PARTENARIATO PUBBLICO-PRIVATO E  ACCORDI TRA PP.AA.: IN PARTICOLARE IL RISPETTO DEI PRINCIPI COMUNITARI IN MATERIA DI CONCORRENZA.

PARTENARIATO PUBBLICO-PRIVATO E  ACCORDI TRA PP.AA.: IN PARTICOLARE IL RISPETTO DEI PRINCIPI COMUNITARI IN MATERIA DI CONCORRENZA.

Ester Castagnino, corso on line mp3,

Il presente tema richiede, in primo luogo, una premessa sul sistema delle fonti comunitarie e interne al fine di poter individuare una corretta definizione di “concorrenza leale” e quelli che sono i suoi principi fondamentali. Solo in un secondo momento sarà necessario andare ad analizzare la conformità a detti principi, soprattutto rispetto a quelli sanciti a livello comunitario, delle modalità di gestione dei servizi pubblici essenziali a livello locale adoperati delle nostre pp.aa.

Ruolo determinante in materia di diritto della concorrenza lo ha avuto l’avvento della Comunità europea e le sue normative.

L’art 3 del previgente TCE, in particolare, nell’elencare gli strumenti attraverso i quali gli obiettivi della Comunità dovevano essere perseguiti, annoverava, accanto al divieto di imposizione di dazi e all’istituzione del mercato interno, l’istaurazione di un “regime inteso a garantire che la concorrenza non venisse falsata nel mercato interno”.  Il riferimento alla “concorrenza leale” tra gli strumenti fondamentali per il perseguimento dei fini dell’Unione è stato soppresso, all’interno del nuovo TUE, per confluire nel Protocollo n. 27 sul mercato interno e la concorrenza, allegato ai trattati. La soppressione di questa menzione, in realtà, non presenta implicazioni giuridiche per il ruolo della politica della concorrenza all’interno dell’Unione, stante la forza normativa riconosciuta al suddetto Protocollo, all’interno del quale si afferma che il mercato interno “comprende un sistema che assicura che la concorrenza non sia falsata”. Il nuovo TFUE prevede una disciplina dettagliata al capo I del titolo VII, rubricato “Regole di concorrenza” e suddiviso in due sezioni: la prima comprende gli artt. 101-106 TFUE, in tema di regole di concorrenza applicabili alle imprese, quali, in particolare, il divieto di intese recanti pregiudizio alla concorrenza e il divieto di abuso di posizione dominante; la seconda, invece, comprende gli artt. 107-109 TUFE, in tema di regole di concorrenza applicabili agli Stati, in particolare la disciplina di controllo sugli aiuti di Stato. Tali disposizioni attribuiscono alla Commissione Europea un importante potere di vigilanza sui comportamenti e possibili infrazioni realizzate dalle imprese e dagli Stati, infrazioni che possono concretizzarsi in: accordi volti a “impedire, restringere, falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato interno”; abuso di posizione dominante “atto ad influire sulla struttura del mercato in cui, proprio per il fatto che vi opera detta impresa, il grado di concorrenza è già sminuito, ostacolandolo nel suo sviluppo”; aiuti concessi dagli Stati e risorse statali, sotto qualsiasi forma e volti a “favorire talune imprese o talune produzioni, falsando o minacciando di falsare la concorrenza”. Il fulcro del presente tema si incentrerà, infatti, sulla compatibilità di figure di gestione di servizi pubblici locali, quali il c.d. partenariato pubblico-privato e il c.d. partenariato pubblico-pubblico, adottate dalle nostre pp.aa. locali, con la normativa comunitaria.

La disciplina comunitaria in tema di concorrenza si è sempre posta come mezzo per sopperire alla lacunosità legislativa interna ai singoli Stati membri.

Guardando alla realtà italiana bisogna affermare che l’esigenza di garantire una leale concorrenza si è affermata solo con l’ingresso del nostro paese nella Comunità europea. Fu proprio in quel momento che, come vedremo successivamente, si è assistito alla crisi del modello delle società pubbliche in tema di gestione dei servizi pubblici essenziali.

In Italia, in particolare, per lungo tempo si è assistito ad una vistosa lacuna, quale la mancanza di un diritto della concorrenza, a cui, verso la metà degli anni cinquanta, la normativa comunitaria ha cercato di sopperire con il recepimento della disciplina antitrust dettata dai Trattati istitutivi della CEE. In realtà tale normativa consentiva e consente di colpire solo le pratiche che possono pregiudicare il regime concorrenziale del mercato comune europeo, e non quelle che incidono esclusivamente sul mercato italiano. Ecco l’esigenza di colmare tale vuoto affiancando alla normativa comunitaria una normativa antimonopolistica nazionale, ma ciò avvenne solo con la legge n. 287/1990 e la nascita dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato.

Ai fini della presente trattazione è necessario richiamare anche gli importanti principi comunitari dettati a tutela della concorrenza in materia di appalti pubblici e recepite nel nostro ordinamento nel vigente Codice dei contratti pubblici, d.lgs. n. 163/2006, grazie a rilevanti direttive, quali le n. 71/305/CEE, 89/440/CEE, 93/37/CEE, 17 e 18/04, da ultimo le nuove direttive 23, 24, 25/2014. La finalità di dette direttive è stata quella di elaborare figure come quella di organismo di diritto pubblico, ampliando così la categoria delle amministrazioni aggiudicatrici, e soprattutto introdurre garanzie di leale concorrenza nello svolgimento delle procedure di evidenza pubblica, al fine di evitare che una stazione appaltante appartenente ad uno Stato membro, potesse favorire, nell’affidare la commessa pubblica, l’impresa nazionale, così da discriminare le altre imprese europee, e ledendo quindi la concorrenza. L’art. 2 del Codice dei contratti pubblici richiama espressamente la libertà di concorrenza, tra i principi ispiratori della scelta del soggetto affidatario. La disciplina comunitaria si è sempre posta come garanzia dell’interesse delle imprese a non venir discriminate in corso di procedura pubblicistica in ragione della nazionalità. Particolarmente problematica è stata, invece, la figura giurisprudenziale delle c.d. società in house, frutto di un law in actions comunitario, e derogativo delle regole di concorrenza laddove precluderebbe la fase di esternalizzazione nella scelta dell’affidatario e prevedrebbe il c.d. controllo analogo, totalitario da parte dell’affidante sull’affidatario.

Guardiamo alle fonti interne al nostro ordinamento. La nostra Costituzione contiene disposizioni volte a tutelare la libertà di concorrenza.

Innanzi tutto, ai sensi dell’art. 117, comma 1, si consacra il principio, ormai sancito dalla giurisprudenza costituzionale e comunitaria, del primato della fonte comunitaria rispetto alla fonte interna, laddove prescrive che “la potestà legislativa dello Stato […] è esercitata nel rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. Il potere legislativo dello Stato, ex art. 117, comma 2, lett. e, in tema di concorrenza, è necessariamente portato a rispettare le fonti comunitarie in materia, alla luce di un rapporto di gerarchia, coordinamento e integrazione tra i due ordinamenti. Precedentemente alla riforma del titolo V della Costituzione, infatti, predominava una visione separatista di stampo internazionalistica tra l’ordinamento interno e quello comunitario, tanto che si poneva nell’art 11 Cost. il fondamento del diritto concorrenziale comunitario contenuto nei trattati istitutivi, inteso come diritto internazionale pattizio.

La nostra Costituzione tutela, ai sensi dell’art. 41, la libertà di iniziativa economica privata e la conseguente libertà di concorrenza, ma afferma, altresì, che “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. E sia la Costituzione al comma III, art. 41, sia il codice civile ai sensi dell’art. 2595, consentono che tali libertà possano venir compresse e limitate dai pubblici poteri. La libertà di concorrenza, ex art. 2595 c.c., “deve svolgersi in modo da non ledere gli interessi dell’economia nazionale e nei limiti stabiliti dalla legge”. Ecco che accanto ai c.d. limiti contrattuali alla libertà di concorrenza di cui agli artt. 2596 e ss c.c., abbiamo i c.d. limiti legali. In attuazione all’art. 41 Cost. il legislatore è intervenuto a dettare nel nostro ordinamento una disciplina specifica in tema di illecito antitrust, quale è la l. 287/1990, in cui si vengono a sanzionare nel mercato interno fenomeni già condannati a livello comunitario: le intese anticoncorrenziali tra imprese, l’abuso di posizione dominante e le concentrazioni tra imprese. Nella disciplina interna a tutela della concorrenza, inoltre, determinante è l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, con i suoi poteri di controllo, vigilanza e sanzionatori.

Dopo aver effettuato una premessa sui principi volti a garantire una leale concorrenza nel mercato comune e interno, è necessario guardare alla conformità a detti principi di particolari forme di gestione dei servizi pubblici essenziali adottate dalle nostre pp.aa. locali. Stiamo parlando dei c.d. partenariati pubblico-privati e i c.d. partenariati pubblico-pubblico, questi ultimi istituiti con i c.d. accordi di programma tra pp.aa. ex art. 15 l. n. 241/1990.

La realtà italiana, sin dai primi anni del novecento si è caratterizzata da un forte dirigismo pubblico e interventismo dello Stato nell’economia. Questa era caratterizzata da politiche di forte protezionismo e da sistemi di programmazione e pianificazione economica. E’ in questa realtà storica che nascono le c.d. società pubbliche, quali modelli di gestione dei c.d. servizi pubblici essenziali di rete, volte sicuramente a soddisfare anche fini sociali e di recupero dell’economia del Meridione, ma in cui il controllo, l’ingerenza statale era totalitaria sia in termini di gestione che di risorse economiche. Il codice civile del 1942 ex art. 2597 c.c., così come la nostra costituzione, all’art. 43, riconoscono figure di monopolio pubblico, ma si aprirà presto la strada ad una vera e propria crisi di tale modello nella gestione dei servizi pubblici locali. Determinante a tale proposito, come già precedentemente accennato, è stato l’ingresso del nostro paese nel mercato comunitario. L’art. 16 TCE prevedeva, in particolare, come la gestione dei servizi pubblici essenziali si dovesse conformare ai principi concorrenziali. Il nuovo TFUE ai sensi del par. 2, art. 106, crea un regime particolare per le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale, che sono “sottoposte alle norme dei trattati, e in particolare, alle regole di concorrenza, nei limiti in cui l’applicazione di tale norme non osti all’adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata”.

Il Trattato non vieta agli Stati membri di conservare la proprietà di imprese né di crearne. A tale proposito l’art. 345 TFUE, afferma che “i trattati lasciano impregiudicato il regime di proprietà esistente negli Stati membri”, ma si afferma altresì ex art. 106, par. 1, un obbligo in capo agli Stati, quale quello di non emanare né mantenere, in favore delle “imprese pubbliche”, alcuna misura contraria alle norme del Trattato e in particolare quelle a tutela della concorrenza e in particolare a tutela della disciplina sugli aiuti di stato. La normativa comunitaria, infatti, vieta quegli aiuti che comportino vantaggi economici ad un’impresa e che possano “falsare o minacciare la concorrenza”, rafforzando la posizione dell’impresa beneficiaria rispetto ai suoi concorrenti, riducendo i costi da sopportare. La figura della società pubblica e del monopolio pubblico si poneva infatti come lesiva dei principi concorrenziali di rango comunitario. Tali società nella gestione dei servizi pubblici falsavano la concorrenza interna nella misura in cui l’ingerenza statale precludeva la possibilità alle stesse di fallire.

La crisi del modello delle società pubbliche, attorno agli anni novanta, ha così aperto la graduale fase di loro privatizzazione dapprima solo formale e successivamente sostanziale e di scorporo delle reti ed avvio di una vera liberalizzazione del servizio. In questa fase storica si pone, nell’ambito dei provvedimenti a contenimento della spesa pubblica, la rilevanza del c.d. partenariato pubblico-privato, in cui vediamo conciliarsi l’uso dell’istituto civilistico societario, la sua garanzia di un maggior efficientismo nella gestione del servizio, il rafforzamento della presenza imprenditoriale privata accanto alla partecipazione attiva e societaria della mano pubblica che permane. Il ricorso a tale modello risponde sicuramente ad importanti esigenze per la p.a.: assicurarsi il contributo di finanziamenti privati, in presenza delle sempre più frequenti restrizioni di bilancio, beneficiare delle competenze offerte dal mondo delle imprese, la riduzione dei costi di realizzazione del servizio, incremento dell’efficienza e della qualità dei servizi offerti al pubblico.

A tale proposito è necessario dare una definizione di servizio pubblico. Nel nostro ordinamento manca una definizione espressa, tanto che le uniche normative che ne parlano sono state il d.lgs. n. 80/1998 in tema di giurisdizione amministrativa esclusiva, e l’art. 113 del TUEL che in questa sede più ci interessa. L’assenza di una definizione normativa ha spinto la dottrina a distinguere tra servizio pubblico c.d. soggettivo, in cui si guarda alla natura del servizio in vista al soggetto che lo gestisce, e servizio pubblico c.d. oggettivo, definizione più in linea con gli influssi comunitari, e volta a guardare alla natura del servizio in sé.

Sicuramente quando si parla di servizi pubblici si fa riferimento a quel complesso di attività volte a soddisfare un bisogno primario della collettività locale. In particolare, alla luce del principio di sussidiarietà verticale, vengono qualificati come indispensabili e vengono fatti rientrare fra le funzioni fondamentali di ogni amministrazione locale, devono altresì essere erogati a prezzi sostenibili e secondo adeguati modelli qualitativi, al fine di garantire la capillarità e continuità delle prestazioni. La disciplina nazionale relativa alla modalità di gestione e affidamento dei servizi pubblici ha visto nell’art. 113 TUEL un ruolo importante, laddove non solo richiama la distinzione comunitaria tra servizio pubblico essenziale a rilevanza economica (rispetto al quale è necessario il rispetto di regole di concorrenza), e servizio pubblico privo di rilevanza economica (rispetto al quale invece è ammesso l’affidamento senza gara), ma altresì rimette all’ente locale la scelta tra diverse modalità di gestione del servizio: scelta del soggetto affidatario privato con gara, affidamento diretto c.d. in house, il ricorso a forme di partenariato pubblico-privato a società a capitale misto. Soffermiamoci a tale proposito su quest’ultima figura. Il partenariato pubblico-privato non trova una precisa definizione nel diritto comunitario, né nel diritto interno. Nel “Libro Verde relativo al Partenariato pubblico-privato e al diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni” pubblicato il 30 aprile 2004, la Commissione europea fornisce utili orientamenti in materia. Il concetto di partenariato pubblico-privato viene collegato ad una vasta gamma di modelli di cooperazione tra autorità pubbliche e le imprese, finalizzati a garantire il finanziamento, la costruzione e gestione di opere pubbliche o di servizi pubblici. La Commissione nel citato Libro Verde effettua una distinzione tra “partenariato istituzionale” e “partenariato contrattuale”.

Il “partenariato istituzionale” implica una cooperazione tra il settore pubblico e privato in seno ad un’entità distinta. Presuppone, cioè, una struttura societario detenuta congiuntamente dal soggetto pubblico e privato, con la missione di assicurare la fornitura di un’opera o di un servizio a favore della collettività. E’ questo il modello che più si avvicina a quello che le nostre pp.aa. a livello locale utilizzano per la gestione di servizi pubblici a livello locale. A tale proposito, al fine di assicurare un maggior rispetto dei principi comunitari in tema di concorrenza leale, l’Ad.Pl. n. 1/2008 ha affermato l’esigenza che nella scelta dell’imprenditore-socio-privato si effettui non un affidamento diretto, bensì la c.d. gara a doppio oggetto. L’Adunanza Plenaria in quella sede ha richiamato in particolare i principi di concorrenza, trasparenza, non discriminazione e parità di trattamento sanciti dai Trattati comunitari, affermando come un sistema di affidamento diretto costituisca eccezione di stretta interpretazione al sistema ordinario delle gare, in quanto potenzialmente idoneo a turbare la par condicio tra le imprese europee. I giudici amministrativi hanno altresì richiamato la sent. n. 401/2007 della Corte Costituzionale in cui afferma come nei contratti pubblici rilevi necessariamente la tutela della concorrenza, che si concretizza in particolare nell’assicurare la più ampia apertura del mercato a tutti gli operatori economici del settore. Lo strumento della gare infatti è il più idoneo a garantire il rispetto di principi di parità di trattamento, non discriminazione, proporzionalità e trasparenza.

La particolarità, nello specifico, della c.d. gara a doppio oggetto, è quella di permettere nella stessa sede sia la scelta del socio privato, sia l’attribuzione dei suoi compiti operativi e quella della qualità del socio.

Il “partenariato contrattuale” si fonda, invece, su legami esclusivamente convenzionali tra le pp.aa. e i privati per l’affidamento dell’opera pubblica. Questa figura di partenariato trova il proprio fondamento in quella tesi che riconosce ormai in maniera maggioritaria capacità di diritto privato alla p.a., cioè la possibilità che la p.a., nel perseguire l’interesse pubblico, faccia uso dello strumento privatistico del contratto ex art. 1, comma 1bis, l. 241/1990, pur mantenendo una posizione di supremazia rispetto al contraente privato. Si fa riferimento ai c.d. contratti di diritto pubblico collegati necessariamente ad un provvedimento amministrativo. In questo contesto uno dei modelli più noti è quello della c.d. concessione-contratto, che si caratterizza per il fatto che il soggetto privato, scelto con una procedura selettiva ad evidenza pubblica, sarà portato a gestire il servizio e lo fornirà in sostituzione e sotto il controllo della parte pubblica in forza della concessione-contratto appunto, alla quale è stata attribuita natura di accordo sostitutivo ex art. 11 l. 241. Tale modello si caratterizza anche per le modalità di retribuzione del privato che trae il compenso da quanto riscosso dagli utenti del servizio.

Altri esempi di partenariato pubblico-privato contrattuale, nel nostro ordinamento, sono da rimettersi a figure di contratti atipici quali, ad esempio, il contratto di sponsorizzazione, di leasing finanziario, di project financing. La capacità di diritto privato riconosciuta alla p.a. viene estesa anche alla possibilità di stipula di contratti atipici ex art. 1322, comma 2 c.c., purchè sussista il perseguimento dell’interesse pubblico. Il problema si è posto relativamente al rispetto della regola concorrenziale della gara pubblica nella scelta del contraente privato soprattutto in riferimento a quelle fattispecie come la sponsorizzazione, almeno apparentemente non connotate dall’onerosità, che ai sensi dell’art. 3, d.lgs. n. 163/2006, rende tipico il contratto di appalto pubblico. L’idea di un affidamento diretto e senza gara necessariamente impatterebbe sulla concorrenza. In realtà per tali tipologie di contratti la giurisprudenza amministrativa è intervenuta più volte sulla necessità di applicazione doverosa della disciplina dell’evidenza pubblica comunitaria dettata in tema di appalti di servizi. Il contratto di sponsorizzazione in vista della sua gratuità viene esonerato dal rispetto della disciplina prevista per gli appalti pubblici ai sensi dell’art. 26 del d.lgs. n. 163/2006, che, a tale proposito, rinvia interamente alla disciplina e i principi sanciti dal Trattato in tema di scelta dello sponsor. Tale scelta dovrà comunque avvenire con una procedura concorsuale pubblica volta a rispettare i principi di trasparenza e non discriminazione comunitari.

Ultimo aspetto da esaminare in tema di rispetto dei principi comunitari sulla concorrenza e gestione dei servizi pubblici, attiene al ruolo assunto dal c.d. partenariato pubblico-pubblico. La questione di fondo attiene alla compatibilità tra i principi comunitari sulla concorrenza e l’utilizzo dei c.d. accordi di programma ex art. 15 l. 241/1990. Questa tipologia di accordi si pongono sempre in espressione della capacità di diritto privato della p.a., ma questa volta ponendo in essere un’azione amministrativa concertata con altre pp.aa. interessate. Questo modello di collaborazione e coordinamento tra pp.aa., ha permesso di costituire il migliore strumento per il soddisfacimento del pubblico interesse, in conformità dell’art. 97 Cost.. A tale proposito sarà necessario individuare i requisiti che legittimano il ricorso a tali accordi da parte delle pp.aa., per poi individuare in quali casi non siano in contrasto con il diritto comunitario sulla concorrenza. Lo strumento dell’accordo di programma si pone come modalità di esercizio del pubblico potere, in modo alternativo rispetto agli strumenti tradizionali e di tipo autoritativi e maggiormente rispettoso del principio di sussidiarietà orizzontale. Questo, in quanto, l’agire in modo isolato spesso si pone come modalità insufficiente per il soddisfacimento del pubblico interesse. La norma di riferimento, quale è l’art. 15, l. 241/1990, sancisce che le pp.aa. “possono sempre concludere tra loro accordi per disciplinare lo svolgimenti in collaborazione di attività di interesse comune”. Gli accordi sono, quindi, un incontro di volontà tra due o più pp.aa.. La disciplina in esame deriva, in parte e in quanto compatibile dall’art. 11 l. 241/1990, e limitandosi a prevedere la mera possibilità che tali accordi seguano i principi in materia di obbligazioni e contratti previsti nel codice civile. In forza di tale rinvio è sorto un dibattito circa la natura privatistica ovvero pubblicistica di tale tipologia di accordi. Un esempio di accordo di programma è quello contenuto nell’art 34 TUEL quale importante strumento di collaborazione tra pp.aa. locali.

Al fine di poter individuare la compatibilità tra questi accordi e i principi comunitari in tema di concorrenza è necessario, a tale proposito chiarire il rapporto sussistete tra gli accordi di cui all’art 15 e la disciplina dei contratti pubblici e i loro ambiti applicativi, anche alla luce della giurisprudenza comunitaria.  A tale proposito è necessario affrontare la definizione di “operatore economico” in materia di appalti pubblici.

L’art. 3, d.lgs. n. 163/2006, nel definire i soggetti legittimati a partecipare ad una gara di appalto pubblico, parla di “operatori economici”, comprendendovi l’imprenditore, il fornitore, prestatore di servizio o un raggruppamento di essi. Nel diritto comunitario, la giurisprudenza comunitaria, partendo dalla definizione di “operatore economico” offerta dall’art. 1, n. 8, direttiva 2004/18, ha affermato che tale qualifica è da riconoscersi non solo ad una persona fisica o giuridica, ma in modo esplicito anche ad ogni ente pubblico ed ai raggruppamenti costituiti da tali enti che “offrono servizi sul mercato”, anche se non perseguono un fine di lucro, non hanno una struttura di impresa e non assicurano una presenza continua sul mercato. A tale proposito la Corte di Giustizia si è interessata di affrontare la questione relativa alla possibile distorsione della concorrenza nei casi in cui a partecipare ad un appalto pubblico siano soggetti che potrebbero vantare una posizione privilegiata rispetto ai concorrenti privati grazie ai finanziamenti pubblici che vengono loro erogati. Il legislatore comunitario non ha ristretto la nozione di operatore economico, come è avvenuto nella realtà italiana, e da ciò si evincerebbe che uno degli obiettivi principali della disciplina comunitaria in materia di appalti è costituito dalla apertura della concorrenza, in modo da garantire la partecipazione più ampia possibile di offerenti ad una gara di appalto. La Corte, a tale proposito, ha esteso la nozione di “operatore economico” ai fini della disciplina degli appalti anche alle Università e agli Istituti di ricerca. Secondo i giudici europei la direttiva 18/2004 riconoscerebbe a questi ultimi soggetti,  che pur non perseguono uno scopo di lucro, di partecipare ad una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico, benché tali soggetti siano autorizzarti dal diritto nazionale ad offrire sul mercato i servizi oggetto dell’appalto considerato. Tuttavia è fatto salvo alle singole stazioni appaltanti di valutare caso per caso la possibile distorsione della concorrenza in forza di quella partecipazione. In realtà la giurisprudenza amministrativa nazionale (Ad. Pl. n. 10/2011) ha escluso la possibilità di qualificare come operatori economici le università e gli istituti di ricerca, in quanto sono deputate a svolgere attività di ricerca, anche grazie a sovvenzioni pubbliche, ed altresì difettano di quel requisito tipico imprenditoriale e lucrativo del loro scopo, tanto che la loro partecipazione ad una gara di appalto violerebbe i principi di concorrenzialità comunitaria.

A tale proposito è importante affrontare il rapporto tra gli accordi di programma e la possibilità di ricorrere alle procedure ad evidenza pubblica. Tale rapporto dovrà venir esaminato in ragione della dilatazione della nozione di “operatore economico” in tema di affidamento di servizio pubblico nel diritto comunitario, come sopra affrontato. Il problema si pone per quegli accordi di programma aventi ad oggetto l’affidamento di un servizio ovvero la costruzione di un’opera. In tale ipotesi l’accordo di programma può comportare una violazione del principio di concorrenza nella scelta del contraente, scelta che viene ad essere sottratta alla procedura di evidenza pubblica e alle regole di concorrenza. Le pp.aa. nella concludere tali accordi può produrre una lesione dei principi fondanti le procedure di evidenza pubblica.

La questione, in realtà, non è stata affrontata dal legislatore nazionale, nonostante si sia dimostrata come rilevante sul piano dell’attuazione del principio della concorrenza nella scelta del contraente, ma è stata rimessa alla giurisprudenza comunitaria. La Corte di Giustizia non ha affrontato una distinzione in modo espresso tra accordi tra pp.aa. e contratti, ma ha ravvisato due eccezioni alle regole sui pubblici appalti. Emergerebbe, infatti, che due tipi di appalti sono esenti dall’applicazione delle direttive comunitarie. In primo luogo quegli appalti stipulati in vista di un affidamento diretto e privo di esternalizzazione (c.d. affidamenti in house); in secondo luogo sono sottratti dalla normativa europea quei contratti che istituiscono una cooperazione fra enti pubblici finalizzata a garantire l’adempimento di una funzione di servizio pubblico comune a questi ultimi, a condizione che tali contratti siano stipulati esclusivamente tra enti pubblici, senza partecipazione privata, e la cooperazione sia retta unicamente da considerazioni ed esigenze connesse al perseguimento di obiettivi di interesse pubblico comune.

Si evince quindi che l’oggetto dell’accordo di programma tra pp.aa. deve vertere su di un servizio non altrimenti rinvenibile nel mercato, ed espressione della specifica attività della p.a. con cui l’accordo è contratto. Bisogna sottolineare, altresì, che queste tipologie di accordi hanno una specifica finalità di semplificare l’azione amministrativa e a differenza degli appalti pubblici, si fondano sul generale principio di sussidiarietà orizzontale, espressa in termini di collaborazione e cooperazione tra pp.aa.. Ma tale finalità di semplificazione dell’azione amministrativa verrebbe meno laddove si ammettesse che le pp.aa. potessero ricorrere a tali accordi relativamente ad un determinato servizio concretamente erogabile da un operatore economico, comportando una distorsione del mercato. Ai fini dell’applicazione della disciplina degli accordi, quindi, è necessario che l’attività oggetto dell’accordo sia priva di connotazioni imprenditoriali e che non si collochi nel libero mercato. Solo rispettando i limiti e i confini dell’ambito applicativo dell’istituto degli accordi tra pp.aa. è possibile realizzare il risultato in vista del quale è stato introdotto, ossia la collaborazione per attività di interesse comune. Un uso distorto di tale istituto comporterebbe un incidere sulla materia degli appalti pubblici, depotenziando l’iniziativa economica del privato che vedrebbe sottratto alla propria disponibilità una possibile quota del libero mercato.

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