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LA SOTTOPONIBILITÀ A FALLIMENTO DELLE SOCIETÀ PUBBLICHE E IN HOUSE

DIRITTO AMMINISTRATIVO

 

LA SOTTOPONIBILITÀ A FALLIMENTO DELLE SOCIETÀ PUBBLICHE E IN HOUSE

 Silvia Riccetti

L’indagine sul tema della sottoponibilità a fallimento delle società pubbliche e delle in house si interseca, presupponendolo, con il problema della corretta individuazione della natura giuridica di tali soggetti e delle conseguenze che ne discendono in termini di riparto di giurisdizione.

Per collocare storicamente la trattazione è opportuno retrodatare il dibattito all’indomani della comparsa delle società pubbliche nel panorama che ha interessato, nel secolo scorso, un mutamento generalizzato dell’assetto statale italiano.

Con il termine “società pubbliche” si fa riferimento a quella particolare creazione nata in esito al processo di privatizzazione che ha interessato gran parte degli enti pubblici statali.

La situazione di indebitamento crescente, dovuta alla necessità di raffrontarsi con i parametri imposti dall’Unione Europea, aveva reso evidente l’opportunità, per lo Stato, di rinunciare la proprio ruolo di imprenditore.

Ruolo che era iniziato a decollare attorno ai primi anni del ‘900 con l’istituzione sia di Enti pubblici economici che di aziende autonome, potenziate a livello locale con la l. 103/1903.

Dopo la crisi del ’29, i cui riflessi si erano diffusi anche oltreoceano, si era ulteriormente accresciuto il fenomeno della partecipazione pubblica, attuato mediante l’acquisto, da parte dello Stato, di quote rilevanti di partecipazione in società private.

E’ qui che vengono poste le fondamenta per la diffusione del modello delle imprese pubbliche, di quelle entità, per così dire, che svolgono un’attività economica, a prescindere dalla veste formale assunta, sotto l’influenza dominante delle autorità pubbliche.

Fin qui, tuttavia, si assiste ad un momento espansionistico statale, connotato da situazioni di monopolio pubblico in cui appare fin da subito, però, il rischio di lesione della concorrenza.

Tale situazione, come si anticipava, subisce una drastica battuta d’arresto attorno agli anni ’90, quando si assiste ad un fenomeno opposto.

Con la crisi del modello dell’impresa pubblica si avvia un processo di duplice privatizzazione, prima solo formale, poi anche sostanziale, tradottasi nella comparsa di enti pubblici in forma societaria.

Inizialmente vi è un mero mutamento della forma giuridica dell’ente pubblico e dell’azienda pubblica, seguito soltanto dopo dalla dismissione del pacchetto azionario con il suo collocamento sul mercato.

Il ricorso alla forma societaria, in questa fase, si rende necessario per esigenze di contenimento della spesa pubblica e di efficientizzazione nell’offerta del servizio al pubblico.

La struttura societaria, infatti, funge da propulsore per il recupero e la migliore gestione dell’attività svolta dagli enti o dalle aziende, senza che si perda di vista, tuttavia, la finalità pubblicistica di fondo.

In tale fase, infatti, nel timore che la privatizzazione quasi coatta potesse comportare una sorta di vuoto nella tutela degli interessi pubblici, si iniziano a pensare delle forme di controllo volte a garantirne l’attuazione.

Non solo si assiste alla creazione di Authorities, dotate del ruolo di controllare e regolamentare il servizio pubblico, ma si ricorre ad ulteriori accorgimenti al fine di assicurare la permanenza del prioritario interesse pubblico.

Basti pensare ai cosiddetti “nuclei stabili”, ovvero obblighi in base ai quali la privatizzazione si sarebbe attuata mediante la cessione del pacchetto a soggetti predeterminati, con la conseguente collocazione sul mercato delle quote residue di azioni. Ancora si immagini la previsione di tetti al possesso azionario, ovvero la fissazione di limiti al possesso di azioni, tanto per i singoli quanto per gli imprenditori associati, in modo tale da favorire la diffusione di public companies.

E ancora si pensi alla “golden share”, tipologia di azione la cui proprietà viene riservata al soggetto pubblico e a cui sono connessi dei poteri che attribuiscono al possessore l’effettivo controllo sulla società.

Ebbene in situazioni di questo genere, si tratti di imprese pubbliche o di enti pubblici in forma societaria, in fattispecie cioè connotate da un’inestricabile commistione tra modulo societario e finalità pubblicistica, è evidente come sorgano spontanei due quesiti.

Il primo è quale natura giuridica riconoscere a tali strutture; il secondo è come, il penetrante controllo esercitato dallo Stato si coniughi con la possibilità, per queste, di agire concorrenzialmente sul mercato e, dunque, di fallire.

Rispetto al primo interrogativo, a fronte di un’iniziale chiusura nell’ammettere la compatibilità tra veste societaria e finalità pubblica, si è oggi giunti ad una sostanziale accettazione del modello.

Accettazione che si è tradotta nel riconoscimento della neutralità della struttura societaria.

Già la Corte Costituzionale (s. 446/93) aveva chiarito come il ricorso alla formula societaria, in particolare per gli esiti del processo di privatizzazione, si spiega con il tentativo di migliorare l’efficacia e la funzionalità dell’attività, ribadendo tuttavia l’assoggettamento delle società al controllo del Giudice contabile, in virtù dell’innegabile rilievo pubblicistico dalle stesse mantenuto.

Affermazioni, queste, ribadite anche successivamente dal Consiglio di Stato, che ha sempre negato la possibilità di ravvisare, dietro la veste formale, un fenomeno privatistico pleno iure.

Occorre valorizzare, infatti, la strumentalità pubblicistica, l’assenza di una causa lucrativa ex art. 2217 c.c. e la presenza di regole derogatorie rispetto a quelle dettate dal codice civile.

Tali deroghe, perché siano indicative non di una mera deviazione dalla disciplina ordinaria, ma denotino una reale finalizzazione pubblicistica dell’attività, devono tradursi in anomalie strutturali e funzionali, tali da evidenziare la stretta incidenza che il soggetto pubblico esercita ab exetrno.

Non basta il semplice potere di nomina, da parte dell’ente pubblico, dei membri del C.d.A., né l’istituzione per atto legislativo: occorre piuttosto, secondo un orientamento più rigoroso e restrittivo, individuare indici sintomatici ulteriori.

Ci si riferisce, ad esempio, all’attribuzione di poteri, il cui esercizio produce effetti sulle fondamentali determinazioni degli organi societari, in capo a soggetti pubblici diversi dai soci.

Un esempio per tutti è quello della società Poste Italiane.

Qui il fatto che lo statuto sia definito congiuntamente dal Ministero del Tesoro e delle Comunicazioni, che il primo, ovvero azionista unico, agisca d’intesa con il secondo e che quest’ultimo stipuli con la società un contratto di programma che tiene conto delle direttive del Presidente del Consiglio dei Ministri, ha condotto i giudici a ritenere la completa attrazione della società nell’orbita pubblicistica.

Ciò, tuttavia, non si è tradotto in un esonero della stessa dall’assoggettamento a procedure concorsuali.

Venendo per l’appunto al secondo quesito, nonostante fosse profilo dibattuto in passato, la giurisprudenza più recente si è assestata su posizioni favorevoli ad ammetterne la fallibilità.

E’ nel 2013 che si è registrata una significativa pronuncia della Cassazione civile, con cui si è rimarcata l’autonomia del rapporto tra società a partecipazione pubblica ed ente territoriale.

Autonomia che, da un lato giustifica la giurisdizione del G.O. per danni arrecati dagli amministratori al patrimonio della società, separato da quello dei soci, e dall’altro comporta che l’ente possa incidere sul funzionamento e sull’attività della società mediante le norme del diritto societario, senza che le deroghe ad esse impattino sul modo in cui la società stessa opera sul mercato.

Soprattutto si è valorizzato il fatto che le società, in quanto operanti sul mercato, debbano necessariamente assumere il rischio di insolvenza, per evitare un vulnus ai principi di uguaglianza e di tutela dell’affidamento nei soggetti che entrano in contatto con esse.

Il rispetto delle regole della concorrenza, infatti, impone la parità di trattamento tra quanti operano in uno stesso mercato con stesse forme e modalità.

Se questo è attualmente lo stato dell’arte in tema di società pubbliche, simile interrogativo si è posto anche per le società in house.

La loro più recente comparsa nel panorama italiano, dopo che la sentenza Teckhal del ’98 ne ha aperto le porte in ambito europeo, ha reso l’istituto oggetto di notevoli incertezze, molte delle quali in via di superamento per effetto delle nuove direttive in materia di appalti.

Solo per accennarne una, in particolare, basti pensare alla vexata quaestio relativa all’apertura al capitale privato, oggi ammessa a determinate condizioni.

Dai tratti caratterizzanti l’istituto, invero, si è sempre pacificamente riconosciuto come l’in house altro non sia che una “longa manus” del soggetto pubblico.

Ci si trova, infatti, quasi davanti ad una sorta di delegazione interorganica, nell’ottica di coniugare il principio della concorrenza con quello di auto-organizzazione.

Anziché esternalizzare il servizio, sia esso essenziale o meno, attribuendolo a terzi, l’amministrazione sceglie di affidarlo ad una società formalmente diversa ma di fatto sottoposta al suo penetrante controllo.

Si parla a tal proposito di controllo analogo a quello che l’ente pubblico può esercitare sui propri organi e che si sostanzia nel riconoscimento di poteri sull’assunzione di decisioni strategiche, qualitativamente e quantitativamente maggiori rispetto a quelli riconosciuti dal diritto societario alla maggioranza sociale.

E’ richiesta una totale affinità di intenti tra il soggetto pubblico e la società in house, di modo che quest’ultima svolga la sua attività in maniera prevalente a favore dell’ente partecipante, ovvero in misura superiore all’80%.

Ente partecipante che, inoltre, inizialmente doveva figurare quale unico socio.

Oggi tuttavia si è ammesso sia il riconoscimento di forme di in house cosiddetto “frazionato” tra più enti pubblici, purchè la società risulti soggetto strumentale comune di tutti gli enti soci, a prescindere dalla quota di capitale posseduta da ciascuno.

A tal fine gli organi decisionali della società devono essere composti dai rappresentanti di ciascuna P.A. partecipante; queste ultime devono essere in grado di esercitare congiuntamente un’influenza dominante, avendo cura che la controllata non persegua interessi contrari a quelli propri delle medesime.

Accanto a ciò si è consentita l’apertura al capitale privato, superando l’impostazione precedente che vedeva in tale possibilità un ostacolo alla piena operatività dell’istituto.

Apertura, questa, che va opportunamente graduata: è pur sempre necessario, infatti, che il capitale privato non comporti controllo o potere di veto e che sia previsto da disposizioni normative nazionali, conformemente ai Trattati.

In virtù dei predetti caratteri si è sempre inferito, quanto a natura giuridica, che le società in house altro non siano che delle articolazioni proprie della P.A. partecipante, senza che sorgessero dubbi sulla loro natura pubblicistica.

Non deve essere fuorviante l’uso del termine “società”: questo vale come paradigma organizzativo, senza che ad esso si attribuiscano connotazioni ulteriori. Vi è analogia di situazioni, responsabilità e giurisdizioni rispetto alla P.A. da cui promanano.

Ecco dunque che, rispetto all’ipotesi precedente, non si esclude qui la giurisdizione contabile con riguardo al danno cagionato dagli amministratori alla società in house, in quanto pur essendovi una distinzione tra i patrimoni, non vi è quanto a titolarità giuridica.

Se tuttavia appare limpida la ricostruzione della loro natura giuridica, più discussa è la problematica del fallimento.

Ragionando in termini di parallelismo saremmo indotti a ritenere che la non fallibilità del soggetto pubblico si propaghi in capo all’in house se, come si è sempre sostenuto, questo altro non è che una longa manus del primo.

Di fatti vi è una certa giurisprudenza, soprattutto di merito, che, partendo dalla constatazione dell’anomalia del fenomeno de qua nel panorama del diritto societario, ha sostenuto l’assenza di distinzione tra ente pubblico e società e dunque la non fallibilità di quest’ultima.

L’in house interamente partecipata, si è detto, non è sottoposta a liquidazione fallimentare poiché non è un centro decisionale autonomo dall’ente partecipante.

O, al più, pur non considerandola a tutti gli effetti un soggetto pubblico pleno iure, secondo altre argomentazioni, non è riconducibile neanche alla categoria dell’imprenditore commerciale.

Diversamente, però, si è fatta strada anche una diversa impostazione, che prende le mosse dalla pronuncia della Cassazione del 2013 sulle società pubbliche.

Di essa, infatti, vengono sposate le medesime argomentazioni, specificando come l’aver attribuito la giurisdizione alla Corte dei Conti sugli atti pregiudizievoli compiuti a danno della società dai propri organi interni, nell’in house, non esclude di per sé l’assoggettabilità a procedura concorsuale.

Si consideri, infatti, come le condotte possono essere plurioffensive e pertanto lesive sia del patrimonio pubblico che pregiudizievoli per creditori e terzi.

La peculiarità della governance pubblicistica, inoltre, non fa scattare automatismi in ordine alla mancanza assoluta di veste imprenditoriale.

Nel caso ad esempio di in house che non esercita servizio pubblico essenziale di esclusiva competenza pubblicistica, può esservi una finalità che se pur non propriamente lucrativa, è quantomeno rivolta ad un pareggio di bilancio.

L’iscrizione nell’apposito registro delle imprese, inoltre, determina un volontario assoggettamento alla disciplina privatistica, compreso il rischio della insolvenza, tanto più quando si possa riscontrare un affidamento riposto dai terzi

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