Rapporto di presupposizione tra reati e successione mediata di norme penali
Rapporto di presupposizione tra reati e successione mediata di norme penali
La possibilità che la commissione di un reato sia subordinata alla previa consumazione di un altro reato è ammessa dall’art. 170 del codice penale. La norma prevede che quando un reato è il presupposto di un altro reato, la causa che lo estingue non si estende all’altro reato.
Affinché si possa parlare di presupposizione tra reati è, quindi, necessario che sia previamente integrata una determinata fattispecie criminosa, c.d. principale, e che assuma il ruolo di requisito di esistenza di un secondo reato, c.d. accessorio.
La struttura del reato accessorio si caratterizza, perciò, per contenere una sorta di deroga rispetto al principio di materialità, desumibile tanto dal dettato costituzionale (art. 25 Cost.) che dal codice penale (art. 1 c.p.).
Il principio di materialità impone che l’effetto della sanzione penale derivi dalla commissione di un determinato fatto; diversamente la struttura dei reati accessori è connotata dalla produzione di effetti penali collegati alla realizzazione di altri effetti, ossia quelli scaturenti dalla commissione del reato principale.
La particolare struttura dei reati accessori, la cui composizione è caratterizzata dalla presenza di elementi normativi e, più nello specifico, di un reato, pone il problema di capire il ruolo ricoperto dal reato principale all’interno del reato accessorio.
Più nello specifico occorre capire se l’elemento normativo sia idoneo ad integrare il precetto penale o il fatto e, conseguentemente, quale sia la corretta disciplina da applicare nel caso in cui sia modificato o abrogato il reato principale.
Giova fin da subito precisare che comprendere se l’elemento normativo che caratterizza la fattispecie integra il fatto o il precetto produce rilevanti conseguenze. Nel caso di integrazione del precetto si dovranno applicare le disposizioni previste dall’art. 2 del c.p. in tema successioni delle leggi nel tempo, ossia la disciplina dell’abolitio o mutatio criminis; all’opposto una mera integrazione del fatto non potrà beneficiare di tale normazione.
Tanto chiarito, occorre preliminarmente soffermarsi sulla categoria dei reati accessori per comprenderne le caratteristiche ed i confini.
Come anticipato l’unica norma del codice penale che prevede espressamente la possibilità che un reato sia il presupposto di un altro è l’art. 170 c.p. La disposizione non fornisce indicazioni sulle caratteristiche della categoria dei reati presupposti o c.d. accessori, limitandosi a chiarire che la causa che estingue il primo reato non si estende al secondo.
Il comma secondo dell’art. 170 c.p. prevede la medesima disciplina per la differente ipotesi il cui il reato principale sia elemento costitutivo o circostanza aggravante del reato accessorio. La lettura della norma permette, quindi, di comprendere che un reato può essere presupposto, elemento costitutivo o circostanza aggravante di un altro reato.
Non è presente nel codice, tuttavia, una disciplina organica di tali ipotesi.
L’assenza di una previsione maggiormente esplicativa delle caratteristiche dei reati accessori ha spinto l’indagine sul tema a muovere le prime considerazioni dalla nozione di presupposizione per poi valutare la presenza di norme riconducibili a tale logica.
La presupposizione deve essere intesa come antecedente temporale e logico, ossia come condizione di esistenza del reato accessorio rispetto al principale. La realizzazione del reato accessorio è, perciò, subordinata alla presenza del reato principale. Diversamente l’esistenza e la configurazione del reato principale è svincolata dal reato accessorio, godendo il primo di autonomia. Il reato principale deve perciò essere collocato temporalmente prima del reato accessorio e deve essere svincolato, ossia autonomamente realizzabile.
Compresi i tratti della presupposizione, la dottrina ha individuato principalmente tre norme da collocare all’interno della categoria dei reati accessori: il favoreggiamento reale e personale (artt. 378 e 379) e la ricettazione (648 c.p.)
Il favoreggiamento personale si caratterizza per sanzionare, salvo i casi di concorso, colui che, dopo che fu commesso un delitto, aiuta taluno a eludere le investigazioni o a sottrarsi alle ricerche. Nella medesima logica sanzionatoria si colloca anche il favoreggiamento reale, il quale punisce, salvo i casi di concorso e quelli previsti dall’articolo 648 c.p. al 648-ter c.p., chiunque aiuta taluno ad assicurarsi il prodotto o il profitto o il prezzo di un reato.
Il reato di ricettazione punisce, invece, fuori dai casi di concorso, chi al fine di procurare a se un profitto, acquista , riceve, occulta denaro o altre cose provenienti da qualsiasi delitto o si intromette nel farle acquistare, ricevere od occultare.
Ciò che emerge immediatamente dalla descrizione dei reati indicati è la subordinazione della configurabilità del reato alla presenza di uno previamente commesso.
L’art. 378 c.p. pone come presupposto che sia stato già commesso un delitto per il quale la legge stabilisce l’ergastolo o la reclusione; l’art. 379 c.p. richiede che si sia realizzato un reato; l’art. 648 c.p. condiziona il reato alla presenza di un qualsiasi delitto.
Il secondo comune denominatore tra le norme analizzate risulta essere l’espressione “fuori dai casi di concorso”. La disciplina dei reati accessori non trova, quindi, applicazione per coloro che abbiano concorso nella commissione del reato principale.
Tale peculiarità è comprensibile proprio in virtù del rapporto che si ritiene essere sussistente tra reato principale e accessorio.
Come precedentemente anticipato, il reato principale si caratterizza per autonomia ed antecedenza. Il reato accessorio, come desumibile dalla stessa dizione utilizzata per descriverlo, si aggiunge ad una fattispecie già perfetta, sicché deve caratterizzarsi per essere qualcosa di diverso ed ulteriore rispetto al disvalore già realizzato con il primo reato.
Nel caso di concorso di reato si ritiene che il disvalore realizzato tramite la commissione del primo reato si estenda e coinvolga l’insieme di attività ancillari al reato, come ad esempio l’agevolazione a sottrarsi alle indagini o ad assicurare il profitto del reato, piuttosto che occultare cose provenienti da reato.
L’esaurimento del disvalore con la commissione del reato principale e tutte le attività ancillari riconducibili impedisce di sanzionare il concorrente per un fatto già inquadrato nel reato principale. In questa specifica ipotesi il reato accessorio è, quindi, inteso come un post fatto non punibile. Opinare diversamente vorrebbe dire contraddire il principio del ne bis in idem. Il rapporto che si crea tra il concorso nel reato principale e il reato accessorio è quindi configurabile come un concorso apparente di norme. Si applicherà, quindi solo la disciplina prevista dall’art. 110 c.p. in combinato con la norma di parte speciale violata.
Affinché si possa integrare le condotta tipica prevista dalle fattispecie richiamate, occorre che l’autore sia un soggetto che non abbia commesso il reato principale o abbia concorso esaurendo il disvalore previsto dalla disposizione.
Parte della dottrina ha tuttavia chiarito che, nonostante la logica dei reati accessoria sia quella appena descritta, ossia escludere la punibilità delle azioni ancillari alla commissione di un determinato reato in favore di quelle commesse da soggetti che con la loro azione non hanno partecipato ed esaurito il disvalore della condotta principale, l’ordinamento sembra conoscere eccezioni.
Sono presenti, infatti, talune norme che rispettano la struttura precedentemente descritta per i reati accessori, ossia richiedono la presenza di un reato come presupposto di esistenza ed escludono il concorso dall’ambito di applicazione, ma descrivono condotte che non sembrano essere riconducibili al disvalore della condotta principale.
In altri termini, con particolare riferimento agli art. 648 bis e ter c.p., rispettivamente riciclaggio o impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita, è stato sostenuto da parte della dottrina che non sia corretto escludere dall’ambito di applicazione il concorrente nel reato principale, in quanto le condotte di riciclaggio o impiego di denaro, beni o utiltià di provenienza illecita non sembrano essere la norma conseguenza di qualsiasi delitto non colposo per il riciclaggio e di qualsiasi delitto per l’art. 648 ter.
Tale tipologie di reati accessori, definiti c.d. di seconda generazione, presenterebbero quindi delle caratteristiche in parti comuni e in parti differenti rispetto alle ipotesi tradizionali di reati accessori, differenziandosi per ammettere l’allargamento delle tipologie di condotte riconducibili come normali conseguenze del reato principale.
Comprese le caratteristiche dei reati accessori, occorre comprendere la disciplina da applicare nel caso in cui il reato principale muti o venga abrogato.
Per analizzare tale aspetto occorre previamente chiarire che gli elementi normativi del reato possono integrare sia il fatto che il precetto.
La bontà di tale distinzione è confermata dall’art. 47 c.3 c.p che prevede l’esclusione della punibilità nel caso di errore su una legge diversa dalla legge penale che abbia cagionato un errore sul fatto. Diversamente se l’errore cade sul precetto, ai sensi dell’art. 5 c.p., l’errore non sarà scusabile. Il legislatore ha quindi previsto una differente disciplina, piu severa se l’errore riguarda il precetto, meno se riguarda il fatto.
Comprendere in quali ipotesi la norma extrapenale integri il precetto, e sia periciò applicabile la disciplina prevista dall’art. 2 c.p. ha posto un acceso dibattito in dottrina.
Una prima tesi ha sostenuto che il rinvio della norma penale a fonti secondarie integri il precetto solo quando quest’ultima sia generale, diversamente in caso di fonte secondaria individuale e concreata non si tratterà di integrazione del precetto.
Una seconda tesi ha affermato che anche gli elementi di fatto integrano il precetto, rappresentando questi ultimi gli elementi costituitivi della fattispecie. Si ritiene inoltre che il termine “fatto” presente nel primo e nel secondo comma dell’art. 2 c.p. debba avere lo stesso significato, sicché anche per la modifica degli elementi di fatto si applicherà la disciplina di successione di leggi penali dell’art. 2.
La tesi preferibile risulta, tuttavia, essere quella che individua nelle norme che possono integrare il precetto solo quelle definitori. Tali norme, partecipando a descrivere il disvalore della condotta, sono considerate esse stesse precetto. La caratteristica è quella di poter astrattamente sostituire il riferimento normativa nel reato con il contenuto della norma extrapenale. Un tipico esempio di norma definitoria risultano essere quelle che fanno riferimenti ai soggetti “minori”, rinviandosi al codice civile che sancisce che la maggiore età si acquista a diciotto anni.
Si osserva inoltre che in conformità al principio di riserva di legge tendenzialmente assoluta, la fonte di carattere secondario non può mai integrare il precetto, ma può avere solo un ruolo di specificazione in chiave tecnica di elementi che non partecipano del disvalore della fattispecie. Se cosi non fosse si consentirebbe di eludere la garanzia sottesa alla principio di riserva di legge. Legge da intendersi come quella parlamentare frutto di un determinato iter che garantisce il dibattito tra forze politiche e che è abilitato ad individuare il precetto. Solo la fonte legislativa può, quindi, integrare il precetto.
Il criterio che si ritiene maggiormente valido per comprendere se un determinato elemento normativo integri il fatto o il precetto è, perciò, basato sulla presenza o meno di una norma definitoria.
A bene vedere recente giurisprudenza ha utilizzato anche criteri di carattere sostanziale, optando per una integrazione del fatto o del precetto in base al ruolo e la funzione che la norma integratrice svolge nel reato.
Nello specifico si è ritenuto che nel reato di calunnia, il venir meno del reato oggetto di falsa incolpazione integri un presupposto di fatto, non applicandosi l’art. 2 c.p.
Ciò, in quanto, il precetto contenuto nel reato non risulta mutato dalla modifica legislativa. In base a tale impostazione il soggetto condannato prima della modifica della norma integratrice del fatto non potrà chiedere l’assoluzione o, nel caso in cui si sia formato il giudicato, la revoca della condanna.
Diversamente si è sostenuto che nel caso di abrogazione del reato scopo nell’associazione per delinquere, viene meno anche quest’ultimo reato, poiché l’assetto di interessi sotteso alla norma si ritiene caducato. In altri termini, nel caso in cui un soggetto condannato per associazione per delinquere finalizzata ad un determinato scopo delittuoso veda abrogata la norma che sanziona il reato fine, dovrà essere assolto se il giudizio è ancora pendente e potrà richiedere la revoca del giudicato qualora esso si sia già formato.
Analizzate le ipotesi e le fonti abilitate a integrare il precetto penale è possibile comprendere che nel caso dei reati accessori, il reato principale partecipa del disvalore del reato accessorio contribuendo a definirlo. Ciò comporta che gli eventuali effetti della modifica o abrogazione del reato principale si estenderanno al reato accessorio.
Più nello specifico nel caso di abrogazione del reato principale anche il condannato per il reato accessorio potrà chiedere ai sensi dell’art. 2 c. 2 la cessazione dell’esecuzione degli effetti; allo stesso modo nel caso di modifica favorevole al reo della disciplina del reato principale, potrà essere chiesta l’applicazione del trattamento più favorevole anche per il reato accessorio.