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RESPONSABILITÀ DEGLI ENTI DIPENDENTE DA REATO: AMMISSIBILITÀ DELLA COSTITUZIONE DI PARTE CIVILE

RESPONSABILITÀ DEGLI ENTI DIPENDENTE DA REATO: AMMISSIBILITÀ DELLA COSTITUZIONE DI PARTE CIVILE

 

Pubblicato il 5/03/2016 autore Paola Montone

Premessi cenni sulla natura della responsabilità degli enti dipendente da reato, si analizzi l’ammissibilità della costituzione di parte civile nel processo a carico degli stessi.

La disciplina della responsabilità degli enti dipendente da reato è contenuta in una normativa di parte speciale, introdotta, in termini relativamente recenti, con il decreto legislativo numero 231 del 2001. Il ritardo nella disciplina può essere giustificato in considerazione della ritenuta operatività nel nostro sistema penale del principio societas delinquere non potest, a sua volta espressione del principio della personalità della responsabilità penale di cui all’articolo 27 della Costituzione.

Nello specifico, partendo dall’assunto per cui per potersi configurare una responsabilità occorre ricostruire un nesso di derivazione causale tra una condotta ed un evento (sia materiale che giuridico), se ne deve dedurre l’inconfigurabilità di una responsabilità penale in capo ad un ente giuridico, che non può agire materialmente e tenere una condotta antigiuridica se non per il tramite delle persone fisiche che lo rappresentano o che comunque lo gestiscono.

Ecco allora che la postulata inconfigurabilità di una responsabilità in capo ad una persona giuridica si ricollega ad un’argomentazione di tipo logico ancor prima che giuridico. Eppure, le nuove frontiere del crimine, soprattutto di quello organizzato, si sono evolute nel tempo, adottando schemi operativi fuori dal parametro classico di riferimento della persona fisica come unica autrice materiale del reato, con una graduale espansione del fenomeno della criminalità d’impresa.

Tale tematica ha interessato anche il diritto comunitario in quanto la situazione di sostanziale impunità delle persone giuridiche impattava sensibilmente sul fronte della tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee. Ciò è tanto più vero se si considera che è stata proprio la legge 300 del 2000, di ratifica ed esecuzione di alcuni atti internazionali (tra cui la Convenzione di Bruxelles del 1995 e della Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali) a contenere all’articolo 11 la delega al Governo per la disciplina della responsabilità delle persone giuridiche e di quelle prive di personalità giuridica, attuata per il tramite del decreto sovracitato.

Ciò premesso, la normativa in esame ha posto all’interprete tutta una serie di quesiti interpretativi, tra cui proprio quello dell’esatta individuazione dell’ambito di applicazione soggettiva della disciplina (discutendosi circa la sua applicabilità alle imprese individuali e a particolari tipologie societarie, quali le holding pure o anche le società miste che gestiscono servizi pubblici essenziali) nonché dell’ammissibilità della costituzione di parte civile nel processo a carico degli enti, oggetto di successivo approfondimento. In realtà, tutti questi quesiti presuppongono risolta a monte un’ulteriore questione interpretativa fortemente dibattuta, che è quella della natura che dev’essere ascritta alla responsabilità degli enti dipendente da reato.

In merito, è possibile riscontrare la presenza di differenti impostazioni esegetiche, volte da un alto ad affermare la natura penale della responsabilità, dall’altro la natura amministrativa e infine una natura ibrida della responsabilità, quale tertium genus, anche se quest’ultima può essere considerata una tesi altamente minoritaria.

Soffermandosi sulle due tesi più importanti, che sono quelle della responsabilità penale ed amministrativa dell’ente, è possibile evidenziare come le argomentazioni a supporto dell’una o dell’altra derivano da una differente interpretazione della stessa disciplina in esame e dalla valorizzazione di specifici contenuti dispositivi.

Infatti, dalla mera lettura del capo I del decreto emerge inequivocabilmente come lo stesso legislatore abbia qualificato a monte la responsabilità dell’ente in termini di responsabilità amministrativa. Tale rilievo trova conferma nell’articolo 1 che apre il testo normativo in esame e che, ancora una volta, fa riferimento ad una responsabilità “per gli illeciti amministrativi”, configurabile sia a carico degli enti forniti di personalità giuridica, che delle società ed associazioni prive di personalità giuridica, con esclusione dello Stato, degli enti pubblici territoriali, di quelli pubblici non economici e degli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale.

L’esclusione della natura penale della responsabilità è avvalorata anche dalla disamina del combinato disposto di cui agli articoli 5, 6 e 7 del d.lgs., che consente all’interprete di meglio circoscrivere la natura dell’addebito che viene rivolto all’ente.

In tal senso, l’ente è responsabile per la commissione di reati che possono esser commessi tanto da soggetti che si trovano in posizione apicale quanto da soggetti sottoposti all’altrui direzione, purché il reato sia commesso comunque nell’interesse ovvero a vantaggio dell’ente medesimo. Ed allora, la responsabilità avrebbe natura amministrativa anche perché il tipo di rimprovero che viene mosso dal legislatore non è di aver commesso in prima persona il fatto di reato, bensì di aver adottato un’organizzazione interna inadeguata e inefficace, visto che il modello di gestione dell’ente non è stato in grado di prevenire la commissione di illeciti da parte delle persone comunque riferibili all’ente medesimo.

In questo senso, si è emblematicamente parlato di una colpa di organizzazione, che si presume in presenza della commissione di uno degli illeciti penali specificatamente indicati nell’elenco dei cosiddetti reati-presupposto (essendo la commissione del reato il presupposto della responsabilità dell’ente), di cui agli articoli 24 e seguenti della disciplina in oggetto.

Si tratta, in realtà, di una presunzione di colpa che è suscettibile di prova contraria, come confermato dagli articoli 6 e 7, che fanno riferimento alla prova dell’adozione di “modelli di organizzazione e gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi” per escludere rispettivamente la responsabilità dell’ente in caso di commissione di un reato-presupposto da parte di soggetti in posizione apicale e dei soggetti di cui alla lettera b) dell’articolo 5 del decreto legislativo. La prova liberatoria in esame non si risolve, però, nella sola adozione di modelli di organizzazione ma soprattutto nella efficace attuazione degli stessi, di guisa che la distruzione dei ruoli e le modalità concrete di gestione delle criticità debbono avvenire in maniera tale da garantire il continuo adeguamento del modello alle esigenze del caso specifico.

A ciò si aggiunga la previsione di cui all’articolo 8, nella parte in cui cristallizzando il principio di autonomia della responsabilità dell’ente, giunge a delineare in maniera inequivoca un modello di responsabilità di tipo sussidiario e soprattutto indiretto, svincolata dal profilo dell’individuazione od imputabilità dell’autore del reato-presupposto ovvero dalla sussistenza di un’eventuale causa di estinzione del reato (che non sia l’amnistia, sebbene l’ente può comunque rinunciare alla stessa).

Tutti i dati normativi evidenziati convergono in maniera parallela verso un unico esito interpretativo, che è quello di qualificare la natura della responsabilità come amministrativa. In tal senso, depone la stessa disciplina legislativa, che non consentirebbe in tesi di essere interpretata in maniera diversa. Il rischio di una siffatta operazione sarebbe quello di delineare una responsabilità di tipo penale confliggente con gli stessi principi applicabili al sistema penale.

Il riferimento è in primis alla citata presunzione di colpevolezza che, seppure iuris tantum, risulta comunque del tutto incompatibile con l’inverso principio della presunzione di non colpevolezza, veicolato dal comma secondo dell’articolo 27 della Costituzione, il quale rappresenta un principio assoluto, mai derogabile, poiché espressione di un ordinamento liberale e garantistica ispirato al favor rei, quale il nostro. Un’ulteriore argomentazione a contrario, che può essere utilizzata a favore della tesi della natura amministrativa, è rinvenibile alla stregua della disciplina delineata dal decreto legislativo in tema di vicende modificative dell’ente, che lasciano ferma la responsabilità dell’ente neo-costituito per i reati commessi anteriormente alla data in cui la trasformazione, la fusione o la scissione è avvenuta.

Tale dato normativo può essere utilizzato come premessa logica per consolidare l’assunto per cui la responsabilità dell’ente non può essere qualificata come penale, in quanto se ciò fosse vero non potrebbe trovare una ragionevole spiegazione la scelta del legislatore di apprestare alle vicende modificative dell’ente una disciplina ancora una volta apertamente contrastante col principio di personalità della responsabilità, declinato nella sua duplice accezione di responsabilità per fatto proprio colpevole nonché di divieto di responsabilità per fatto altrui.

Parimenti, se si trattasse di responsabilità penale non si potrebbe giustificare il peculiare meccanismo di archiviazione delineato dall’articolo 58 del decreto che, a differenza di quanto previsto dal codice di procedura penale, non consente un controllo da parte del giudice sulla richiesta di archiviazione del p.m., essendo al contrario quest’ultimo ad emettere decreto motivato di archiviazione degli atti e dovendosi lo stesso limitare a trasmetterlo agli organi della procura, sub specie del procuratore generale presso la corte d’appello.

In realtà, la struttura composita della disciplina in esame è stata utilizzata per trarre argomentazioni anche a favore dell’opposta tesi che intravede una responsabilità penale dell’ente. In primo luogo, non si ritiene argomento decisivo quello che fa leva sull’impiego da parte del legislatore dell’aggettivo “amministrativa” riferita alla responsabilità dell’ente. Si aderisce, infatti, ad un’impostazione di stampo antiformalistica, che va al di là della definizione codicistica per approfondire la reale natura dell’istituto giuridico, e di cui ha fatto applicazione in ambito europeo la Corte di Strasburgo al fine di individuare, ad esempio, la vera natura intrinsecamente penale di alcune tipologie di confische (nonostante l’inclusione delle stesse da parte del legislatore nel novero delle misure di sicurezza).

Anche in questo caso, dunque, si assisterebbe ad una cosiddetta frode delle etichette, espressione emblematica che allude all’inappropriatezza del lessico giuridico utilizzato dal legislatore, a fronte della necessità di interpretare la disciplina in esame in un’ottica sostanzialista. A tal fine, non può non evidenziarsi l’importanza del riferimento espresso che gli articoli 2 e 3 del decreto legislativo fanno rispettivamente al principio di legalità nonché a quello dell’irretroattività delle legge penale sfavorevole ed allo speculare principio della retroattività della lex mitior.

Il richiamo ai principi basilari del diritto penale deve già consentire all’interprete di andare oltre alla mera qualifica formale della responsabilità dell’ente come amministrativa. Inoltre, l’importanza accordata alla mancata adozione ed attuazione dei compliance programs denota un profilo di colpevolezza, idonea a fondare un addebito di responsabilità di tipo penale, di guisa che ben può configurarsi un concorso dell’ente nel reato commesso dai soggetti apicali o da quelli sottoposti all’altrui direzione, sub specie di concorso colposo nel delitto doloso.

A tale esito non osterebbero, poi, neanche i dubbi esegetici circa la possibilità di addebitare un medesimo fatto di reato a fronte di atteggiamenti interiori differenti, visto che secondo una più corretta interpretazione dell’articolo 110 c.p. la configurabilità di una medesimezza del reato può essere soddisfatta anche solo dalla presenza di un’offesa al medesimo bene giuridico, prescindendosi, dunque, dal profilo del differente titolo di imputazione del reato ai correi.

Ma non solo: ulteriori elementi a suffragio della tesi in esame possono essere rinvenuti nella parte in cui il decreto legislativo del 2001 richiama istituti e fattispecie tipici del diritto penale sostanziale e processuale: il delitto tentato, l’applicazione della confisca, delle misure cautelari, dei procedimenti speciali e dei mezzi di impugnazione, tra cui rileva la revisione della sentenza.

In tal senso, l’irrogazione delle sanzioni (che possono essere pecuniarie o interdittive) avviene all’esito della chiusura di un procedimento penale nonché da parte del giudice penale stesso, con connessa estensione applicativa della disciplina relativa all’imputato (ex articolo 35) nonché delle disposizioni del codice di procedura penale, in quanto compatibili (ex articolo 34).

Proprio in considerazione del richiamato contenuto dispositivo dell’articolo 34 del decreto legislativo si è posta l’interessante problematica relativa alla possibilità di ammettere la costituzione di parte civile nel processo direttamente a carico dell’ente, nell’ipotesi in cui, alla stregua della lettera a) dell’articolo 8, accada che l’autore del reato presupposto non sia stato identificato ovvero risulti non imputabile. Sul punto sono emerse due soluzioni contrapposte, fortemente condizionate dall’adesione alla tesi amministrativa o penale della responsabilità dell’ente.

Secondo una prima impostazione, direttamente conseguente alla riscontrata natura penale della responsabilità, la possibilità che l’articolo 34 accorda all’applicabilità delle norme di cui al codice di procedura penale dev’essere letta nel senso che nulla osta ad una legittimazione all’azione civile diretta nei confronti dell’ente, a fortiori quando è lo stesso legislatore che afferma la responsabilità dell’ente in caso di mancata individuazione dell’autore materiale del reato.

In caso contrario, si assisterebbe ad un vulnus di tutela in capo al soggetto danneggiato dal reato, nel quale avrebbe in tesi concorso l’ente sotto il profilo della colpa di organizzazione. Quest’ultima si sostanzia nella mancata adozione di modelli di gestione idonei a prevenire la verificazione del rischio del fatto doloso delle persone che operano per l’ente, rischio che la regola cautelare mira ad evitare, sul presupposto però della prevedibilità in astratto di siffatta condotta dolosa, con conseguente esclusione dell’ipotesi di elusione fraudolenta del modello di organizzazione correttamente adottato ed attuato -come confermato dalla lettera c) dell’articolo 6-.

Ed allora, stando così le cose, risulta ingiusto che l’ente non sopporti i costi connessi alla necessità di riparare le conseguenze del reato, avendo questi concorso nel medesimo reato seppur a titolo di colpa.

Al contrario, secondo l’impostazione che aderisce alla tesi della natura amministrativa della responsabilità dell’ente per gli illeciti che non a caso sono definiti dal legislatore come amministrativi e dipendenti da reato, la pur apparente similitudine tra il procedimento delineato dalla 231 del 2001 ed il procedimento penale del codice di rito è fortemente stemperata dalle peculiarità di una disciplina che rende applicabili le norme del codice di procedura penale solo in quanto compatibili.

L’incompatibilità tra la disciplina in esame e la costituzione di parte civile nel processo direttamente nei confronti dell’ente deriverebbe dallo stesso principio di autonomia della responsabilità dell’ente di cui all’articolo 8 e dal rilievo per cui si tratta di una disciplina volta a sanzionare amministrativamente l’ente per non aver correttamente vigilato sulla gestione d’impresa, al fine di sortire una funzione special-preventiva. Un parallelo in tal senso può essere evidenziato con riferimento alle misure di sicurezza, le quali, significativamente incluse dal legislatore tra le misure amministrative di sicurezza, vengono applicate ad un soggetto che abbia già commesso un reato od un quasi reato, affiancandosi alla pena (secondo la logica del doppio binario) ma, a differenza di questa, non guardano al passato bensì al futuro, sortendo la chiara funzione di evitare una ricaduta nel reato.

Un po’ come accade per la disciplina apprestata dal d.lgs. 231 del 2001 ove la natura amministrativa delle sanzioni predisposte dal legislatore esplica una finalità preventiva, affiancandosi alla punibilità, sub specie di sanzione penale, della condotta della persona che commette il reato-presupposto. Da ciò, però, non può farsi discendere l’ammissibilità della costituzione di parte civile direttamente nei confronti dell’ente a fronte della commissione di un fatto di rilevanza penale che può essere materialmente ascritto alla persona fisica e non all’ente, venendo in rilievo per quest’ultimo la violazione di una norma alla quale il legislatore non ha inteso ricollegare una sanzione penale (che dovrebbe sempre porsi quale extrema ratio) bensì per l’appunto amministrativa.

Ora, è interessante evidenziare come sulla questione in esame si è pronunciata la giurisprudenza di legittimità nonché la Corte di Giustizia, adita in via pregiudiziale. Gli esiti interpretativi a cui sono pervenute le pronunce sono gli stessi ed in entrambi i casi il dato risolutivo è stato individuato nello stesso contenuto della disciplina in esame. Per la Corte di Cassazione penale, infatti, il problema non è tanto quello di stabilire se la natura della responsabilità è qualificabile come amministrativa o penale, quanto piuttosto quello di chiarire l’intenzione del legislatore e la ratio giustificatrice sottesa alla scelta di sanzionare l’ente per gli illeciti dipendenti da reato. In tal senso, la ratio legis è quella di delineare un meccanismo di tutela rispondente al canone dell’effettività a fronte della proliferazione di una criminalità d’impresa. Quest’ultima può essere contrastata solo se a monte l’ente riesce a dotarsi di modelli di organizzazione e gestione efficaci in termini di prevenzione nella commissione di reati come quelli verificatosi, se commessi nell’interesse o a vantaggio dell’ente medesimo.

La sanzione amministrativa, allora, è indice sintomatico di un’autonoma responsabilità dell’ente che anche la Corte di Giustizia ha avuto modo di definire come sussidiaria ed indiretta, a riprova che la parte civile è danneggiata dalla condotta dell’autore del reato-presupposto e non direttamente dalla condotta negligente imputabile all’ente, che comunque l’ordinamento previene in maniera efficace per il tramite della disciplina di cui al d.lgs. 231 del 2001.

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