la cornice edittale applicabile ai delitti tentati, precisando che se il delitto nella forma consumata è punito con l’ergastolo, nella forma tentata si applicherà la pena della reclusione non inferiore a dodici anni; negli altri casi, la pena stabilita per il delitto consumato deve essere diminuita da un terzo a due terzi nella forma tentata. Il comma terzo, poi, prevede la fattispecie della c.d. desistenza volontaria, la quale si configura nelle ipotesi in cui il colpevole volontariamente desista dall’azione; in tali casi, il soggetto agente soggiacerà solo alla pena prevista per gli atti compiuti che di per sé costituiscano reato, restando altrimenti non punibile; taluni hanno riconosciuto alla desistenza volontaria la natura di causa di non punibilità, che si fonda nella scelta di politica criminale dell’ordinamento giuridico che così intende “premiare” il soggetto che abbia desistito. Infine, il comma quarto disciplina l’ipotesi del ravvedimento operoso, la quale si realizza laddove il soggetto agente impedisca volontariamente l’evento; si tratta di casi in cui l’azione è stata posta in essere, ma si tenta di evitare che produca l’evento dannoso, adottando una condotta che sia idonea ad annullare gli effetti della prima; tale fattispecie, secondo l’opinione prevalente, avrebbe la natura di circostanza attenuante, dato che si prevede una riduzione della pena da un terzo alla metà.

Chiarita la disciplina del tentativo e gli elementi strutturali del medesimo, si osserva che non ogni tipologia di reato sia compatibile con l’art. 56 c.p. e dovranno operarsi gli opportuni distingui. In primo luogo, ad esempio, l’opinione prevalente afferma l’incompatibilità del tentativo con i reati nella forma colposa. Infatti, il requisito della direzione univoca degli atti si pone logicamente in contrasto con le caratteristiche dell’elemento soggettivo della colpa, la quale, in via di estrema sintesi, si caratterizza per la non intenzionalità; tutto ciò che non è intenzionale non sarebbe definibile come univocamente diretto a raggiungere un certo risultato e per questo non si può ammettere un tentativo di delitto colposo.

Si rileva, tra l’altro, che l’art. 56 c.p. esclude a chiare lettere dal suo ambito applicativo le contravvenzioni, indicando nella stessa rubrica la dicitura “delitto tentato”; il senso di siffatta preclusione è di agevole comprensione; infatti, il reato contravvenzionale si caratterizza per essere indifferentemente punito a titolo di dolo o colpa, ciò comportando la necessità di escludere una possibile applicazione della fattispecie tentata a priori che, come detto, presuppone il carattere della direzione univoca degli atti.

Si dubita, inoltre, della compatibilità dei delitti caratterizzati da dolo eventuale con la forma tentata. Infatti, il dolo eventuale rappresenta un elemento soggettivo rispetto al quale l’univocità si pone logicamente in contrasto, dato che colui che agisce non vuole l’evento, ma accetta il rischio che l’evento si verifichi. Per altri, invece, non dovrebbe escludersi una compatibilità, visto che non dovrebbero esserci differenze tra il dolo nella forma tentata e il dolo nella forma consumata; pertanto, la configurazione di una forma di dolo nell’ipotesi consumata, comporterebbe la configurabilità, simmetricamente, della stessa nella forma tentata.

Le ipotesi di dubbia compatibilità con la fattispecie del tentativo vagliate in tale sede presentano i loro profili di problematicità nell’elemento soggettivo caratterizzante le condotte. Una problematica non dissimile si rinviene nella preterintenzionalità.

Al fine di comprendere se si possa ammettere una forma tentata del delitto preterintenzionale, debbono farsi delle premesse di ordine generale sui caratteri dello stesso e sulle tesi relative alla natura giudica.

Il primo riferimento normativo alla preterintenzionalità, a livello codicistico, si rinviene all’art. 43 c.p., il quale dispone che il delitto è preterintenzionale, o oltre l’intenzione, quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente.

Altro riferimento è contenuto nell’art. 584 c.p., ai sensi del quale è punito con la reclusione da dieci a diciotto anni chiunque, con atti diretti a commettere uno dei delitti di cui agli artt. 581 e 582 c.p., cagiona la morte di un uomo.

Nell’ambito delle leggi complementari, altra fattispecie di delitto preterintenzionale è rappresentata dall’aborto preterintenzionale, di cui all’art. 18 comma 2 della legge 194 del 1978.

Si osserva che, in realtà, non esisterebbero altre forme tipizzate di delitto preterintenzionale, al di là di queste espressamente citate. A tal proposito, si deve dare conto di due differenti interpretazioni del delitto preterintenzionale. Secondo una prima concezione, la preterintenzionalità sarebbe una categoria generale e, pertanto, potrebbe configurarsi anche al di là delle ipotesi espressamente previste dalla legge. Altra tesi, invece, sostiene che non sarebbero ammissibili ipotesi di preterintenzionalità al di fuori di quelle espresse, altrimenti si violerebbe il principio di legalità; tuttavia, si obietta che la legalità non sarebbe violata, dal momento che la preterintenzione è precipuamente prevista dal testo dell’art. 43 c.p., che allora dovrebbe intendersi quale clausola generale.

Ad ogni modo, è opportuno soffermarsi sulla struttura del delitto preterintenzionale che si caratterizza per essere un reato c.d. a doppio evento. L’evento base è soggettivamente riferibile all’agente, mentre il secondo evento è posto a carico del medesimo, apparentemente, in ragione della sola relazione causale che intercorre tra gli stessi; infatti, l’art. 43 c.p. utilizza il termine “deriva” facendo così ritenere che il secondo evento sia conseguenza dell’evento base e che, per ciò solo, sia posto a carico dell’agente. Sembrerebbe che il delitto preterintenzionale sia inquadrabile nella categoria dei delitti aggravati dall’evento e il problema che ci si pone, a questo punto, è quello della riferibilità psicologica dell’evento derivato. A tal proposito, si deve osservare che taluni hanno riconosciuto nel delitto preterintenzionale una forma di responsabilità oggettiva, che sarebbe vietata alla luce di un’interpretazione costituzionalmente orientata del codice penale. Infatti, alla luce del principio di colpevolezza, di cui all’art. 27 Cost., il porre a carico dell’agente il secondo evento, pur non essendo questo caratterizzato da dolo o colpa, sarebbe una palese violazione del principio de quo. Per questo, un certo orientamento giurisprudenziale ha ritenuto che il secondo evento debba porsi almeno in termini di prevedibilità da parte del soggetto agente, evocando tale concetto quello più ampio di colpa, così riportando la fattispecie all’interno dei canoni del principio di colpevolezza.

Poste queste generali considerazioni sul delitto preterintenzionale, si può affrontare la questione problematica della compatibilità dello stesso con il tentativo.

Come osservato nella prima parte della trattazione dedicata al tentativo, quest’ultimo si caratterizza per atti idonei e diretti in modo non equivoco a commettere un delitto. Proprio queste connotazioni hanno condotto l’opinione prevalente ad affermare un’incompatibilità della forma tentata con le fattispecie delittuose colpose, dove la non intenzionalità preclude che l’atto possa qualificarsi in termini di direzione univoca. Allora, la necessità che l’elemento psicologico in capo al soggetto agente abbia i caratteri dell’intenzionalità, presuppone che, nell’ambito del delitto preterintenzionale, la valutazione circa la manifestazione nella forma tentata possa farsi unicamente con riferimento all’evento-base e non all’evento collegato causalmente a quello base. Infatti, si è detto che tale secondo evento non è voluto e che possa, tuttalpiù, qualificarsi come prevedibile – e quindi colposo- con la conseguenza che difetterebbe dell’univocità richiesta dalla fattispecie tentata.

Allora, dovrebbero valutarsi l’idoneità e l’univocità rispetto al primo degli eventi della struttura del delitto preterintenzionale: si verifica se l’atto posto in essere ha l’attitudine causale a produrre l’evento base, con un giudizio di prognosi postuma ex ante, a base parziale; poi, si deve valutare se l’atto era univocamente diretto a produrre quello stesso evento, tenendo conto sia dell’atto in sé, che della componente soggettiva in capo all’agente. Emerge, quindi, un’astratta compatibilità tra il tentativo e il delitto preterintenzionale, ma vi sono dei dubbi, perché resta comunque fuori dalla valutazione dell’interprete il secondo evento, che pure è costitutivo della fattispecie preterintenzionale nella forma consumata.

Ci si sofferma poi sul disposto di cui all’art. 584 c.p., norma incriminatrice dell’omicidio preterintenzionale. La disposizione prende in considerazione quali delitti-base le percosse (art. 581 c.p.) e le lesioni (art. 582 c.p.) e prevede che la condotta sia penalmente rilevante laddove l’agente ponga in essere atti diretti a compiere i delitti citati, cagionando questi la morte del soggetto passivo. Si osserva, quindi, il rapporto di causalità che avvince gli atti diretti a commettere lesioni o percosse con la morte del soggetto passivo delle medesime, la quale rappresenta la consumazione dell’omicidio preterintenzionale. Allora, parrebbe che possa configurarsi la fattispecie tentata di omicidio preterintenzionale ogni qualvolta gli atti siano diretti a compiere le lesioni o le percosse, rilevando quindi il requisito dell’univocità così come enucleato, in riferimento all’art. 56 c.p. Ci si è pertanto chiesti se si debba valutare unicamente l’univocità e non il requisito dell’idoneità, dal momento che non è espressamente menzionato dal disposto di cui all’art. 584 c.p. Orbene, secondo l’interpretazione prevalente, il requisito dell’idoneità per la configurazione del tentativo sarebbe ormai imprescindibile e dovrebbe ritenersi implicito anche nella norma di cui all’art. 584 c.p. Si pensi, infatti, che con la riforma del 2006 sui delitti di attentato questi sono stati riscritti inserendo il requisito dell’idoneità, oltre a quello dell’univocità, di modo da renderli compatibili con le coordinate dell’art. 56 c.p. e giustificare una siffatta anticipazione della tutela penalistica.

Pertanto, nella valutazione della configurazione del tentativo di omicidio preterintenzionale, l’interprete dovrà verificare sia l’univocità che l’idoneità degli atti posti in essere dall’agente rispetto alla commissione dei delitti di percosse e lesioni e se, dal compimento nella forma consumata dei medesimi, sarebbe derivata la morte del soggetto passivo. Deve, infatti, escludersi l’ammissibilità di un tentativo inidoneo di omicidio preterintenzionale in quanto sarebbe incompatibile con il principio di offensività a cui si è fatto cenno nell’incipit di tale trattazione, intendendolo quale chiave di lettura dei caratteri del tentativo punibile, ex art. 56 c.p.

In conclusione, quindi, è emersa un’astratta compatibilità del tentativo con il delitto preterintenzionale, seppur nei limiti esposti e tenendo in conto l’interpretazione che si è data dell’art. 584 c.p., alla luce del principio generale di offensività.

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