L’ATTO AMMINISTRATIVO ANTICOMUNITARIO

L’ATTO AMMINISTRATIVO ANTICOMUNITARIO

Pubblicato il 25/10/2015 autore Stefania Martinez

La dottrina e la giurisprudenza si sono interrogate, per lungo tempo, sulle sorti della norma nazionale contrastante con l’ordinamento comunitario. Tuttavia, la violazione del diritto comunitario può avvenire non soltanto per mezzo di atti statali generali e astratti, ma anche di atti particolari e concreti, ossia di  provvedimenti amministrativi che concretizzano la funzione pubblica esercitata.

In tale ottica, è oggetto di dibattito, a tutt’oggi aperto, in dottrina e giurisprudenza, la forma di invalidità dell’atto amministrativo anticomuniratio ed il conseguente regime processuale, nonché la non obbligatorietà di esercitare il potere di autotutela da parte della P.A. a fronte di tale atto e, nell’ipotesi di mancato esercizio di tale potere,  i restanti profili di responsabilità.

In generale, l’atto amministrativo si definisce anticomunitario quando contrasta con una disposizione comunitaria dotata di efficacia diretta (quale il regolamento, la direttiva self-executing o, a fortiori, il Trattato stesso), ossia atti che non necessitano misure attuative interne ai fini dell’introduzione nell’ordinamento nazionale.

Più in particolare, si distinguono due ipotesi di antinomia  tra l’atto amministrativo e le norme dell’Unione. Se, da un lato, si ha illegittimità comunitaria diretta quando l’atto amministrativo  contrasta direttamente con il diritto comunitario, invece, si definisce anticomunitarietà derivata, dall’altro lato, l’ipotesi in cui l’atto amministrativo è conforme alla norma interna, la quale, però, contrasta con la norma comunitaria.

Ciò posto, si può passare ad esaminare il primo profilo di indagine, ossia il regime giuridico dell’atto amministrativo anticomunitario.

A tale specifico riguardo, pare opportuno sottolineare, come sostenuto in dottrina, che restano estranei da tale analisi gli atti amministrativi anticomunitari in senso lato, ossia gli atti generali e i regolamenti. Questi ultimi, invero, costituiscono delle fonti normative, dirette a disciplinare una serie indistinta di situazioni giuridiche e non soltanto ipotesi specifiche. Ne deriva che, qualora il regolamento sia anticomunitario, esso è disapplicabile, posto che la disapplicazione costituisce rimedio esperibile nei confronti dell’atto in questione per un orientamento ventennale della giurisprudenza amministrativa.

Di contro, la stessa giurisprudenza nega la disapplicazione degli atti generali (ossia atti con i quali si avvia una procedura i cui destinatari sono indeterminati solo ex ante e non anche dopo la conclusione della medesima), che, nell’ipotesi di loro anticomunitarietà, seguono le sorti del provvedimento amministrativo con effetto incisivo su interessi legittimi, conservativi o pretensivi, del singolo.

Orbene, al fine di impostare adeguatamente la questione inerente al regime dell’atto amministrativo anticomunitario, avente contenuto concreto e volto a uno o più destinatari determinati, occorre premettere che la patologia da cui l’atto è investito dipende dalla concezione con cui si ricostruiscono i rapporti tra ordinamento nazionale e comunitario.

In tale prospettiva ricostruttiva, secondo l’impostazione della Corte Costituzionale, l’ordinamento interno e quello comunitario sono due ordinamenti separati e autonomi, anche se coordinati tra di loro. Da tale impostazione derivano, dunque, due conseguenze: a) la norma interna contrastante con il diritto comunitario può essere solo disapplicata; b) la norma comunitaria non può fungere da parametro di legittimità dell’atto amministrativo nazionale.

Alla luce di tale impostazione, in un’ipotesi di illegittimità derivata, la norma interna contrastante con il diritto comunitario deve essere disapplicata e, di conseguenza, l’atto amministrativo è nullo per mancanza della norma attributiva del potere. In altri termini, l’atto è nullo ai sensi dell’art. 21septies L. 241/90 per carenza di potere in astratto. Il che si verifica in quanto, con maggior impegno esplicativo, la norma comunitaria, che appartiene ad altro ordinamento separato, non può costituire fonte del diritto amministrativo ossia, più in particolare, non può essere norma attributiva del potere.

Di contro, la lacuna sopra descritta non si verificherebbe seguendo l’impostazione monista.

Per vero, i fautori di tale concezione, sostenuta, peraltro, dalla Corte di Giustizia, oltre che dalla giurisprudenza amministrativa maggioritaria, ritengono che l’ordinamento comunitario è inserito nell’ordinamento nazionale. Ne deriva che le norme dell’ordinamento comunitario integrano quelle dell’ordinamento interno.

Da tale assunto si deduce che, in virtù del primato del diritto comunitario sul diritto interno, le norme comunitarie rendono ipso iure inapplicabile qualsiasi disposizione nazionale in antinomia con esse, nonché impediscono, per il futuro, la formazione di atti normativi nazionali anticomunitari. Sulla base di tale impostazione, il giudice nazionale deve applicare integralmente il diritto comunitario. Ha, altresì, l’obbligo di tutelare i diritti che norme dell’Unione attribuiscono ai singoli, disapplicando le norme interne contrastanti.

Ora,  se si sposa la teoria monista, il diritto comunitario è, di certo, norma idonea ad attribuire e regolare il potere della Pubblica Amministrazione. Ne consegue che l’incompatibilità  del diritto interno con il diritto comunitario non può non avere come conseguenza l’invalidità dell’atto sotto forma di annullabilità per violazione di legge.

Rispetto a quest’ultimo profilo, secondo tale approccio interpretativo, l’annullabilità opera sia per l’illegittimità comunitaria indiretta sia per quella diretta.

Più in particolare, in ordine all’illegittimità comunitaria diretta, il Consiglio di Stato ha ribadito che la violazione del diritto comunitario implica un vizio di mera legittimità, con conseguente annullabilità dell’atto amministrativo, e ha negato la configurabilità della nullità virtuale dell’atto ai sensi dell’art. 1418 c.c., per violazione della norma imperativa (qui rappresentata dal diritto comunitario). Il fondamento di tale tesi si rinviene nella tassatività delle ipotesi di nullità, così come previste dall’art. 21septies L. 241/90 e nella inoperatività della nullità virtuale nel sistema amministrativo.

Quanto a quella derivata, invece, vi è un ulteriore orientamento giurisprudenziale che, pur aderendo ad una visione integrata dei due orientamenti e riconoscendo il regime  dell’annullabilità come regola dell’atto amministrativo comunitariamente illegittimo, effettua  una distinzione aggiuntiva tra le norme da cui deriva l’atto comunitario.

 A tale specifico riguardo, tale tesi puntualizza che si è in presenza di un’ipotesi di annullabilità qualora la norma, contrastante con il diritto comunitario, si limiti a regolare l’esercizio del potere, il quale viene, invece, attribuito da altra norma dell’ordinamento (conforme al diritto comunitario).

Diversamente, si ha un atto nullo per difetto assoluto di attribuzione nell’ipotesi in cui  tale atto è assunto sulla base di una norma interna, contrastante con il diritto comunitario, attributiva del potere amministrativo.

Per quanto sin qui esposto, si può ritenere che tale approccio ermeneutico propone un modello di giustiziabilità anticomunitaria basato su una regola (annullabilità) ed una eccezione (nullità esclusivamente nell’ipotesi in cui la norma interna è quella attributiva del potere), che avvalora la tassatività delle ipotesi di cui all’art. 21septies L.241/90, tra le quali non ricorre la violazione del diritto comunitario.

Delineato il regime dell’annullabilità quale regola dell’atto amministrativo anticomunitario, sotto il profilo processuale, il soggetto che vuole impugnare l’atto in oggetto deve farlo nel termine decadenziale di sessanta giorni.

Sul punto, pare opportuno precisare che, a fronte di illegittimità comunitaria derivata, il giudice amministrativo adito deve, in primis, disapplicare la norma interna contrastante con il diritto comunitario (norma che, peraltro, fino a quel momento è stata valida ed efficace nell’ordinamento); in secundis, annullare l’atto amministrativo conseguente.

 Infine, corollario processuale dell’operatività del regime della annullabilità, tanto per l’illegittimità diretta quanto per quella indiretta, è l’inoppugnabilità dell’atto fuori dal termine decadenziale.

   Tuttavia, si registra una tesi minoritaria in dottrina e non avallata dalla giurisprudenza, in base alla quale, in forza del primato del diritto comunitario sul diritto interno, indipendentemente dal profilo sostanziale, l’atto amministrativo anticomunitario deve essere disapplicato dal giudice amministrativo, anche oltre il termine di decadenza.

I sostenitori di tale impostazione muovono, in primo luogo, dalla considerazione per cui la disapplicazione delle norme interne contrastanti con le norme comunitarie ad effetto diretto costituisce un principio generale, in virtù del primato del diritto comunitario su quello interno.

L’atto amministrativo, dunque, reso inoppugnabile fuori dal termine di decadenza, avrebbe una resistenza maggiore delle norme interne nelle ipotesi di contrasto con il diritto comunitario.

Alla luce di ciò, l’atto amministrativo anticomunitario deve poter seguire la stessa sorte dell’atto normativo che in trovi in analoga situazione. Ciò in quanto solo prescindendo dalla natura dell’atto si può garantire l’effettiva tutela dei singoli e una reale parità di trattamento. In definitiva, la tesi in esame si fonda sulla totale equiparazione tra atto amministrativo e atto normativo comunitariamente illegittimi.

Secondo tale impostazione, mentre l’atto amministrativo contrastante con la norma interna è soggetto al regime della annullabilità, invece, l’invalidità dell’atto anticomunitario può comportare effetti giuridici ulteriori, quale la disapplicazione. Più in particolare, l’invalidità dell’atto anticomunitario produce gli stessi effetti giuridici della norma interna anticomuniaria. In tal senso, l’atto amministrativo comunitariamente illegittimo, indipendentemente dalla qualificazione del profilo patologico in termini di nullità o annullabilità, va disapplicato, anche oltre il termine di decadenza, dal giudice ordinario o dal giudice amministrativo.

Rispetto a quest’ultimo profilo, occorre  precisare che  il G.O. disapplica il provvedimento anticomunitario in base al suo normale potere di disapplicazione derivante dall’art. 5 L.A.C.  Tuttavia, al G.O. non può essere domandato l’annullamento del provvedimento comunitario lesivo di un diritto soggettivo, poiché, in base ai criteri del riparto di giurisdizione ed, in particolare, alle ipotesi di giurisdizione esclusiva del G.A., solo quest’ultimo giudice è competente ad annullare il provvedimento amministrativo.

   La tesi sopra esposta non ha trovato, per vero, l’avallo della giurisprudenza comunitaria. La Corte di Giustizia, infatti, se, da un lato, ha affermato che spetta al legislatore nazionale individuare il giudice competente e gli strumenti di tutela idonei da apprestare ai diritti riconosciuti dalle norme comunitarie ad effetto diretto, dall’altro lato, ha anche chiarito che la disapplicazione dell’atto amministrativo anticomunitario non è il rimedio processuale imposto dall’ordinamento comunitario. Opinando in tal senso, la fissazione di un termine decadenziale di impugnazione dell’atto nell’ordinamento interno non costituisce un ostacolo alla piena affermazione del diritto comunitario.

Cionondimeno, i giudici comunitari, nel caso Santex, precisano che la previsione di termini di impugnazione deve, comunque, essere conforme ai principi comunitari di equivalenza ed effettività, volti a garantire che i ricorsi avverso gli atti amministrativi siano efficaci e  rapidi.

È noto che il principio comunitario di equivalenza prevede che la tutela dei diritti riconosciuti a livello comunitario avvenga tramite modalità procedurali di ricorsi equivalenti a quelli con cui vengono tutelati i diritti interni.

È, altresì, vero che il principio di effettività è volto a tutelare l’effettiva posizione del ricorrente. In tal senso, la disciplina interna sui ricorsi non può rendere impossibile o difficile l’esercizio dei diritti riconosciuti all’interessato dal diritto comunitario.

Alla luce di ciò, la sussistenza di un termine decadenziale non è astrattamente in contrasto con il principio di effettività; tuttavia, a parere dei giudici comunitari, è opportuno compiere una valutazione della norma da effettuarsi nel caso concreto, ossia in base al suo ruolo all’interno del procedimento. Ne consegue che, nell’ipotesi in cui, nel singolo caso, il principio in esame non possa operare a causa delle disfunzioni delle modalità processuali dei ricorsi interni, il diritto comunitario si deve salvaguardare ricorrendo, quale strumento ultimo, alla disapplicazione. Detto diversamente, anche in tal caso, al fine di tutelare i diritti attribuiti al singolo dal diritto comunitario, il giudice nazionale deve disapplicare la norma nazionale contrastante con il diritto comunitario. Con maggior impegno esplicativo, si può dire che, a fronte dell’autonomia giurisdizionale, il rimedio estremo, nei casi di illegittimità comunitaria, è dato dalla disapplicazione. In quest’ultima ipotesi, invero, come la giurisprudenza interna ha avuto modo di evidenziare, non si tratterebbe di una disapplicazione dell’atto amministrativo comunitariamente illegittimo, bensì della disapplicazione della norma interna che prevede il termine di decadenza.

Per vero, la tesi in oggetto è stata recentemente sconfessata anche dal Supremo Consesso amministrativo che ha ritenuto impossibile estendere la disapplicazione dei regolamenti illegittimi fino ad includere atti non normativi. Il che in quanto alcuni principi quali quello di legalità e di gerarchia delle fonti non sono facilmente trasferibili sul piano dell’atto.

   Sotto il diverso profilo della responsabilità, posto che l’atto amministrativo anticomunitario scaduti i termini di decadenza diviene inoppugnabile, esclusa la tesi della disapplicazione, all’amministrato non resta che lo strumento rimediale del risarcimento dei danni. Si tratta, per vero, di un risarcimento che deriva dalla violazione del diritto europeo, nonché dal principio di leale collaborazione tra gli Stati membri, la cui verticalità europea si riproduce in verticalità interna.

Sul punto, tuttavia, pare opportuno precisare che l’azione di risarcimento del danno è esclusa se l’amministrazione ha esercitato il potere di autotutela.

   Si pone, a tal riguardo, il problema delle condizioni di esercizio del potere di autotutela dell’atto comunitariamente illegittimo.

Orbene, ai fini di un inquadramento della tematica, necessita, seppur brevemente, precisare che prima della L. 15/2005 la revoca e l’annullamento venivano sussunti sotto il più generale termine revoca. Quest’ultima veniva intesa, di fatto, come generico potere di ritiro degli atti da parte della Pubblica Amministrazione. L’elaborazione dottrinale e l’evoluzione della giurisprudenza hanno portato ad una positivizzazione dei due istituti negli artt. 21quinquies e 21nonies L. 251/90.

Più in particolare, ai sensi dell’art. 21quinquies la revoca attiene al rapporto. Con maggior impegno esplicativo, tale potere consiste in un ripensamento della P.A., conseguente ad una rivalutazione dell’interesse sotteso al rapporto creato con l’emanazione dell’atto che si intende ritirare. Il che si può verificare anche a seguito di sopravvenienze che impongono la rivalutazione dell’interesse pubblico originario. Sul punto, la giurisprudenza richiede che l’interesse alla rimozione ex nunc degli effetti sia attuale.

Diversamente dalla revoca, l’annullamento d’ufficio attiene all’atto e non al rapporto. Tale potere, ai sensi dell’art. 21noniens, si fonda sulla illegittimità originaria del provvedimento. Tuttavia, accanto all’interesse al ripristino della legalità violata dall’atto viziato, è necessario che sussista un ulteriore interesse concreto e attuale. Al fine di curare quest’ultimo interesse la P.A. intende ritirare l’atto, caducandone gli effetti ex tunc.

Alla luce di ciò, posta l’illegittimità dell’atto, la P.A. deve bilanciare l’interesse pubblico all’annullamento con la necessità di non colpire posizioni giuridiche definite e consolidate. Ne deriva che l’annullamento d’ufficio viene qualificato in termini di potere discrezionale.

Chiarito ciò, la dottrina si è interrogata in ordine alla natura di tale potere a fronte di atti amministrativi anticomunitari. Con maggior impegno esplicativo, ci si è chiesti se, nel caso in oggetto, l’autotutela resti un potere discrezionale o diventi vincolato, in virtù del principio del primato del diritto comunitario.

Sul punto, si registrano due tesi.

Secondo un primo orientamento, l’esercizio del potere di autotutela è doveroso. In tal senso, il ritiro degli atti anticomunitari è automatico in quanto prescinde dal bilanciamento con altri interessi. Detto altrimenti, l’interesse concreto e attuale alla rimozione dell’atto è in re ipsa e, al contempo, prevalente su qualsiasi altro interesse privato volto al mantenimento dell’atto stesso.

A tale impostazione è stato obiettato che la natura discrezionale del potere in esame si ricava dalla stessa formulazione dell’art. 21noniens di cui alla L. 241/90, che richiede la sussistenza di un interesse pubblico attuale e prevalente alla rimozione. Secondo questo diverso approccio ermeneutico, l’art. 21nonies non può essere derogato e, di conseguenza, il potere di annullamento d’ufficio non può ritenersi doveroso, neanche quando si tratti dell’annullamento d’ufficio di un atto anticomunitario. L’unico profilo di doverosità, come il Consiglio di Stato in più decisioni ha avuto modo di precisare, è nell’avvio del procedimento di riesame da parte della P.A. Di fatto, l’amministrazione procedente è libera di definire discrezionalmente il procedimento stesso. In ordine a tale procedimento, a parere dei giudici amministrativi, anche a fronte di rimozione dell’atto amministrativo anticomunitario, resta, invece, di particolare rilievo l’osservanza delle garanzie che l’ordinamento appresta per i soggetti incisi dall’atto di autotutela, quale la partecipazione degli stessi al relativo procedimento.

Non manca di rilevare che il diritto comunitario non obbliga la P.A., in linea di principio, a riesaminare una decisione amministrativa anche se questa ha acquisito carattere definitivo. Tuttavia, la Corte di Giustizia (caso Kempter) ha avuto modo di precisare che, in particolari circostanze, la P.A.  può essere tenuta a riesaminare una decisione amministrativa divenuta definitiva, in forza del principio di leale cooperazione di cui all’art. 4, comma 3 TUE. Il che si verifica quando, esauriti i rimedi giurisdizionali interni, vi è, tuttavia, un’interpretazione sulla disposizione pertinente da parte della stessa Corte di Giustizia. Più in particolare, tale obbligo sussiste quando la sentenza del giudice nazionale è di ultima istanza ed è fondata su un’interpretazione errata del diritto comunitario, adottata senza aver adito in via pregiudiziale la Corte di Giustizia. Inoltre, il potere di riesame sussiste nonostante che il ricorrente non abbia invocato il diritto comunitario nel ricorso giurisdizionale di diritto interno avverso la decisione in esame.

   In definitiva, gli atti amministrativi anticomunitari pongono due ordini di problemi. Da un lato, emerge la tematica dell’efficacia degli atti amministrativi anticomunitari divenuti inoppugnabili, che si basa sul bilanciamento tra principi di effettività, equivalenza della tutela e certezza del diritto. Dall’altro lato, si pone l’attenzione sulla tutela dell’amministrato verso l’atto amministrativo anticomunitario, la quale non trova, allo stato attuale, una sua definizione per la contrapposizione tra norme interne (di decadenza e di definizione della nullità) e principi comunitari, quali quelli della leale collaborazione, dell’effettività della tutela giurisdizionale, nonché della primazia del diritto comunitario.

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