Revoca dell’amministratore della società pubblica e riparto di giurisdizione
Revoca dell’amministratore della società pubblica e riparto di giurisdizione
La tematica della revoca dell’amministratore della società pubblica e le sue ricadute in punto di giurisdizione non possono essere indagate se non muovendo dalla collocazione sistematica del fenomeno della partecipazione dello Stato o degli enti pubblici a soggetti giuridici caratterizzati dall’uso delle forme privatistiche.
In primo luogo, occorre osservare che il fenomeno delle società pubbliche è per sua natura eterogeneo: esso ricomprende, infatti, tutte le società a partecipazione pubblica (totalitaria e non), riferendosi pertanto sia ai casi di società in house sia alle ipotesi di società miste (partenariato pubblico privato istituzionalizzato) sia alle società che esercitano un’attività economica vera e propria al fine di generare utili distribuibili fra i soci.
Il tratto che accumuna tali società è rappresentato, dunque, dal fatto che l’attività sia svolta utilizzando moduli privatistici, espressione della generica capacità di diritto privato delle pubbliche amministrazioni, oggi riconosciuta ex art. 1 comma 1 bis della legge 241/1990.
Come noto, tuttavia, l’utilizzo delle forme privatistiche non deve trarre in inganno l’interprete, il quale, al fine di determinare la disciplina applicabile alla società pubblica, deve sempre avere riguardo alla natura sostanziale del fenomeno, improntando la sua indagine alla verifica delle prerogative effettivamente riconosciute al soggetto, anche alla luce dei canoni imposti a livello comunitario.
La stessa nozione di soggettività pubblica si presenta, infatti, condizionata non solo dall’esistenza di poteri tipici (quali l’autarchia, l’autorganizzazione, l’autotutela, l’autoritarietà, la sottoposizione alle regole del procedimento amministrativo o ai controlli) ma dipende anche dallo specifico corpus normativo che si pretende di applicare. Autorevole dottrina rileva, infatti, come, pur esistendo taluni indici di pubblicità, la stessa nozione di pubblica amministrazione sia a geometria variabile e prescinda completamente dalle forme usate.
È possibile, pertanto, affermare che, sulla base di criteri sostanziali, sia possibile che anche la società pubblica sia a sua volta soggetto pubblico, in base ad una valutazione operata di caso in caso.
Muovendo da tale considerazione di carattere generale, occorre indagare il rapporto che si istaura fra l’ente pubblico e la società partecipata: l’ente pubblico, infatti, nell’ambito dei fini previsti dalla legge, dà vita o partecipa alle vicende di un ente diverso, il quale può avere le finalità più varie, da quelle di realizzare un’attività di interesse generale a quella di generare un utile.
È chiaro, pertanto, che la tematica della gestione della società pubblica non può essere affrontata se non operando una distinzione concettuale fra i poteri che l’ente partecipante esercita come soggetto pubblico vero e proprio (cioè perseguendo l’interesse istituzionale) dai poteri esercitati, invece, quale socio della società pubblica.
Più correttamente, al fine di risolvere eventuali problemi di giurisdizione, occorre domandarsi se, nell’assumere decisioni con riguardo alla gestione di una società pubblica, l’ente abbia fatto uso di poteri autoritativi o comunque pubblicistici o se, invece, abbia agito iure privatorum, cioè come avrebbe fatto un qualsiasi socio.
Invero, anche tale considerazione, fondamentale per la risoluzione del problema, non sempre agevola l’interprete. Esaminando, infatti, in dettaglio le regole sulle società di capitali pubbliche, appare evidente che il socio pubblico non è mai un socio come tutti gli altri, essendo ad esso riconosciute (per legge o per statuto) alcune prerogative assolutamente sui generis.
Occorre, dunque, porre attenzione alle deroghe contemplate in materia di nomina e revoca degli amministratori.
In linea generale, infatti, il codice civile regolamenta l’amministrazione della società di capitali nell’ambito della disciplina della società per azioni, con regole estensibili anche alla società a responsabilità limitata. In tali società si riscontra, infatti, una certa separazione (più o meno intensa a seconda delle previsioni statutarie) fra i soci e l’organo gestorio, a differenza di quanto avviene nelle società di persone, caratterizzate invece da maggiore compenetrazione fra i due profili.
L’art. 2383 c.c. stabilisce, pertanto, che la nomina degli amministratori spetti all’assemblea, fatta eccezione per i primi amministratori che possono essere designati già nell’atto costitutivo. Tali soggetti durano in carica per massimo tre esercizi, sono rieleggibili e il loro incarico è revocabile in qualsiasi momento, salvo il risarcimento del danno nel caso in cui manchi la giusta causa.
Nomina e revoca dell’organo gestorio appaiono, pertanto, le prerogative più tipiche dell’assemblea, quale soggetto che rappresenta l’intera compagine sociale.
La stessa norma, tuttavia, contempla un’eccezione proprio per il caso in cui alla società partecipino lo Stato o altri enti pubblici, rinviando al disposto dell’art. 2449 c.c.: in questo caso, infatti, si prevede che lo statuto possa conferire agli enti suddetti la possibilità di nominare un numero prestabilito di amministratori e sindaci e che essi abbiano gli stessi diritti e obblighi dei membri nominati dall’assemblea. Tali soggetti potranno essere revocati solo dagli enti che li hanno nominati.
La previsione, valevole per le società che non fanno appello al capitale di rischio ma di fatto estensibile anche alle società aperte attraverso la creazione di azioni con diritti amministrativi peculiari ex art. 2346 comma 6 c.c., dimostra la posizione differenziata del socio pubblico: esso, infatti, non soggiace al principio maggioritario vigente in assemblea per la scelta degli amministratori ma può nominare propri rappresentanti nell’organo gestorio, talora anche prescindendo da una proporzione col capitale detenuto.
Il fatto, tuttavia, che tale diritto partecipativo si atteggi in maniera del tutto peculiare in presenza di un soggetto pubblico non deve stupire: la riforma del diritto societario ha infatti potenziato l’idea che esistano intrinseche differenze fra i soci, disegnate non solo per legge ma anche in base allo statuto.
È interessante, invece, notare come la norma evidenzi un’indubbia correlazione fra nomina e revoca dell’amministratore, di fatto connotando un’esclusività della relazione fra chi nomina/revoca e il soggetto che è nominato/revocato.
Anche siffatto aspetto, tuttavia, non è del tutto innovativo: esso discende, infatti, dalla natura del rapporto giuridico che si istaura fra la società e l’amministratore.
Come noto, l’inquadramento giuridico di tale rapporto è oggetto di dibattito e disquisizioni in dottrina: taluni ritengono, infatti, che si tratti di un contratto atipico, altri che si debba parlare di un contratto innominato ma tipico in quanto disciplinato espressamente dalle norme del diritto societario e altri, invece, che esso debba essere inteso quale mandato, normalmente oneroso, cui si applicano per i profili non disciplinati le regole dell’art. 1703 c.c. e seguenti ove compatibili.
Il rinvio fatto alle regole del mandato è quanto mai interessante proprio con riguardo al profilo della revoca: le norme in tema di s.p.a. si limitano, infatti, a ritenere possibile la revoca dell’amministratore da parte del soggetto che ha provveduto alla nomina in qualsiasi momento, salvo il risarcimento del danno ove manchi la giusta causa. È chiaro, dunque, che vi è piena omogeneità col disposto dell’art. 1725 c.c. comma 1 sul mandato oneroso e che nell’ interpretazione della giusta causa si potranno usare i medesimi canoni ermeneutici.
In tale ambito, si ritiene, infatti, esistente una giusta causa in tutti i casi in cui vi sia stato il mancato rispetto degli obblighi di correttezza e diligenza imposti, nelle ipotesi in cui sia ravvisabile una mala gestio dell’affare o quando venga a essere menomata la fiducia che intercorre fra mandante e mandatario, essendo il contratto normalmente connotato dall’intuitus personae.
Invero, ipotesi ulteriori di giusta causa possono enuclearsi anche in base alla disciplina societaria stricto sensu intesa. È possibile ad esempio richiamarsi all’art. 2390 c.c., il quale consente la revoca d’ufficio dell’amministratore quando egli eserciti attività in concorrenza con quella della società.
Tale norma avvalora, pertanto, l’idea che la revoca, a prescindere dalla sussistenza o meno di una giusta causa, si correli alla volontà dell’assemblea o del socio e in particolare alle relative prerogative di controllo sull’andamento della gestione.
L’adesione a siffatta impostazione, invero, consente di dare una prima risposta al problema dell’individuazione del giudice avente la capacità di ius dicere in caso di revoca dell’amministratore di società pubblica.
Nel caso in cui infatti il soggetto pubblico revochi l’amministratore che ha nominato in ragione di asserite inadempienze nello svolgimento dell’ attività gestoria o a causa di fatti diversi che vadano comunque a menomare la relazione fiduciaria (si pensi ai casi di condanne per reati societari) dovrà riconoscersi la giurisdizione del giudice ordinario.
Al pari della revoca ad opera dell’assemblea, infatti, il soggetto pubblico non fa altro che esercitare poteri che gli sono riconosciuti proprio in ragione dell’appartenenza alla compagine sociale e conformemente alle regole civilistiche in tema di mandato.
In caso di contestazione ad opera dell’amministratore revocato, spetterà al giudice ordinario valutare anche l’ esistenza di una giusta causa, fermo restando che, laddove essa non sussista, non vi potrà essere altro se non un risarcimento del danno patito.
La tutela meramente risarcitoria in caso di revoca non sostenuta da giusta causa conferma, infatti, che il potere è riconosciuto proprio nel prevalente interesse del socio, non essendovi alcun diritto dell’amministratore a mantenere il suo ruolo in presenza di una volontà contraria di colui che lo ha nominato.
Per dovere di completezza, tuttavia, bisogna domandarsi se tutti i casi di revoca dell’amministratore della società pubblica rientrino nell’art. 2449 c.c. e abbiano funzione spiccatamente privatistica o se esistano casi in cui possa evidenziarsi un interesse pubblico tale da giustificare la misura. Si potrebbe pensare, ad esempio, ai casi in cui l’amministrazione decida di revocare l’amministratore della società pubblica per conseguire (in via più o meno diretta) risparmi di spesa.
In realtà, per dirimere il problema, è utile muovere dalla previsione contenuta nella finanziaria 2008 (art. 3 legge 244/2007), la quale, nell’intento di ridurre i costi dell’apparato pubblico, ha stabilito anche riduzioni numeriche dei componenti dei consigli di amministrazione negli statuti delle società non quotate direttamente controllate dallo Stato.
Nel caso in cui, infatti, la riduzione sia disposta ex lege e l’amministrazione intenda conformarsi alla norma, l’utilizzo della revoca parrebbe correlarsi all’esercizio di un potere pubblico, giustificando così l’attrazione dell’eventuale controversia nell’alveo della giurisdizione amministrativa.
Tuttavia, proprio l’esame del meccanismo introdotto con la legge finanziaria pare smentire tale conclusione: il comma 13 della norma in esame stabilisce, infatti, che tali modifiche statutarie (automatiche) avranno effetto solo dal primo rinnovo degli organi societari successivo. Sembra, pertanto, che lo stesso legislatore abbia voluto impedire proprio l’utilizzo della revoca da parte del soggetto pubblico, evitando anche contenziosi circa la legittimità di siffatto procedere. La modifica statutaria, infatti, intervenendo successivamente non inciderà sullo status degli amministratori in carica.
Ancorché la norma non sia idonea a fondare un caso di revoca necessitata ex lege e di stampo pubblicistico, essa consente di evidenziare come, con riguardo alle vicende che ineriscono le società pubbliche, siano sempre distinguibili due aspetti: l’uno, pubblicistico, in cui l’amministrazione decide (se costituire la società, quali soggetti nominare ect.) e l’altro più spiccatamente privatistico in cui si dà attuazione alla volontà in precedenza manifestata.
Anche con riguardo alla revoca dell’amministratore della società pubblica è, infatti, individuabile una decisione (pubblicistica) a monte, cioè quella di far uso delle facoltà riconosciute dalla qualità di socio, ad esempio, per porre termine ad una mala gestio dell’amministratore.
La rilevanza di tale momento preliminare è valorizzata, in realtà, dalla giurisprudenza contabile: infatti, il rappresentante dell’ente pubblico che, pur in presenza di circostanziati indizi sull’infedeltà dell’amministratore e sulla sua incapacità gestoria, decida di non revocare l’incarico potrà essere chiamato a rispondere in sede erariale del vulnus recato al valore della partecipazione azionaria/sociale. Pur essendo vero, infatti, che esiste la possibilità di agire ex post contro gli amministratori, il mancato esperimento dell’azione ex art. 2393 c.c. o la sua infruttuosità potrebbero giustificare un’imputazione della condotta a titolo di dolo o colpa grave del danno recato, anche in ragione della possibilità di valersi dello strumento (rapido) della revoca.
Da ultimo, occorre soffermarsi sulla validità di tali conclusioni con riguardo al caso di quella particolare società pubblica che è rappresentata dall’in house.
Come noto, infatti, la stessa nozione di in house, elaborata a partire dalla sentenza Teckal della Corte di Giustizia, muove dall’idea che la società stessa, pur utilizzando forme privatistiche, altro non sia se non la longa manus dell’ente pubblico che la costituisce.
In tale società, infatti, la partecipazione è detenuta integralmente dall’ente costituente (o dagli enti costituenti in caso di in house frantumato), l’attività svolta è di rilievo pubblicistico e rivolta esclusivamente a soddisfare gli scopi dell’ente, il quale esercita un controllo analogo a quello che è in grado di esercitare sui suoi uffici e organi.
Ancorché i requisiti dell’in house siano destinati a subire taluni mutamenti per effetto delle nuove direttive in tema di appalti pubblici (soprattutto in tema di partecipazione e dedizione prevalente), la dottrina maggioritaria è concorde nel ritenere che l’in house elida pressoché completamente il cosiddetto corporate veil, cioè quello schermo, quell’alterità soggettiva che normalmente discende dalla esistenza di una persona giuridica diversa e distinta da quella del soggetto costituente.
Una tesi minoritaria ricorre invece alla vecchia figura dell’ organo ente: si sostiene cioè che la Pubblica amministrazione utilizzerebbe la società nel suo complesso quale proprio organo, al pari delle persone fisiche che con essa si immedesimano.
Muovendo dall’opinione preferibile che esista comunque una distinzione (quanto meno formale) fra l’amministrazione e la società in house, bisogna rilevare come il problema della gestione della stessa e, conseguentemente, della revoca degli amministratori possa essere risolto muovendo dai canoni enunciati in precedenza. All’ente pubblico nella società in house competono, infatti, indubbi poteri di controllo e verifica dell’operato gestorio degli amministratori, con la conseguenza che il potere di revoca degli amministratori è indubbio.
Esso può essere sicuramente ricondotto all’esercizio dei poteri statutari e legali attribuiti in ragione della partecipazione sociale, con conseguente attrazione del contenzioso di fronte al giudice ordinario.
Anche a voler ritenere, tuttavia, che non esista alcuna distinzione fra ente e società in house e che gli amministratori della società in house siano veri e propri dipendenti dell’ente, il loro rapporto, in ragione delle funzioni e degli obiettivi conferiti, sarebbe assimilabile a quello dei dirigenti: anche in questo caso, la controversia sulla revoca non potrebbe essere sottratta al giudice ordinario, per effetto dell’art. 63 d.lgs 165/2001.