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QUESTIONI RILEVABILI D’UFFICIO E TUTELA DEL CONTRADDITTORIO NEL PROCESSO AMMINISTRATIVO

 

QUESTIONI RILEVABILI D’UFFICIO E TUTELA DEL CONTRADDITTORIO NEL PROCESSO AMMINISTRATIVO

autore Angela Randazzo

Secondo quanto previsto dall’art. 99 c.p.c. “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve proporre domanda al giudice competente”. La norma sancisce il cd. principio della domanda che in materia giurisdizionale civile, eccettuate alcune ipotesi di esercizio obbligatorio dell’azione da parte del pubblico ministero quando si controverte su diritti indisponibili, subordina l’esercizio della funzione giurisdizionale all’iniziativa del titolare del diritto leso. Il principio è corollario della garanzia di imparzialità e terzietà del giudice, il quale non può dare impulso a iniziative giurisdizionali che poi dovrà concludere, a meno che in gioco siano superiori interessi pubblici o diritti fondamentali sottratti alla disponibilità di parte. Per tale ragione, l’esercizio del diritto d’azione ex art. 24 Cost. presuppone una domanda di tutela con la quale una parte deduce in giudizio una propria situazione giuridica, ne lamenta la lesione e, in conseguenza, ne chiede la relativa tutela al giudice adito.

Tali principi trovano applicazione anche in sede giurisdizionale amministrativa, ove le azioni a tutela delle posizioni di interesse legittimo e di diritto soggettivo, in ipotesi di giurisdizione esclusiva, sono pur sempre rimesse alla disponibilità di parte, che valuterà l’opportunità di ricorrere al giudice amministrativo per far valere il bene della vita frustato dal mancato ovvero illegittimo esercizio del potere amministrativo.

La parte avverso cui è instaurata un’azione giurisdizionale può decidere di esercitare il diritto di difesa ex art. 24, 2 co., Cost., avvalendosi a tal fine di differenti strumenti e/o facoltà.

In generale, il convenuto può limitarsi ad espletare mere difese, contestando in fatto e/o in diritto quanto rappresentato dall’attore con la domanda giudiziale. Il convenuto può eventualmente proporre domande riconvenzionali, con cui ampliare l’oggetto del giudizio, deducendo una nuova situazione soggettiva; oppure allegare fatti nuovi proponendo eccezioni. Più precisamente, l’eccezione, altrimenti definita questione, è lo strumento con il quale una parte deduce nuovi elementi di fatto e/o di diritto, senza tuttavia ampliare l’oggetto del giudizio, in quanto tali elementi, singolarmente considerati, non potrebbero fondare un’autonoma domanda per carenza di dimensione oggettiva. I nuovi fatti allegati, oggetto dell’eccezione, si caratterizzano per l’idoneità dei medesimi, se ritenuti fondati, a precludere l’esame nel merito della domanda ovvero a determinare il rigetto.

In particolare, in ragione della relazione escludente sussistente tra la questione e la domanda di tutela, si distinguono le questioni pregiudiziali di diritto (eccezioni processuali) e le questioni preliminari di merito (eccezioni sostanziali).

Con l’eccezione processuale una parte contesta la valida instaurazione del rapporto giuridico processuale, dovuta alla mancanza di taluni presupposti che la legge inderogabilmente richiede affinché il giudice possa decidere nel merito la domanda. Tradizionalmente le questioni pregiudiziali di rito si distinguono in ragione dell’oggetto cui si riferiscono: presupposti processuali inerenti l’organo giudicante, come la giurisdizione, la competenza e la regolare costituzione del giudice; presupposti inerenti le parti, come la capacità processuale, la legittimazione ad agire e l’interesse ad agire; presupposti inerenti l’oggetto del giudizio, come il giudicato, la litispendenza e la continenza.

Con l’eccezione sostanziale, invece, la parte deduce in giudizio fatti modificativi, impeditivi e/o estintivi del diritto fatto valere in giudizio (art. 2967 c.c.). In altre parole, le questioni preliminari di merito rappresentano delle situazioni di fatto e/o di diritto che paralizzano l’azione promossa conducendo a un rigetto nel merito della pretesta azionata. Ne sono esempi l’eccezione di prescrizione (fatto estintivo), l’eccezione di decadenza (fatto impeditivo) e l’eccezione di novazione (fatto modificativo).

Un ulteriore profilo caratterizzativo le questioni attiene alla loro rilevabilità. Al riguardo si distingue fra eccezioni in senso stretto ed eccezioni in senso lato: mentre le prime sono rilevabili solo dalla parte che intende difendersi dall’azione avversaria, le seconde sono rilevabili anche dal giudice in ogni stato e grado del procedimento. La rilevabilità d’ufficio è consentita fino al primo rilievo, atteso che la questione dopo essere stata sollevata, per essere nuovamente esaminata dal giudice, dovrà convertirsi in motivo di impugnazione, salvo il formarsi di giudicato implicito. Le eccezioni processuali, salvo talune ipotesi, sono rilevabili d’ufficio, mentre quelle sostanziali solo dalla parte nel cui interesse sono previste, a meno che la legge disponga diversamente.

Il codice del processo amministrativo si conforma a tale sistema, non solo attraverso un rinvio al codice di procedura civile per quanto non espressamente disciplinato nei limiti di compatibilità, ma anche attraverso una puntuale disciplina di talune questioni rilevabili d’ufficio.

In particolare, quanto alle eccezioni processuali, innanzitutto, vengono in rilievo il difetto di giurisdizione (art. 9 c.p.a.) e il difetto di competenza (art. 15 c.p.a.), entrambe qualificabili come eccezioni in senso lato, rilevabili d’ufficio, tuttavia, solo in primo grado, in ciò differenziandosi dai relativi omologhi del codice di procedura civile.

Costituiscono, inoltre, questioni pregiudiziali di rito rilevabili d’ufficio la tardività della notificazione o del deposito (art. 35, 1 co., lett. a), c.p.a.) ovvero la nullità del ricorso o della notificazione (art. 44, 4 bis co., c.p.a.), che conducono ad una pronuncia di irricevibilità della domanda.

Ancora, la carenza di interesse ad agire ovvero di legittimazione ad agire, nonché qualsiasi ragione ostativa a una pronuncia di merito, vizi che conducono a una dichiarazione di inammissibilità ex art. 35, 1 co., lett. b), c.p.a. Al riguardo, in particolare, occorre ricordare che allorché si parli di legittimazione ad agire ci si riferisce all’affermata titolarità, attiva o passiva, della pretesa azionata, mentre per interesse ad agire l’utilità che il provvedimento finale del giudizio, in caso di accoglimento della domanda, possa arrecare alla parte: entrambe le condizioni costituiscono presupposti necessari affinché il giudice possa esaminare nel merito la domanda e sono rilevabili d’ufficio dal giudice in ogni stato e grado del procedimento. Un’ipotesi particolare è rappresentata dalla circostanza in cui tali eccezioni siano avanzate mediante ricorso incidentale, in quanto pongono l’annosa questione dell’ordine di trattazione fra ricorso principale e incidentale, soprattutto in ipotesi di gara con due soli ricorrenti che reciprocamente contestano l’illegittimità della procedura ad evidenza pubblica, ancorché per profili differenti. Ad oggi, la posizione consolidatesi sul punto privilegia l’ordine delle questioni su quello dei ricorsi: in altre parole, non rileva il contenente dell’eccezione, quanto invece l’eccezione medesima, che, ponendosi come preliminare rispetto all’esame nel merito della domanda, costituisce un prius logico rispetto al thema decidemdum. In conseguenza, il giudice potrà rilevare in ogni momento la carenza dei citati presupposti, ancorché contenuti in ricorso incidentale e, in ogni caso, indipendentemente dallo stesso rilievo di parte.

Inoltre, in punto di eccezioni processuali, vengono in rilievo, da un alto, le cause estintive del giudizio, rappresentate dal mancato rispetto dei termini inderogabili, fissati dalla legge o dal giudice, per la prosecuzione ovvero di riassunzione del processo e dalla perenzione (art. 83 c.p.a.), ai sensi dell’art. 35, 2 co., lett. a) e b); nonché quanto previsto dall’art. 70 c.p.a., ove si prevede che “il collegio può, su istanza di parte o d’ufficio, disporre la riunione di ricorsi connessi”; e dall’art. 49, 1 co., c.p.a., che per le ipotesi in cui il ricorso sia stato proposto solo contro taluno dei controinteressati, prevede che il presidente o il collegio ordini l’integrazione d’ufficio del contraddittorio nei confronti degli altri.

Spostando l’attenzione sulle questioni preliminari di merito rilevabili d’ufficio, viene in rilievo l’art. 31, 4 co., c.p.a., allorché dispone che “la nullità dell’atto può essere sempre opposta dalla parte resistente o essere rilevata d’ufficio dal giudice”. La previsione rappresenta un’ipotesi di giurisdizione oggettiva, allorché consente, oltre che alla parte resistente, anche al giudice di rilevare in ogni momento la nullità di un provvedimento, ancorché siano decorsi termini di decadenza previsti per la relativa azione. In tal guisa, rilievo assume anche il recente pronunciamento delle Sezioni Unite della Cassazione relativamente alla rilevabilità d’ufficio della nullità del contratto, quando sia stata proposta domanda di risoluzione, rescissione o demolitoria. Come è noto, il Supremo Consesso ha statuito che allorché sia stata proposta impugnativa contrattuale, se il giudice si è pronunciato nel merito senza indagare su profili afferenti la validità del contratto, in applicazione del divieto di ne bis in idem, i punti il cui esame va ritenuto pregiudiziale nonostante la loro mancata specifica soluzione, non possono più essere messi in discussione, salvo la causa sia stata definita con una pronuncia fondata su una questione di merito “più pronta”, senza scrutinare i profili concernenti la validità del titolo costitutivo in ragione dell’operare del c.d. principio della ragione più liquida. Il nostro ordinamento non postula, infatti, un ordine necessitato di tipo logico-giuridico nella risoluzione delle questioni di rito e di merito ma è il giudice, caso per caso, a trattare e risolvere quelle che, essendo maggiormente liquide, consentono la più celere definizione del processo. La conseguenza è che la controversia potrebbe essere risolta tramite l’esame esclusivo di una questione che è più liquida delle altre, con assorbimento delle difese ed eccezioni ulteriori, siano esse di parte o rilevate d’ufficio. La pronuncia testé citata assume rilievo nella misura in cui si possa riflettere in ordine all’applicabilità di tale principio di diritto anche al provvedimento amministrativo: in buona sostanza, ove si optasse per una risposta affermativa, ne deriverebbe che proposta azione costitutiva o di condanna, il giudice, pronunciandosi nel merito, implicitamente afferma l’insussistenza di vizi che potrebbero determinare la declaratoria di nullità del provvedimento, in quanto l’accertamento in ordine a essi costituisce un prius logico rispetto ad altri vizi e, pertanto, ne presuppone la verifica positiva, salvo abbia definito il giudizio per una ragione più liquida e assorbente, come, ad esempio, la carenza delle condizioni dell’azione. Di talché, il giudice amministrativo non rilevando d’ufficio la nullità del provvedimento, implicitamente nega la sussistenza di vizi implicanti la nullità provvedimentale, assenza che, ove non contestata in motivo d’impugnazione, non potrà più essere scrutinata per il formarsi di giudicato implicito.

In tema di questioni preliminari di merito, rilievo assumono anche le diposizioni di cui agli artt. 121 e 123 c.p.a., alle stregua delle quali il giudice, annullando l’aggiudicazione definitiva, dichiara l’inefficacia del contratto nei casi di violazioni più gravi normativamente definite, precisando in funzione delle deduzioni delle parti e della valutazione della gravità della condotta della stazione appaltante e della situazione di fatto, se la declaratoria di inefficacia è limitata alle prestazioni ancora da eseguire alla data della pubblicazione del dispositivo o opera in via retroattiva. Il giudice amministrativo, inoltre, applica le sanzioni previste, assicurando il rispetto del principio del contraddittorio e determinandone la misura in modo che siano effettive, dissuasive, proporzionate al valore del contratto, alla gravità della condotta della stazione appaltante e all’opera svolta dalla stazione appaltante per l’eliminazione o attenuazione delle conseguenze della violazione.

La rilevabilità d’ufficio di una questione, processuale o sostanziale che sia, porta con sé il problema della tutela del contraddittorio. Come è noto l’art. 111 Cost. afferma che “la giurisdizione si attua mediante giusto processo regolato dalla legge” e che “un processo per essere giusto deve svolgersi nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti al giudice terzo e imparziale”, principi che hanno trovato recezione normativa anche nel c.p.a. all’art. 2. La tutela del contraddittorio impone che le parti del processo debbano poter interloquire su ogni questione di fatto e/o di diritto che assume rilevanza ai fini della decisione della causa e, in conseguenza, esercitare, in condizioni di assoluta parità, i poteri che la legge riconosce, contestando, promuovendo eccezioni o domande riconvenzionali e avanzando istanze istruttorie per la prova di quanto affermato. La tutela del contraddittorio deve essere garantita in ogni fase processuale, da quella introduttiva fino al momento finale della decisione. Per tali ragioni, consentire all’organo giudicante di rilevare una questione d’ufficio tale da precludere una decisione nel merito della vicenda o tale da dar luogo a un rigetto della domanda, senza rendere le parti edotte della questione medesima si tradurrebbe in una chiara violazione del principio del giusto processo e del contraddittorio. Il fenomeno è meglio conosciuto come “sentenza a sorpresa” o “sentenza della terza via”: formule efficaci per rappresentare come, nelle esaminate ipotesi, il dictum giudiziale si fonda su ragioni atipiche, ove, tuttavia, per atipicità s’intende la mancata conoscenza che le parti hanno della loro rilevanza e, in conseguenza, il mancato esercizio di poteri difensivi pertinenti.

In un primo momento dell’evoluzione dottrinal giurisprudenziale era discusso se fosse una mera facoltà per il giudice indicare alle parti la questione rilevata d’ufficio, sì da stimolare su di esse il contraddittorio. La questione trovò una prima timida risposta con l’art. 384, 3 co., c.p.c., introdotto con il d.lgs. n. 40 del 2 febbraio 2006, che, limitatamente ai giudizi dinanzi alla Corte di cassazione, statuisce che se il giudice “ritiene di porre a fondamento della sua decisione una questione rilevata d’ufficio, la Corte riserva la decisione, assegnando con ordinanza al pubblico ministero e alle parti un termine non inferiore a venti e non superiore a sessanta giorni dalla comunicazione per il deposito in cancelleria di osservazioni sulla medesima questione”. La norma in realtà non chiarisce la natura del potere del giudice e nulla specifica in ordine alle conseguenze derivanti dalla sua violazione. La natura di potere – dovere del giudice si è esplicitata con la riforma del 2009 (l. n. 69 del 18 giugno 2009) con cui si è aggiunto un nuovo comma all’art. 101 c.p.c. e si è così sancito l’obbligo del giudice di assegnare alle parti termini per presentare memorie in ordine alle questioni rilevate d’ufficio. La norma è del tutto omologa alla precedente, si differenzia, tuttavia, in quanto prescrive l’indicazione della questione con assegnazione di termini per memorie a pena di nullità.

Il codice del processo amministrativo si adegua a tali indicazioni. Il comma 3 dell’art. 73 c.p.a., infatti, così prevede: “se ritiene di porre a fondamento della sua decisione una questione rilevata d’ufficio, il giudice la indica in udienza dandone atto al verbale. Se la questione emerge dopo il passaggio in giudicato, il giudice riserva quest’ultima e con ordinanza assegna alle parti un termine non superiore a trenta giorni per il deposito di memorie”. La norma con maggiore precisione rispetto alle omologhe del c.p.c., conferisce al giudice il potere-dovere di indicare alle parti la questione rilevata d’ufficio, prevedendo solo in via residuale l’ipotesi che la questione venga rilevata a trattazione e istruttoria già esaurita. Di talché, le parti potranno discutere della questione solamente in udienza, residuando lo strumento delle memorie solo quando il giudice dovesse avvedersi delle stesse in fase decisoria. Dalle indicazioni che precedono è dunque evidente che l’indicazioni di eccezioni rilevabili d’ufficio non sia una scelta discrezionale del giudice, gravando sullo stesso il dovere di rendere edotte, in qualsiasi momento, le parti affinché le stesse possano interloquire sulle medesime. La giurisprudenza amministrativa pronunciatesi sul tema ha avuto altresì modo di sottolineare che il dovere del giudice si estende altresì all’indicazione delle conseguenze che deriverebbero dall’accoglimento della medesima. L’art. 73 c.p.a. tace, tuttavia, in ordine ai vizi di cui sarebbe affetta la sentenza adottata in sua violazione. La questione che si pone dunque è stabilire se possono considerarsi valide le conclusioni che al riguardo si sono raggiunte in materia civile. Come precedentemente sottolineato, l’art. 101, co. 2, c.p.c., condiziona l’esaminando dovere del giudice a pena di nullità della sentenza. In conseguenza, una c.d. sentenza della terza via non sarebbe semplicemente ingiusta ma nulla. Il che pone il problema di comprendere come tale vizio debba essere dedotto e quali possono essere le determinazioni del giudice. Ebbene, la violazione in esame dovrà convertirsi in motivo di impugnazione, riconducibile, in ipotesi di ricorso per cassazione, al vizio di cui al n. 4 dell’art. 360 c.p.c. (nullità della sentenza o del procedimento). In sede d’appello, il giudice non potrà disporre la rimessione al giudice di grado, stante la tassatività delle ipotesi in cui questo è consentito ex art. 354 c.p.c., ma dovrà rimettere le parti in termini, consentendogli di espletare ogni potere difensivo che la questione rilevata d’ufficio avrà necessitato; in sede di giudizio di legittimità, la fondatezza del motivo darà invece luogo ad una cassazione della sentenza con rinvio prosecutorio.

Benché l’art. 73, co. 3, c.p.a., nulla dica in ordine alle conseguenze della sua violazione, è corretto di rinviare alle medesime conclusioni esaminate per il processo civile. Pertanto, la violazione del dovere del giudice di integrare il contraddittorio in ordine alle questioni rilevate d’ufficio potrà convertirsi in motivo d’impugnazione che, qualora dovesse riscontrarsi positivamente, porterà a una pronuncia di rimessione al giudice di primo grado ex art. 105, 1 co, c.p.a.

La dottrina processual –civilistica si chiede se sia sufficiente che il giudice riscontri l’omissione del contraddittorio per poter adottare le determinazioni di cui sopra, ovvero sia invece necessario che valuti l’incidenza causale della questione rispetto al pronunciamento finale, di guisa che nelle ipotesi in cui avesse indicato alle parti le medesima e il risultato non sarebbe stato differente, non potrebbe riformare e/o cassare la sentenza. L’evoluzione del processo amministrativo da giudizio sull’atto a giudizio sul rapporto porta a ritenere necessario tale accertamento da parte del giudice amministrativo, non potendo questi rinviare in primo grado nelle ipotesi in cui la questione rilevata non abbia avuto volare dirimente sull’esito delle vicende. Altrimenti opinando, si correrebbe il rischio di convertire la tutela di un principio nobile come il contraddittorio in un motivo pretestuoso per dilazionare il giudizio, senza valide ragioni giustificative.

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