LA RESPONSABILITA’ DELLA STAZIONE APPALTANTE DA MANCATA AGGIUDICAZIONE E LA RISARCIBILITA’ DEL DANNO CURRICULARE

La responsabilità della stazione appaltante da mancata aggiudicazione e la risarcibilità del danno curriculare hanno formato oggetto, in tempi abbastanza recenti, di una pronuncia dell’Adunanza Plenaria, che ha offerto rilevanti e pregevoli chiarimenti sulle tipologie di danno risarcibili e sull’onere probatorio in capo al privato ricorrente, coerentemente con i principi comunitari, con la funzione della responsabilità civile e con il principio dispositivo in tema di onere della prova.

Com’è noto, la PA, nell’espletamento delle gare d’appalto, è soggetta ai principi di imparzialità, parità di trattamento, trasparenza. Qualora, violandoli, manchi di aggiudicare l’appalto all’avente titolo, pone in essere un fatto illecito, che, in base al disposto dell’art. 2043 cc, la espone al risarcimento del danno.

Ed invero, il gravoso onere probatorio che discenderebbe sul privato dalla qualificazione della responsabilità della PA come aquiliana – in quanto dovrebbe provare tutti gli elementi richiesti dall’art. 2043 cc, ossia fatto illecito, danno, nesso di causalità e dolo o colpa – è stato temperato dagli orientamenti della CGUE. Secondo la Corte, la difficile, se non impossibile, prova dell’elemento psicologico del Soggetto Pubblico, precluderebbe sempre al privato illegittimamente non aggiudicatario il ristoro economico che gli spetta. Pertanto, la responsabilità della stazione appaltante negli appalti pubblici deve intendersi oggettiva, ossia svincolata dalla prova dell’elemento psicologico.

Come si è accennato in premessa, l’Adunanza Plenaria ha offerto sulla questione importanti chiarimenti, componendo soprattutto un contrasto emerso in relazione al danno curriculare.

Innanzitutto, viene chiarito che il G.A. in sede esclusiva è il giudice competente, atteso il carattere ampio ed omnicomprensivo dell’art. 133 lettera e) n° 1 cpa nel menzionare “le controversie relative alle procedure di affidamento”.

Ancora, il Supremo Consesso ha precisato che tale responsabilità è oggettiva soltanto in relazione all’elemento psicologico della stazione appaltante, ma non anche con riguardo agli altri elementi dell’art. 2043 cc, ossia fatto illecito, danno e nesso di causalità. Tali elementi, quindi, non potranno formare oggetto di presunzioni, ma, viceversa, dovranno essere rigorosamente provati, potendosi far ricorso a criteri equitativi e forfettari soltanto in relazione al “quantum debeatur”.

Ciò posto, per poter analizzare la risarcibilità del danno curriculare in modo chiaro e completo, occorre preliminarmente procedere al suo inquadramento sistematico nonché alla disamina della sua natura giuridica. Poiché si può già anticipare che si tratta di un danno non patrimoniale che attiene al ristoro per equivalente, è doveroso brevemente distinguere tra tale forma di risarcimento e il risarcimento in forma specifica in materia di appalti pubblici.

Il soggetto ingiustificatamente non aggiudicatario, in prima battuta, può ottenere l’aggiudicazione dell’appalto nonché il subentro nel contratto eventualmente già stipulato dall’aggiudicatario illegittimo, qualora provi che, in difetto della violazione perpetrata dalla PA, avrebbe ottenuto la commessa pubblica.

La possibilità di subentro è subordinata, dall’art. 124 comma 1° cpa, alla cosiddetta “doppia pregiudiziale”, ossia all’annullamento dell’aggiudicazione e alla dichiarazione di inefficacia del contratto nei confronti dello stipulante illegittimo. Infine, è bene precisare che la domanda del ristoro in forma specifica è un onere per il ricorrente e non una semplice facoltà: ai sensi del comma 2° dell’art. 124 cpa, infatti, la condotta della parte che non ha avanzato tale richiesta può essere valutata dal giudice ai sensi dell’art. 1227 cc.

Il favor per il risarcimento in forma specifica è da ravvisarsi, innanzitutto, in esigenze di effettività di tutela (ex. artt. 103, 111 e 113 Cost.), poiché soltanto ottenendo l’appalto il privato consegue il bene della vita a cui aspirava già ab origine. Ancora, in tal modo si evita che la PA venga gravata da richieste risarcitorie che comprometterebbero l’Erario Pubblico, con un vulnus al buon andamento ex art. 97 Cost.

Da ultimo, qualora il privato non riesca ad assolvere la prova – invero molto ardua – dell’incontestata spettanza dell’appalto, potrà ottenere il risarcimento in forma specifica sotto forma di riedizione della gara, facendo valere il suo diritto a competere secondo legalità in una gara equa e libera da vizi ed illegittimità.

Ed invero, in difetto della prova di cui sopra e qualora il G.A. ritenga di non dover disporre la rinnovazione della gara, il privato non aggiudicatario può ottenere il ristoro per equivalente sotto forma di “danno da perdita di chances”, che, in realtà, fino all’entrata in vigore del codice di procedura amministrativa era espunto dai danni risarcibili.

Il codice degli appalti del 2006, infatti, riconosceva il risarcimento per equivalente al “solo ricorrente avente titolo all’aggiudicazione”, ossia soltanto a colui che riusciva a provare che senza l’illegittimità della stazione appaltante avrebbe conseguito l’appalto. Invece, l’art. 124 comma 1° secondo periodo cpa si limita a richiamare “il risarcimento del danno per equivalente, subito e provato”: attesa la genericità della norma sotto il profilo soggettivo, essa può intendersi comprensiva anche del danno da perdita di chances. Pertanto, il non aggiudicatario che non riesca ad assolvere il suesposto onere probatorio può ottenere un ristoro economico per aver perso anche solo la probabilità di ottenere l’appalto a causa del fatto illecito della stazione appaltante. Con la precisazione, però, che non è risarcibile la possibilità meramente ipotetica o pretestuosa, dovendo il ricorrente provare le serie e concrete probabilità che avrebbe avuto di aggiudicarsi l’appalto qualora il confronto competitivo fosse stato realmente paritetico e legittimo.

Ed invero, il risarcimento per equivalente monetario va accordato non soltanto in difetto della prova della certa spettanza dell’appalto senza l’illegittimità della PA, ma anche laddove, pure in presenza di tale corredo probatorio, il risarcimento in forma specifica non risulti “in tutto o in parte possibile” oppure si presenti “eccessivamente oneroso” (art. 2058 cc).

Si pensi, a titolo esemplificativo, all’ipotesi in cui il contratto sia stato integralmente già eseguito dall’aggiudicatario illegittimo: non potendo disporsi, in favore del ricorrente, il risarcimento in forma specifica, egli avrà diritto ad un ristoro per equivalente monetario, che in base ai principi generali di cui all’art. 1223 cc, dovrebbe comprendere sia la perdita subita (“danno emergente”) sia il mancato guadagno (“lucro cessante”), purché siano conseguenza immediata e diretta dell’illecito.

Ed invero, poiché il danno emergente sarebbe perimetrato alle spese inutilmente sostenute per partecipare ad una procedura che poi si è conclusa con la mancata aggiudicazione, la giurisprudenza maggioritaria tende a negare che si sia in presenza di una voce risarcibile ex art. 1223 cc, con motivazioni invero condivisibili poiché improntate a basilari criteri di logicità e ragionevolezza.

Si sottolinea, infatti, come tali spese siano “a fondo perduto”, ossia costi ed oneri che l’impresa partecipante alla gara avrebbe comunque sostenuto, anche qualora fosse risultata aggiudicataria dell’appalto. Se così è, tali perdite economiche non possono considerarsi “conseguenza diretta ed immediata” del fatto illecito, difettando quindi completamente il nesso di causalità.

In forza di ciò, deve concludersi che tale danno sia risarcibile soltanto in sede di responsabilità precontrattuale della PA, laddove il privato lamenti la violazione del suo interesse a non essere coinvolto in trattative inutili (il c.d. “interesse negativo”), nonché la scorrettezza e la malafede della PA.

In ipotesi, invece, di responsabilità da mancata aggiudicazione, che pur in assenza dell’onere di provare l’elemento psicologico della stazione appaltante, è ed resta una responsabilità aquiliana, il danno risarcibile è parametrato al solo “interesse positivo”, ossia al lucro cessante.

E, a tal proposito, l’Adunanza Plenaria, con la pronuncia in commento, ha ritenuto che, in ipotesi di risarcimento per equivalente, a fronte della responsabilità della stazione appaltante per mancata aggiudicazione, il risarcimento debba consistere nel lucro cessante, a sua volta comprensivo del mancato utile e del più volte citato danno curriculare.

In relazione al mancato utile, tale voce di danno attiene al lucro cessante in senso stretto, in quanto si atteggia come danno patrimoniale. Infatti, il mancato utile rappresenta il guadagno che l’impresa avrebbe ricavato dall’esecuzione dell’appalto ed è risarcibile ex art. 124 comma 1° secondo periodo cpa, attesa la genericità della disposizione di cui si è dato già atto.

Ed è proprio il tenore della norma che richiede che il danno risarcibile sia stato “subito e provato” ad indurre il Giudice Amministrativo, con tale pronuncia, al ripudio di presunzioni o di danni “in re ipsa”, richiedendo, viceversa, che il danno da mancato utile sia oggetto di una prova precisa e rigorosa. Anzi, secondo il Consiglio di Stato nella sua più autorevole composizione, dovrebbe essere proprio il privato a vincere la presunzione a suo carico.

Non va sottovalutato, infatti, che il ricorrente vittorioso in sede giurisdizionale è un’impresa commerciale, che opera stabilmente ed assiduamente sul mercato. Pertanto, in base alle comuni ed elementari regole e massime di esperienza, è ragionevole presumere che un operatore economico, abituato alle logiche e all’alea del mercato, di fronte ad una mancata aggiudicazione non resti inerte ma ricerchi e reperisca altrove gli introiti economici di cui necessita. Di conseguenza, dovrà essere l’impresa aggiudicataria a provare di non aver potuto ricavare utili altrove perché ha impegnato mezzi e risorse nella procedura che poi si è conclusa illegittimamente. In mancanza di tale prova, varrà la presunzione contraria in forza della quale dovrà ritenersi che l’impresa abbia recepito, o avrebbe potuto percepire con l’ordinaria diligenza, ulteriori guadagni altrove, con la conseguente non risarcibilità del mancato utile.

Ancora, l’Adunanza Plenaria ha ritenuto privo di pregio l’orientamento in voga nella prassi di quantificare il mancato utile subito e provato dall’impresa nel 10% dell’importo delle opere non eseguite, ex art. 109 D.Lgs 50/16 in tema di recesso della PA appaltante.

Secondo i giudici di Palazzo Spada è del tutto arbitrario sovrapporre un criterio indennitario riguardante un comportamento che potrebbe essere del tutto legittimo come un recesso ad un “quantum” risarcitorio collegato ad un illecito aquiliano. Pertanto, qualora il privato ricorrente assolva il proprio onere probatorio di cui sopra, il risarcimento per mancato utile gli spetterà in misura integrale.

Infine, la pronuncia in oggetto specifica che in sede di accertamento del solo “quantum debeatur” può trovare applicazione l’art. 1226 cc, che stabilisce che qualora il danno non possa essere provato nel suo esatto ammontare, è liquidato dal giudice con valutazione equitativa.

Da ultimo, l’Adunanza Plenaria ha esaminato e risolto anche la questione della risarcibilità del controverso danno curriculare.

Tale danno consiste nel mancato incremento del curriculum professionale dell’impresa che non ha ottenuto la commessa pubblica. Difatti, è innegabile, soprattutto con riguardo a quegli appalti di rilevante importo, che la relativa aggiudicazione “fa curriculum”, poiché accresce la capacità dell’impresa affidataria di competere sul mercato e, di conseguenza, di ottenere maggiori chances di concludere altri contratti con la PA.

Infatti, aver ottenuto un elevato numero di appalti – soprattutto se di una certa importanza – denota serietà e affidabilità dell’impresa appaltante, influenzando anche l’andamento di una futura gara in punto di garanzia di esecuzione dell’opera pubblica.

Proprio per tali ragioni, in modo specularmente opposto, la giurisprudenza nega la risarcibilità del danno curriculare con riguardo alla cosiddetta “impresa leader”, ossia quell’impresa che ricopre un ruolo apicale nel settore economico di riferimento. Infatti, poiché l’impresa ha già acquisito la massima capacità di competere sul mercato, non può viceversa subire un danno a causa di una mancata aggiudicazione che non avrebbe comunque potenziato una capacità di stare sul mercato ormai giunta al suo apice.

Come si evince chiaramente da quanto esposto, il danno curriculare è riconducibile al lucro cessante soltanto in senso lato, in quanto si atteggia come danno non patrimoniale, investendo soltanto indirettamente e di riflesso profili economici. Poiché il più volte citato art. 124 comma 1° secondo periodo cpa menziona un generico “danno per equivalente”, l’espressione può intendersi riferita anche a tale danno non patrimoniale.

Ebbene, come già accennato, l’Adunanza Plenaria ha sanato un contrasto circa la risarcibilità di tale danno, in modo specifico riguardante l’onere probatorio a carico del privato.

Una prima tesi, infatti, ritiene tale danno “in re ipsa”, senza necessità di prova da parte del privato. Si argomenta in tal senso in base alla posizione del ricorrente, che, essendo un operatore economico, quotidianamente ricerca occasioni di potenziamento della propria capacità di competere sul mercato. Se così è, rientra nelle normali massime di esperienza ritenere che l’illegittima mancata aggiudicazione abbia comportato un decremento del curriculum professionale dell’impresa. Pertanto, qualora quest’ultimo provi tutti gli elementi dell’illecito aquiliano che fondano la responsabilità della stazione appaltante per l’omessa aggiudicazione, il danno curriculare dovrà ritenersi “in re ipsa”.

L’Adunanza Plenaria, nel respingere tale ricostruzione ermeneutica, ha aderito con convinzione all’opposta tesi che ritiene sempre necessaria la prova anche di tale danno.

In via preliminare, il Supremo Giudice Amministrativo ritiene che opinare diversamente finirebbe per contraddire non soltanto l’art. 124 cpa che, come già sottolineato, menziona il danno “subito e provato”, ma anche, più in generale, il principio dispositivo, che, seppur con i dovuti temperamenti, opera anche nel processo amministrativo.

Si ritiene, infatti, che nel processo amministrativo trovi applicazione il c.d. “principio dispositivo temperato dal metodo acquisitivo”, in forza dell’art. 64 cpa. Il comma primo stabilisce che le parti hanno l’onere di fornire soltanto “gli elementi di prova che sono nella loro disponibilità”, mentre il comma terzo attribuisce al giudice il potere di disporre, anche d’ufficio, i documenti utili ai fini della decisione che siano nella disponibilità della PA.

E’ opinione consolidata che il predetto temperamento trovi applicazione e ragione soltanto nei giudizi impugnatori, che, caratterizzandosi per la presenza dell’interesse pubblico e per la sua indisponibilità, denotano una forte asimmetria tra le parti in favore della PA, simmetria alla quale il principio acquisitivo tenta di sopperire.

Ma è altrettanto incontestato – e ribadito dalla sentenza oggetto di trattazione – che quanto esposto non opera nei giudizi risarcitori né nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva, in quanto si controverte su situazioni giuridiche rientranti nella “disponibilità” (ex art. 64 cpa) del privato, senza esigenze di riequilibrio.

Pertanto, poiché in ipotesi di danno curriculare la vertenza ha ad oggetto una pretesa risarcitoria caratterizzata dall’intreccio di diritti soggettivi e interessi legittimi da far valere innanzi al G.A. in sede esclusiva, il principio dispositivo troverà massima applicazione, con la conseguenza che dovrà essere il ricorrente a provare i fatti posti a fondamento del diritto fatto valere in giudizio (art. 2697 cc), ossia il mancato incremento del curriculum.

Con la precisazione che, attesa la difficoltà di provare con precisione l’ammontare del “quantum debeatur”, essendo un danno non patrimoniale, in sede di liquidazione potrà trovare applicazione l’art. 1226 cc (valutazione equitativa).

Infine, non può negarsi che liquidare il danno curriculare in mancanza della prova della sua esistenza significherebbe liquidare un danno quasi in funzione punitiva e riconoscere al regime della responsabilità civile una finalità sanzionatoria che non le compete, attesa l’acclarata funzione riparatoria.

In conclusione, occorre dare atto del largo seguito riscontrato da tale pronuncia in sede pretoria. Le ragioni del plauso sono da ravvisarsi nella ragionevolezza delle argomentazioni sollevate, grazie alle quali si è potuti giungere ad una soluzione che possa bilanciare adeguatamente responsabilità della PA, effettività di tutela, Erario Pubblico e principi in tema di onere probatorio.

GM

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