Nullità del provvedimento amministrativo: profili sostanziali e processuali.

CORSO MAGISTRATURA VIDEO 2015-2016

Nullità del provvedimento amministrativo: profili sostanziali e processuali.

 ELEONORA ZAVAGLI

L’atto amministrativo (ed in particolar modo il provvedimento, ovvero l’atto conclusivo  dell’iter procedimentale attraverso il quale la P.A. manifesta ed esterna la propria volontà) può essere affetto da numerose patologie, distanziandosi dal paradigma giuridico di riferimento in vari modi, quantitativamente differenti e più o meno gravi.

La sanzione che consegue alla violazione dello schema legale -diversa a seconda della patologia che affligge l’atto- trova la sua ratio nel principio di legalità,  che si pone pertanto quale limite e fondamento del potere amministrativo (dovendo, appunto, tale potere essere espressamente attribuito ex lege).

Le patologie sono quindi numerose, ponendosi in una sorta di climax ascendente culminante con l’invalidità, ove si assiste ad una compromissione e ad una lesione dell’interesse concreto (che la norma violata intende tutelare) e al cui interno si addiviene ad una divisione in sottospecie, comprendenti la sanzione dell’annullabilità (ove ad essere viziato -in base alla tripartizione ex art. 21 octies L. 241/90- è uno degli elementi costitutivi e la norma è posta a tutela di interessi particolari) e la più grave sanzione della nullità, di cui si darà conto nel proseguo.

Risulta però utile addivenire ad una breve disamina delle altre patologie, così da avere contezza del quadro generale e così da poter svolgere una analisi più articolata e completa.

In primis rileva la categoria della mera irregolarità, ove l’incisione non compromette la validità e l’efficacia del provvedimento.

In secundis viene in rilievo la categoria della opportunità, ove i vizi sono qualificabili come attinenti al merito ovvero relativi al contenuto.

Ancora, meritano attenzione le categorie della imperfezione, della inefficacia e della ineseguibilità (ove l’atto è temporalmente inefficace stante il sopravvenire di un fatto ostativo) così come rileva la categoria della illegittimità (sempre quale predicato dell’atto) da contrapporre alla illiceità del contegno tenuto da una P.A..

Maggiori dubbi ha invece suscitato la categoria -di origine dogmatica e pretoria- della inesistenza, da intendersi quale in-qualificazione ovvero impossibilità di ricondurre la fattispecie concreta nello schema astratto di (ipotetico) riferimento, configurandosi così un quid facti irrilevante per il mondo del diritto. Trattasi di una categoria che, a seguito della codificazione della nullità ex art. 21 septies L. 241/90, è ora grandemente ristretta a livello di applicazioni pratiche riferendosi solo al provvedimento abnorme o a quello materialmente inesistente (poiché mai adottato dalla P.A.) o ancora adottato ioci e/o iocendi causa.

Tale ultima categoria, sulla cui esistenza-qualificazione-cittadinanza la giurisprudenza continua ancora a interrogarsi, acquista particolare risalto poiché, a seconda che un atto venga considerato nullo o appunto inesistente, vi saranno conseguenze ben diverse impattando tale dicotomia sul regime della autotutela (inconfigurabile in caso di provvedimento inesistente ma possibile, per una parte di giurisprudenza,  ex art. 21 quienquies in caso di provvedimento nullo con efficacia durevole);  della sanatoria (impossibile se l’atto è inesistente) e della eventuale sussistenza di responsabilità in capo alla P.A. (in quanto l’atto nullo è comunque soggettivamente riconducibile alla P.A. mentre quello inesistente non è mai imputabile alla stessa).

Tornando alla categoria della nullità, essa ha avuto una evoluzione storico-legislativa travagliata, dandosi così implicitamente contezza delle principali problematiche sottese alla sua configurabilità (in linea ipotetica-teorica), alle sue applicazioni ed infine a problematiche strettamente processuali.

Un tempo, il giudice amministrativo aveva solo il potere di decidere il ricorso in ipotesi di presenza dei tre vizi caratterizzanti l’annullabilità (ovvero violazione di legge, eccesso di potere, incompetenza) mentre  mancava una espressa previsione relativa alla nullità.

Tale carenza si spiegava facilmente con la difficoltà di trasporre nell’ambito amministrativo (ove il provvedimento è immediatamente eseguibile e ove si privilegia la certezza del diritto) il regime della nullità, nato e calibrato in ambito civilistico (ove si caratterizza per la mancanza ab origine di effetti, per la legittimazione assoluta, per la rilevabilità ex officio da parte del giudice e per l’implicito riferimento alla contrattualistica, ove lo schema è bilaterale-consensuale-sinallagmatico e quindi ben lontano dalla forma e dalla ratio del provvedimento amministrativo, considerato manifestazione unilaterale del potere autoritativo della P.A.).

La necessità di garantire una tutela effettiva a situazioni fino a quel momento non considerate dal diritto e la stessa evoluzione del processo (dalla legittimità dell’atto al rapporto sotteso) ha però reso evidente le lacune del sistema.

La giurisprudenza ha allora cercato di ovviare al problema, interrogandosi su quale nullità potesse trovare cittadinanza nel processo amministrativo e sviluppando varie teorie: quella negoziale (con chiaro rimando allo schema civilistico), quella autonomistica (che riconduceva le ipotesi a quelle elaborate sotto l’egida della categoria della inesistenza) e quella mediana o moderata (per la quale  la nullità non può atteggiarsi e strutturarsi alla stregua di quella virtuale, dando luogo la violazione di norme imperative sempre all’annullabilità).

L’ultima posizione ha prevalso ricevendo l’avallo del Legislatore che, con la Legge 15/05, è intervenuto nel corpo della L. 241/90 ed ha introdotto il tanto atteso  articolo 21 septies.

Tale articolo prevede un numero di cause “chiuse” (tanto che, la presenza di siffatta elencazione tassativa viene utilizzata da larga parte della giurisprudenza  per confutare la tesi della nullità del provvedimento adottato in violazione delle norme comunitarie, tesi a sua volta sostenuta dalla dottrina monista che evidenzia la mancanza della norma attributiva della potestà e dunque configura un’ipotesi rientrante nell’alveo della carenza di potere-difetto assoluto di attribuzioni).

Altra caratteristica è poi la “tipicità” di tale rimedio, che è infatti operante nei soli casi previsti ex lege, così distinguendosi nettamente dalla previsione civilistica, ove la nullità è rimedio generale: si assiste invece a una evidente  assimilazione rispetto alla disciplina delle delibere assembleari ex artt. 2377-2378 c.c..

Trattandosi di un numerus clausus, tali nullità sono facilmente inquadrabili anche se, dal punto di vista pratico, comportano numerosi problemi poiché si discute sulla terminologia utilizzata, sull’ampiezza di determinati macro-concetti (volutamente vaghi e generici), sulla ratio sottesa alla loro introduzione ed infine sulle alle applicazioni concrete.

La prima categoria è quella relativa al difetto di attribuzione che deve essere “assoluto”.

Sul significato di tale espressione si confrontano due tesi: per la prima si tratterebbe di carenza di potere in astratto (non dovendo essere presente una norma attributiva di tale potere) mentre per altro orientamento il difetto di attribuzione può aversi anche laddove l’atto sia adottato da un organo amministrativo, ma appartenente ad un plesso diverso.

A mero titolo esemplificativo, si pensi al riconoscimento del titolo di avvocato specialista approvato dal Consiglio Nazionale Forense, quando invece la materia è riservata al Legislatore nazionale (situazione che è stata portata al vaglio della giurisprudenza più volte).

La seconda tipologia di nullità è di tipo strutturale e  si configura laddove manchi un elemento essenziale del provvedimento (con chiara simmetria rispetto all’art. 1418 c.c. relativo alle cause di nullità del contratto).

Orbene, qui i dubbi sorgono stante la mancanza, nel corpo della legge sul procedimento amministrativo, di una norma simile all’art. 1325 c.c. non essendo infatti previsti (né aliunde espressamente evincibili) i requisiti del provvedimento.

Trattasi di una lacuna colmata dalla giurisprudenza e dalla dottrina che vi hanno ricondotto i seguenti elementi essenziali:

-la volontà: essa, affinché sia configurabile un provvedimento nullo, deve essere totalmente assente, pena altrimenti la configurazione di un atto meramente viziato per eccesso di potere:  si pensi alla concessione edilizia rilasciata da un sindaco sotto la minaccia derivante dalla compenetrazione di un ambiente collusivo-mafioso nel comune.  Trattasi di una situazione, per la giurisprudenza, talmente grave da ledere la formazione della volontà, che dunque è viziata e non libera e che comporta, come conseguenza immediata, la nullità del provvedimento concessorio;

-la forma (se richiesta espressamente ex lege e dunque sulla falsariga della previsione civilistica);

-la causa (da leggersi come il perseguimento dell’interesse pubblico, sempre immanente all’azione della P.A., comunque essa venga attuata);

-il soggetto (ovvero l’autorità competente all’emanazione dell’atto).

Un’ulteriore ipotesi di nullità attiene alla elusione/violazione del giudicato con chiaro rimando all’art. 114 co 4 lettera b c.p.a.: sul punto l’articolo 21 septies L. 241/90 accomuna i concetti di violazione ed elusione, intendendosi non solo una nuova azione amministrativa che, dopo la formazione del giudicato, alteri l’assetto raggiunto ma la ri-edizione della medesima potestà.

Tale nullità, inoltre, è l’unica a prevedere espressamente -all’art. 133 co 1 lettera a n. 5 c.p.a.- la giurisdizione esclusiva del g.a..

Per le altre ipotesi (compresa la nullità testuale, di cui sotto) la giurisprudenza, ragionando a contrariis, ha sostenuto la giurisdizione del g.a. ma non di natura esclusiva, argomentando -a sostegno della tesi sostenuta- come la giurisdizione amministrativa venga in rilievo laddove la P.A. ponga in essere un potere autoritativo (sentenze della Corte Costituzionale nn. 204/04 e 191/06): ebbene, è evidente come tale potere, in siffatte ipotesi, sia esercitato poiché l’atto è alla P.A. riferibile e potenzialmente idoneo a produrre effetti se non impugnato nei termini.

Infine, la nullità può strutturarsi quale nullità testuale: l’art. 21 septies si chiude infatti con un richiamo ai casi espressamente previsti (si pensi agli accordi privato – P.A. ex art. 11 L. 241/90 o all’art. 46 co 1 bis Codice dei Contratti): si tratta di una previsione “di chiusura” e che trae la propria ratio dall’immanente e generale principio di trasparenza delle P.A..

A tacer poi delle diverse modalità in cui può configurarsi: si pensi alla nullità solo parziale dell’atto, nella cui disciplina (tesa a salvaguardare le parti del provvedimento non “viziate” da tale nullità) emergono chiari punti di contatto con il codice civile, vigendo anche qui il principio di conservazione degli atti.

Anzi, nell’ambito amministrativo (nonostante il provvedimento nullo non sia convalidabile ex art. 21 nonies co 2 L. 241/90) si tratta di un principio ancora più sentito stante  la necessità di salvaguardare gli effetti dei provvedimenti, le esigenze di stabilità e di certezza nonché la presunzione di legittimità che da sempre ha caratterizzato l’azione della P.A..

Sono tutti principi, tra l’altro, che ritroviamo alla base di un’altra caratteristica sui generis del regime di invalidità, ovvero il breve termine di decadenza (in luogo della prescrizione) per l’impugnazione del provvedimento.

Residua inoltre la possibilità di conversione e quella di rinnovazione.

Il vero punctum pruriens della categoria (stante anche la sua relativamente recente introduzione) attiene però alla disciplina giuridica degli effetti e alle questioni prettamente processuali, che meritano una disamina a parte, così da avere una visione a tutto tondo della disciplina, non solo sostanziale ma anche processuale.

Il primo problema attiene alla stessa ammissibilità di una azione di accertamento (nel caso in oggetto relativamente alla mera nullità del provvedimento): trattasi di una problematica di ampia portata che investe il più generale problema legato alla stessa ammissibilità di azioni diverse da quella di annullamento e da quelle espressamente previste (come quella sul silenzio), configurandosi così quelle che la dottrina ha chiamato azioni atipiche e che sembrano divenute imprescindibili in un processo in cui l’atto non è più oggetto unico del giudizio, estensibile ora al rapporto sottostante.

La risposta relativa alla sua cittadinanza è positiva e ci viene consegnata dall’art. 31 co 4 c.p.a. (da leggere in combinato disposto con il 21 septies L. 241/90) che definisce la domanda de qua come di accertamento chiarendo così che si avrà statuizione di merito (e non di rito): sul punto, in realtà, fine dottrina ha rilevato come si tratterebbe di una domanda sui generis in quanto non accerta il bene della vita richiesto ma l’inefficacia strictu sensu del provvedimento di cui trattasi.

Ad ogni modo, trattasi di una azione pacificamente ammessa visto che, si sostiene, l’interesse ad agire sussiste sempre (almeno in astratto) poiché il provvedimento, nonostante il deficit di imperatività,  può essere eseguito, può essere seguito da provvedimenti consequenziali e può ingenerare un affidamento in capo ai terzi.

Il problema attiene semmai al termine entro il quale proporre l’azione, oggi previsto nel breve periodo, ex art. 31 co 4 c.p.c., di 180 giorni (per la ratio di certezza del diritto e di affidamento ingenerato nei terzi di cui sopra) entro il quale gli effetti si consolidano (motivo ulteriore  per cui è configurabile un astratto interesse al ricorso).

Oltre che dal ricorrente in via d’azione, la nullità può poi essere rilevata dalla parte resistente, senza limite di tempo, e soprattutto dal giudice ex officio.

Tale secondo potere (che ricalca quello previsto all’articolo 1421 c.c.) è possibile solo laddove non vi sia stato passaggio in giudicato della sentenza -che dichiara l’invalidità- e solo laddove la nullità emerga dagli atti di causa: trattasi di pronuncia qualificabile sempre come principale, anche se eccepita incideter tantum, poiché è funzionale alla decisione relativa alla domanda del privato e dunque ponendosi come pregiudiziale logica e non tecnica.

Sul punto, avendo la giurisprudenza maggioritaria sostenuto la trasmigrazione dei  principi espressi dalle Sezione Unite (pronunciatesi nel 2012 e 2014) anche in ambito amministrativo, sembra inoltre possibile che il giudice  dichiari la nullità del provvedimento laddove la declaratoria risulti funzionale rispetto alla domanda di annullamento dell’atto (e dunque addivenendosi al giusto compromesso con  il principio del chiesto e pronunciato ex art. 112 c.p.c.).

In realtà, residua una parte di giurisprudenza e di dottrina che sostiene come questa traslazione sia difficilmente realizzabile, trattandosi -nel processo amministrativo- di azioni altamente eterogenee e non necessariamente legate da un climax ascendente (come nell’ambito civilistico) per cui si domanda l’una per addivenire alla seconda.

Ad ogni modo, sostenuto e confermato l’astratto interesse a fare valere tale azione, sarà altresì possibile proporre motivi nuovi/azioni connesse attraverso l’istituto dell’art. 43 c.p.a.; esperire l’azione cautelare (avendo il provvedimento, come ut supra specificato, efficacia medio tempore) e infine utilizzare lo strumento della consulenza tecnica d’ufficio ci cui all’art. 19 co 1 c.p.a.

Infine, un altro problema che ha trovato recente soluzione nella giurisprudenza, è il rapporto tra la declaratoria di nullità e l’azione di ottemperanza, sostenendo la Plenaria (che si è pronunciata nel 2013) come, per il principio di economicità e dunque in un’ottica di trattazione unitaria, le eventuali doglianze vadano dedotte di fronte al giudice dell’ottemperanza che, in primis dovrà esaminare la declaratoria di nullità e, solo se questa sarà infondata, potrà disporre la conversione dell’azione in base ai dettami dell’art. 32 co 2 c.p.a..

Conclusivamente può pertanto affermarsi come la nullità costituisca una categoria estremamente variegata e che oggi, avendo il giudizio sul rapporto preso il posto del giudizio sulla mera legittimità dell’atto, avrà molte applicazioni pratiche, con un corposo lavoro per il giudice e per l’interprete.

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