Principio di offensività e tutela di marchi o brevetti
DIRITTO PENALE
Pubblicato il 14.01.2017 Autore Elisa Agostinelli
Principio di offensività e tutela di marchi o brevetti
Storicamente il diritto penale ha oscillato tra una concezione oggettivistica del reato, in cui elemento essenziale per la punibilità risiede nel fatto tipico offensivo, come tale in grado di ledere o mettere in pericolo un bene giuridico oggetto di tutela nell’ordinamento, assegnando al principio di colpevolezza – nelle sue declinazioni di dolo, colpa, scusanti, imputabilità ed errore – mero valore di limite alla punibilità, ed una concezione soggettivistica del reato, in cui tutta l’attenzione si concentrava sul soggetto agente dell’illecito, risolvendosi in un diritto penale d’autore.
Quello accolto nel nostro ordinamento è un diritto penale del fatto, in cui, perché possa procedersi all’irrogazione della sanzione penale è necessario che il fatto tipico, sia non solo formalmente sussumibile nell’alveo della fattispecie penale, ma sia altresì connotato dall’inderogabile principio di offensività, secondo il noto brocardo “nullum crimen sine iniuria”. L’offensività, in altri termini, si presta ad assurgere a parametro della punibilità del fatto e a meglio qualificare il concetto di materialità.
Invero il reato deve sostanziarsi nell’offesa ad un bene giuridico, non ammettendosi incriminazioni svincolate da fatti materiali e limitate a meri atteggiamenti interiori, in ossequio al principio “cogitationis poenam nemo patitur”.
Il principio di offensività, seppur riconosciuto unanimemente dalla dottrina, continua ad essere fonte di accesi dibattiti sotto svariati profili. Un primo aspetto che ha lungamente interessato, nonché impegnato, dottrina e giurisprudenza ha investito il suo fondamento; particolarmente insidiosa era, infatti, la ricerca di quello che poteva rappresentare un referente normativo, non evincendosi, tanto nella legislazione primaria, quanto a livello costituzionale, alcuna norma che lo menzionasse espressamente.
Si è così elaborata una prima ricostruzione dottrinale tesa a rinvenire il principio di offensività nell’art. 49, co 2 c.p., secondo cui “la punibilità è altresì esclusa quando, per la inidoneità dell’azione o per l’inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile l’evento dannoso o pericoloso”; tale ricostruzione, malgrado l’apprezzabile tentativo di rinvenire un referente normativo al principio di offensività, comportava peraltro l’assoggettabilità al principio lex posterior derogat legi priori, ammettendosi con ciò che una legge successiva avrebbe potuto esprimere portata abrogativa, con espunzione del principio suddetto dall’ordinamento.
Si coglievano anche sul piano sostanziale limiti alla prefata teoria. Difatti essa presupponeva che tutta l’azione fosse stata posta in essere ma che, la stessa, per la sua inidoneità offensiva, non potesse ledere o mettere a repentaglio il bene giuridico; ciò portava ad una inaccettabile frizione tra l’elemento della tipicità e quello dell’offensività, concepito come dato esterno rispetto al fatto tipico, ammettendo che un fatto potesse essere tipico ma non offensivo.
Evidenziate le lacune di tale impostazione, si andava sempre più consolidandosi una differente scuola di pensiero che, nel tentativo di assegnare al principio di offensività dignità costituzionale, ne propugnava una lettura evolutiva. La costituzionalizzazione del principio si desumeva da una lettura combinata dell’articolo 27, che preclude strumentalizzazioni dell’essere umano per fini di politica criminale e non ammette una concezione della pena come sanzione inflitta per la mera disobbedienza, trovando poi ulteriore limite nella finalità rieducativa che sarebbe un non sense se sganciata dalla realizzazione di un fatto offensivo, dell’art. 13 che enuncia il principio personalistico, oltre che da una interpretazione dell’art. 25 che expressis verbis fa uso del termine “fatto commesso” che rimanda inequivocabilmente ad un evento offensivo.
Si ricomponeva in tal modo quella scissione tra fatto tipico ed offensivo, riconducendo entrambi al superiore principio di legalità, inteso come fatto offensivo tipizzato, in cui l’offesa deve rappresentare un elemento proprio della tipicità, ed evitando che il bene offeso fosse un dato esterno alla norma.
Occorre osservare, inoltre, come la Consulta abbia in più occasioni precisato, come lo stesso svolga una fondamentale funzione politico-garantista e si rivolga non solo al magistrato in sede di accertamento dell’illecito, ma in prima battura al legislatore in sede di tipizzazione delle fattispecie, che dovranno rispondere ad un’effettiva offesa a beni giuridicamente rilevanti.
Poste queste premesse occorre valutare quale rapporto possa svolgersi tra il principio di offensività e la normativa a tutela di marchi e brevetti; ci si è infatti interrogati sull’opportunità di contemperare il principio di necessaria lesività delle condotte penalmente rilevanti con la tutela apprestata ai segni distintivi, evitando in tal modo che la disciplina regolante tali istituti si risolva nella previsione della punibilità di condotte di mera disobbedienza.
Il marchio è il segno distintivo dei prodotti e servizi dell’impresa, volto a contraddistinguere una merce e ad assolvere ad una funzione di garanzia della provenienza della stessa. Esso trova regolazione a livello nazionale agli articoli 2569-2574 c.c., oltre che dal codice della proprietà industriale, e a livello internazionale è disciplinato da apposite convenzioni, quali la convenzione d’Unione di Parigi e l’accordo di Madrid.
Il brevetto è, invece, l’attestato di riferibilità di una data invenzione al suo autore, cui lo Stato, in presenza di specifici requisiti – concede il diritto di esclusiva allo sfruttamento dell’opera realizzata. In realtà esso rientrerebbe in quei documenti pubblici che potrebbero essere attratti alla normativa in tema di falsità documentale, ma che il legislatore, data la specificità della materia, ha preferito regolare unitamente alla falsità in contrassegni.
Con riferimento alla tutela penale dei marchi e brevetti essa è rintracciabile agli articoli 473 e 474 c.p., all’articolo 517 c.p., e più in generale nel codice della proprietà industriale (T.U. n. 30 del 2005).
L’art. 473 c.p. costituisce una fattispecie a più norme: nel primo inciso si atteggia a reato comune che punisce chi dà luogo a falsificazione di marchi o segni distintivi dei prodotti industriali; al secondo comma disciplina la falsificazione dei brevetti, disegni, o altri prodotti industriali.
Quanto al concetto di contraffazione esso corrisponde alla assunzione, da parte del marchio falsificato, di caratteri tali da ingenerare confusione tra il pubblico sulla provenienza del prodotto; per alterazione si intende, invece, la parziale modificazione di un marchio, o un brevetto genuino, conseguito mediante opera di sottrazione o addizione di elementi marginali.
L’art. 473 c.p. punisce inoltre chi, “senza essere concorso nella contraffazione o alterazione”, fa uso dei segni distintivi parificandone il trattamento sanzionatorio.
Appare opportuno precisare come il legislatore sia intervenuto sull’elemento soggettivo della fattispecie normativa con un notevole elemento di innovazione, dato dal sintagma “potendo conoscere dell’esistenza del titolo di proprietà industriale”; si è così determinata un’estensione dell’area della punibilità anche in tutte quelle ipotesi in cui il soggetto, pur non avendo certezza assoluta dell’esistenza del segno distintivo, agisca ugualmente accettando il rischio della sussistenza.
L’art. 474 c.p. rappresenta il naturale sviluppo dell’art.473 c.p., costituendone diretta prosecuzione logica, andando a sanzionare tutte quelle condotte successive alla contraffazione ed alterazione dei segni distintivi, quali l’introduzione, la commercializzazione, l’uso e la detenzione degli stessi.
La nuova formulazione dell’articolo 474 c.p. richiede, per entrambe le fattispecie sia del primo che del secondo comma, il dolo specifico del “trarre profitto”; non mancano però isolate pronunce, che contrariamente al dettato legislativo, ritengono sufficiente il dolo generico, consistente nella consapevolezza della falsità dei segni distintivi apposti sulla merce.
Entrambe le fattispecie criminose, tanto quella dell’art. 473 e 474 c.p., si atteggiano a reati di pericolo concreto, posto che ai fini della loro integrazione non è richiesta l’effettiva lesione della fede pubblica; non è, pertanto, necessario dar prova di un effettivo collegamento tra attività illecita e percezione della stessa da parte dei destinatari. Di contro, perché sia integrato l’elemento oggettivo occorre si sia configurato un effettivo rischio di confusione per la generalità dei consumatori, ossia si sia incrinata la fiducia che il pubblico indeterminato di consumatori ripone nella genuinità dei segni distintivi dei prodotti industriali.
Sul punto la giurisprudenza ha, invero, precisato come il concetto di fede pubblica debba essere inteso in senso oggettivo, come affidamento della collettività sulla genuinità dei segni distintivi, e non del singolo, non ritenendosi, con ciò, necessaria la realizzazione di una situazione tale da indurre il cliente in errore sulla autenticità del prodotto.
La disamina non può ritenersi completa senza menzionare l’art. 517 c.p. che punisce la vendita di prodotti industriali con segni mendaci. Rappresenta questa una norma di chiusura, come agevolmente si desume della clausola che ne prescrive l’operatività “se il fatto non è preveduto come reato da altra disposizione di legge”; trattasi anch’esso di reato di pericolo avente come bene giuridico, anziché la fede pubblica, l’ordine economico, rispetto al quale non necessita la condizione prescritta dagli artt. 473 e 474 c.p. che impone, ai fini dell’operatività della tutela penale, che il marchio o il brevetto siano preventivamente resi oggetto di registrazione.
Evidenziati i caratteri principali delle norme a tutela del marchio o del brevetto, occorre ora valutare se le stesse siano compatibili con la sempre maggiore valorizzazione del principio di offensività, che impone la sottoposizione a pena di quelle sole condotte che cagionino una effettiva lesione o messa in pericolo dei beni giuridici.
A tal proposito va osservato come, in relazione ai reati di cui agli articolo 473 e 474 c.p., a seguito della riforma del vigente assetto normativo ad opera della l. n. 99 del 1999, che ha apportato rilevanti modifiche alle norme che incriminano la contraffazione, l’alterazione o l’uso di marchi, segni distintivi, ovvero di brevetti, modelli e disegni (art. 473 c.p.), nonché l’introduzione e il commercio nello Stato di prodotti con segni mendaci (art. 474 c.p.), il tema del bene giuridico abbia dato luogo ad accesi dibattiti giurisprudenziali e dottrinali risolventisi, principalmente, nella elaborazione di tre correnti di pensiero.
Ci si è infatti interrogati se, a seguito della novella legislativa, fosse rimasto immutato il bene giuridico oggetto di tutela, da rinvenire nella tradizionale fede pubblica, oppure se tale modifica avesse comportato una variante, con conseguente individuazione di altro bene giuridico, quale quello al diritto alla proprietà industriale. Da un lato oggetto di tutela la fede pubblica contro la falsificazione di mezzi di riconoscimento, dall’altro, la proprietà industriale, ossia i diritti di cui sarebbero detentori gli imprenditori.
Un primo tradizionale orientamento, ancora prevalente, rinviene il bene giuridico nella fede pubblica, a tutela dei consumatori che si affidano circa la genuinità e l’autenticità del prodotto; tale tesi trae forza principalmente dalla collocazione dei reati di cui agli articoli 473 e 474 c.p. nel titolo dei delitti contro la fede pubblica, evocativo del bene giuridico presidiato dal legislatore.
Una secondo scuola di pensiero sostiene, invece, la natura plurioffensiva dei reati suddetti, tanto a tutela della fede pubblica, e quindi dell’affidamento del consumatore, quanto a tutela della proprietà industriale, e quindi dell’imprenditore.
A seguito della prefata riforma del 2009 è emerso un terzo orientamento, teso a ricondurre tali reati nell’alveo dei diritti di proprietà industriale: siffatto orientamento farebbe leva su due principali argomentazioni; in primo luogo si osserverebbe che a far data dalla legge del 1992 che consente la libera cessione del marchio, quest’ultimo avrebbe perso la sua funzione prettamente identificatrice, incrinando l’orientamento risalente al codice Zanardelli della tutela della fede pubblica; inoltre deporrebbe in tal senso la rubricazione data alla modifica normativa, titolata “tutela penale dei diritti di proprietà industriale”.
L’adesione all’una o all’altra teoria comporta notevoli risvolti pratici, ricadenti precipuamente sul concetto di offensività; infatti, qualora si aderisse alla tesi che riconosce alle suddette norme la tutela della fede pubblica, potrà concludersi nel senso di ammettere rilevanza penale al falso grossolano –qualora ne ricorrano gli estremi – per inidoneità della condotta ad offendere il bene giuridico, con conseguente non punibilità della stessa; viceversa, ad esiti opposto, dovrà giungersi qualora dovesse rinvenirsi l’oggetto di tutela nel diritto all’uso esclusivo del marchio, potendosi sostenere che una condotta, seppur non idonea a trarre in inganno il consumatore, sia idonea a ledere l’interesse all’uso esclusivo del marchio da parte dell’imprenditore.
Ciò tuttavia, anche aderendo all’impostazione prevalente che riconosce come oggetto di tutela la fede pubblica, permangono rilevanti nodi problematici.
Ciò si ripercuote sul doppio significato in cui si è sopra declinato il principio di offensività, tanto sul versante interpretativo, essendo ora mai prassi riconosciuta la consolidazione delle categorie del “falso innocuo” (ricorrente nell’ipotesi in cui il falso, pur non essendo grossolano, non sia parimenti idoneo in concreto ad ingenerare confusione sulla genuinità del prodotto), del “falso grossolano” (rispetto al quale la falsità emerge ictu oculi) o del “falso inutile” (realizzantesi nel caso di riproduzione di un bene giuridicamente inesistente), quanto sul versante della tipizzazione legislativa, trattandosi di nozione talmente fluttuante – quella di fede pubblica – tale da non consentire al legislatore di costruire un dato fondante su cui individuare dei fatti di reato effettivamente pericolosi o dannosi.
Non va infatti sottaciuto come la Corte Costituzionale abbia in più occasioni evidenziato come il bene giuridico tutelato si erga a canone ermeneutico, che impone al giudice di espellere, rectius ritenere non punibili, quelle condotte che, pur essendo in astratto riconducibili ai possibili significati letterali della norma, si rivelino in concreto inidonee ad offendere il bene giuridico preventivamente individuato dal legislatore.
Ciò posto, dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere tali forme di falsità non penalmente rilevanti facendo ricorso all’istituto del reato impossibile, inteso nel senso di canone ermeneutico a cui l’interprete deve affidarsi.
Traslando tali coordinate ai reati in questione, dovrà concludersi nel senso del rispetto dei prefati principi solo qualora, tanto in sede di tipizzazione delle fattispecie, quanto in sede giudiziale, si assisterà ad un recupero della categoria dei reati contro la fede pubblica, connotati da un bene giuridico altamente volatile, al campo dell’oggettività giuridica.