RESPONSABILITÀ PER ILLEGITTIMO AFFIDAMENTO DI UN CONTRATTO
RESPONSABILITÀ PER ILLEGITTIMO AFFIDAMENTO DI UN CONTRATTO
Pubblicato il 7/02/2016 autore Silvia Torraca
Si soffermi il candidato sulle differenze tra le ipotesi di procedure aperte e ristrette oltre che sul concorso del danneggiato per non aver attivato tutti i rimedi processuali ed extra-processuali a sua disposizione.
La responsabilità della P.A. per affidamento illegittimo di un contratto costituisce una species del genus responsabilità della P.A. da provvedimento illegittimo, con la conseguenza che condivide la natura di quest’ultima e ne segue la relativa disciplina.
Con riguardo al primo degli summenzionati profili (che qui si intende soltanto accennare), occorre rilevare come permangano tuttora dubbi in ordine alla riconducibilità della responsabilità da provvedimento illegittimo nell’alveo della responsabilità contrattuale (in senso stretto o da contatto sociale qualificato) o entro il paradigma aquiliano.
Può, in ogni caso, considerarsi prevalente la tesi che vi ravvisa un’ipotesi di responsabilità extra-contrattuale, negando rilevanza all’instaurato rapporto tra Amministrazione e privato quale fonte di obblighi di tutela rafforzati in favore dell’altrui sfera giuridica.
Da tale ricostruzione discende, quale logico corollario, l’applicazione della disciplina riconnessa al paradigma aquiliano, seppur con taluni temperamenti.
Il riferimento è al profilo dell’elemento soggettivo, che, mentre in ossequio alle regole ordinarie dovrebbe consistere (quanto meno) nella colpa dell’Amministrazione, da trovarsi ad opera del privato-danneggiato, nel settore degli appalti pubblici sembra aver assunto contorni peculiari.
La recente giurisprudenza della Corte di Giustizia UE (a partire dalla nota sentenza Stadt Graz, nel 2010) ha, infatti, ritenuto che osta al diritto comunitario una disciplina nazionale che, in materia di appalti pubblici, subordini la responsabilità dell’Amministrazione alla prova, gravante sul danneggiato, del dolo o della colpa.
In tal modo, il Giudice europeo sembra aver compiuto un ulteriore passo avanti rispetto alla tesi, finora accolta dal formante giurisprudenziale nazionale, della colpa presunta in capo all’Amministrazione – tesi che faceva salva, in ogni caso, la possibilità per quest’ultima di fornire la prova contraria (generalmente consistente nella scusabilità dell’errore) – , giungendo così ad ammettere nel settore degli appalti pubblici un’inedita responsabilità di tipo oggettivo.
Il fatto di costituire “terreno d’elezione” per l’adozione di soluzioni peculiari ed innovative è nuovo, del resto, al settore degli appalti pubblici, che anche in altra occasione ha anticipato i futuri sviluppi normativi e giurisprudenziali.
Ci si riferisce al dogma della irrisarcibilità del danno da lesione di interessi legittimi, rispetto al quale una breccia è stata aperta, ben prima dell’intervento delle Sezioni Unite n. 500 del 1999, proprio in subiecta materia dalla norma contenuta nella c.d. legge Merloni (l. 142/1992, art. 13), che legittimava all’azione risarcitoria i soggetti che avessero subito una lesione per effetto di atti compiuti in violazione del diritto comunitario.
Sulla scorta dei predetti rilievi è agevole constatare come la questione della responsabilità della P.A. in materia di appalti pubblici sia particolarmente avvertita tanto dal legislatore quanto in seno alla dottrina ed alla giurisprudenza, e ciò in ragione del fatto che, nel settore in parola, illegittimità degli atti adottati dall’Amministrazione è in grado solo di ledere gli interessi del privato danneggiato, ma anche di vulnerare un principio fondamentale quale quello di tutela della genuinità del meccanismo concorrenziale all’interno del mercato unico.
Ora, si è già anticipato come la responsabilità per affidamento illegittimo di una commessa pubblica configuri un’ipotesi di responsabilità da provvedimento illegittimo, in ciò distinguendosi da altra forma di responsabilità pure ascrivibile alla stazione appaltante, ossia quella precontrattuale.
Con tale locuzione ci si riferisce, in realtà, ad una responsabilità della stazione appaltante che solo in termini descrittivi può essere qualificata come precontrattuale, atteso che non si è in presenza di attività iure privatorum.
Ciò che viene in rilievo è, a ben vedere, una responsabilità precontrattuale in senso meramente cronologico, posto che in tal caso l’illegittimità si verifica in un momento antecedente la stipulazione del contratto di appalto, pur a fronte di un contesto nel quale l’Amministrazione agisce in veste autoritativa e, di conseguenza, la posizione del privato è di mero interesse legittimo.
Tale forma di responsabilità postula, quindi, comportamento (e non già un provvedimento) scorretto dell’Amministrazione, in quanto violativo del canone generale di buona fede e correttezza che deve informare la fase prodromica alla stipulazione negoziale.
L’ipotesi che qui interessa è, invece, quella in cui la responsabilità della stazione appaltante trovi causa in un provvedimento illegittimamente adottato, consistente, in particolare, nell’atto conclusivo della procedura ad evidenza pubblica, tramite il quale la stessa rende definitiva la propria scelta in ordine alla controparte negoziale.
In tale ipotesi, ciò che il privato-danneggiato lamenta è la propria esclusione o, comunque, mancata aggiudicazione del contratto all’esito della procedura di gara.
Al riguardo, si rende anzitutto necessario circoscrivere più puntualmente le doglianze del concorrente non aggiudicatario, tracciando una distinzione a seconda che si verta nell’ambito di procedure aperte o ristrette.
Ai sensi dell’art. 54 d.lgs. 163/2006, la stazione appaltante può individuare gli operatori economici che possono presentare offerte mediante procedure aperte, ristrette, negoziate o, ancora, per mezzo del dialogo competitivo.
Mentre le procedure negoziate (già trattativa privata) costituiscono una deroga al principio pro-concorrenziale, atteso che con le stesse la stazione appaltante seleziona autonomamente gli operatori con cui contrattare, e possono, quindi, essere utilizzate in un ristretto (e tassativo) novero di casi, le procedure aperte e ristrette sono pienamente fungibili, posto che entrambe assicurano la più ampia partecipazione alla gara.
In particolare, le procedure aperte si caratterizzano per il fatto che consentono la partecipazione alla procedura selettiva a tutti i soggetti che, in possesso dei requisiti richiesti dal bando, presentino la relativa domanda (art. 55, co. 5 d.lgs. 163/2006).
In tale ipotesi, pertanto, l’operatore economico che possieda i requisiti (morali, formali, tecnico-professionali, economico-finanziari) posti dalla lex specialis, presentata la propria offerta, nutrirà un ragionevole affidamento in ordine alla possibilità di ottenere l’aggiudicazione, chance che si prospetterà come inversamente proporzionale rispetto al numero dei partecipanti alla gara.
Nel caso di procedure ristrette, invece, l’accesso alla gara vera e propria non è automatico.
Esse, infatti, sono caratterizzate da una struttura bifasica: nella prima fase – c.d. di pre-qualifica – gli operatori in possesso dei requisiti richiesti presentano la propria richiesta di invito (alla fase successiva); soltanto gli operatori selezionati dalla stazione appaltante con la lettera di invito possono, quindi, presentare le proprie offerte e concorrere alla aggiudicazione.
Ne discende che possono profilarsi due distinte situazioni: nel caso in cui un operatore non sia stato invitato dalla stazione appaltante a presentare la propria offerta (i.e. non abbia superato la fase di pre-qualifica), egli potrà lamentare l’illegittimità dell’esclusione, dando prova dell’effettivo possesso dei requisiti richiesti (a fronte del quale si ritiene – in forza del disposto di cui all’art. 55, co. 6 cod. contr. pubbl. – che la stazione appaltante non possa non ammettere il soggetto alla fase successiva); qualora, invece, il soggetto, pur invitato, non sia risultato aggiudicatario, potrà impugnare l’aggiudicazione dimostrandone i relativi vizi (con ciò configurandosi una situazione del tutto equipollente a quella sopra analizzata della mancata aggiudicazione all’esito di procedura aperta).
Sul punto, occorre tuttavia rilevare come un possibile problema sia rappresentato dal fatto che, come previsto dall’art. 55, co. 2 cod. contr. pubbl., l’utilizzo delle procedure ristrette si accompagna, per lo più, al criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, il quale non si fonda su un mero calcolo aritmetico, ma postula valutazioni di tipo tecnico-discrezionale.
Mentre, infatti, l’impiego del criterio alternativo del prezzo più basso garantisce una certa automaticità del giudizio – tanto che lo stesso può essere compiuto direttamente dal giudice in sede di annullamento del aggiudicazione e riedizione del potere – , il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa reca con sé profili di maggiore incertezza, poiché evoca valutazioni prive di qualsivoglia automatismo.
In tali casi, pertanto, risulterà più complesso dimostrare che il concorrente non risultato vincitore avrebbe avuto diritto all’aggiudicazione.
Tanto chiarito in ordine alle censure in astratto prospettabili in caso di illegittimo affidamento di un contratto, occorre chiedersi quali siano le poste in concreto risarcibili.
Al riguardo, risulta pacifico che il risarcimento non sia limitato al c.d. interesse negativo (come avviene, invece, in presenza di una responsabilità precontrattuale), ma si estenda all’interesse positivo.
Rientrano nella prima voce di danno – non risarcibile in caso di impugnazione dell’aggiudicazione – le spese sostenute, il tempo perso, nonché la perdita di occasioni contrattuali alternative, dovute all’aver intrattenuto una trattativa poi rivelatasi inutile.
Quanto al lucro cessante, invece, si prospettano tesi contrapposte. La tesi in passato dominante calcolava tale posta risarcitoria in misura percentuale (10%) del prezzo posto a base d’asta, e ciò in applicazione analogica della norma contenuta nell’art. 345 l. 2248/1865, all. F.
Il criterio in parola è stato, tuttavia, progressivamente abbandonato sulla scorta di un duplice rilievo critico: in primo luogo, esso è stato previsto dal legislatore con riferimento ad un caso del tutto diverso, ossia quello dell’indennizzo dovuto all’appaltatore per il recesso dell’Amministrazione committente; in secondo luogo, non può ammettersi alcun automatismo risarcitorio, il danno dovendo essere rigorosamente provato dal privato nel suo concreto ammontare.
Tale conclusione risulta, peraltro, suffragata dal disposto dell’art. 124 c.p.a., a mente del quale, se il giudice, in sede di impugnazione dell’aggiudicazione, non dichiara l’inefficacia del contratto, condanna al risarcimento per equivalente del danno «subito e provato».
In vista di un adeguato contemperamento tra il rispetto dell’onus probandi e le istanze di pronta liquidazione del danno, in tempi più recenti si è fatta strada la tesi che liquida il mancato guadagno ponendo a base del calcolo una percentuale del vantaggio economico che il privato avrebbe ritratto dalla esecuzione del contratto, da calcolarsi sulla base dell’offerta economica dallo stesso presentata.
Ulteriore voce di danno risarcibile si identifica nel cosiddetto danno curriculare, da intendersi come il pregiudizio derivante all’impresa dal non aver potuto arricchire il proprio curriculum professionale con l’esecuzione del contratto oggetto della gara: la liquidazione di tale posta si giustifica in considerazione del fatto che le pregresse esperienze nell’esecuzione di appalti del tipo di quello posto a base della gara costituiscono titolo preferenziale per i successivi affidamenti, contribuendo a rafforzare l’affidabilità e l’expertise dell’impresa partecipante.
Nella determinazione del quantum risarcitorio, tuttavia, il giudice è altresì tenuto a sottrarre quelle voci che non abbiano determinato alcun pregiudizio per il privato o che, addirittura, gli abbiano fatto conseguire guadagno.
Il riferimento è, in primo luogo, al cosiddetto aliunde perceptum, ossia ai vantaggi economici che il privato abbia conseguito per effetto dell’esecuzione di altri contratti nel tempo in cui avrebbe dovuto eseguire quello posto a base della gara di cui non è risultato aggiudicatario.
In particolare, dottrina e giurisprudenza tendono ad ammettere una vera e propria presunzione (relativa) avente ad oggetto l’aliunde perceptum, basata sul fatto che l’imprenditore ha un’organizzazione di mezzi e risorse volta proprio a poter reperire sul mercato possibili affari, con la conseguenza che sarebbe irragionevole o, comunque, poco probabile che lo stesso rimanga in attesa dell’eventuale subentro nel contratto, senza”guardarsi altrove”.
Anzi, a parere di alcuni autori, il comportamento del privato che non abbia cercato affari alternativi è suscettibile di essere qualificato come un’inerzia dello stesso, apprezzabile dal giudice ai sensi dell’art. 1227 c.c.
La progressiva valorizzazione del canone di correttezza e buona fede anche nei rapporti tra P.A. e privati ha, infatti, indotto il legislatore codicistico a prevedere che, in sede di condanna al risarcimento per lesione di interessi legittimi, il giudice debba tener conto del comportamento complessivo delle parti, escludendo comunque il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza (art. 30, co. 5 c.p.a.).
Il cosiddetto duty to mitigate, di cui la norma testé menzionata costituisce espressione, si muove, peraltro, in una duplice direzione, e cioè sia sul piano sostanziale, sia su quello processuale.
L’art. 30, co. 5 c.p.a., infatti, annovera tra gli strumenti che il privato avrebbe potuto impiegare per ridurre o evitare il verificarsi dei danni anche l’esperimento dei mezzi di tutela giurisdizionale.
Nel settore degli appalti pubblici, in particolare, rientra senza dubbio nel novero dei suddetti strumenti la proposizione della domanda di annullamento dell’aggiudicazione con contestuale istanza cautelare, a fronte della quale scatta l’operatività del cosiddetto stand-still period processuale, ossia di un lasso di tempo di venti giorni decorrenti dalla notifica dell’istanza cautelare entro cui è fatto divieto all’Amministrazione di procedere alla stipula del contratto (art. 11, co.10-ter cod. contr. pubbl.).
La mancata attivazione del rimedio de quo, infatti, non impedisce alla stazione appaltante di stipulare un contratto che successivamente si riveli fondato su presupposti illegittimi, così generando danni altrimenti evitabili.
Tra gli strumenti extra-processuali a disposizione del privato va poi rammentato il cosiddetto preavviso di ricorso (art. 243-bis cod. contr. pubbl.), con il quale il soggetto non risultato aggiudicatario può informare la stazione appaltante della propria intenzione di proporre ricorso avverso l’aggiudicazione definitiva.
L’informativa de qua è volta ad instaurare un contraddittorio tra privato e P.A. in una fase pre-contenziosa, consentendo ad entrambe le parti di illustrare le proprie ragioni e di meglio comprendere quelle dell’altra, in un’ottica di auspicabile deflazione del contenzioso in materia di appalti.
D’altronde, la stessa Adunanza Plenaria (sentenza n. 3 del 2011), nel chiarire il portato dell’art. 30, co. 5 c.p.a., ha affermato che nel novero degli strumenti che il privato è tenuto ad azionare in ossequio alla regola del “buon danneggiato” ex art. 1227 c.c. vi è altresì il cosiddetto invito alla autotutela, di cui l’istituto del preavviso di ricorso costituisce nient’altro che una species.
Infine, l’art. 124 co. 2 c.p.a. prevede quale comportamento processuale violativo del canone di correttezza e buona fede quello della parte che, senza giustificato motivo, abbia proposto domanda di risarcimento per equivalente monetario senza chiedere il subentro nel contratto, atteso che quest’ultimo dovrebbe costituire il vero bene della vita cui aspira ciascun partecipante alla procedura di gara.
Quanto al soggetto passivo della pretesa risarcitoria, occorre segnalare come un indirizzo giurisprudenziale abbia riconosciuto una responsabilità solidale ex art. 2055 c.c. tra P.A. e terzo aggiudicatario, qualora quest’ultimo abbia appositamente indotto l’Amministrazione a concludere il contratto, pur nella consapevolezza della illegittimità della procedura.
In tale ipotesi, il privato danneggiato potrà chiedere l’integrale risarcimento dei danni subiti all’uno o all’altro dei soggetti obbligati, assumendo rilievo le rispettive quote di responsabilità nei soli rapporti interni (art. 2055, co. 2 c.c.).