Riserva di legge e ruolo del diritto eurounitario nel sistema penale.

Riserva di legge e ruolo del diritto eurounitario nel sistema penale.

Stefania Martinez

Corso Magistratura videolezioni

La criminalizzazione dei comportamenti umani è al centro delle scelte della società moderna ed, in tale ottica, al fine di garantire i cittadini dall’abuso del potere esecutivo, il monopolio della materia penale è affidato al Parlamento. Ciò in quanto solo i membri di quest’ultimo sono eletti direttamente dal popolo e al suo interno si realizza quel confronto dialettico tra maggioranza ed opposizione tale da garantire che tutti gli interessi dei cittadini, ossia anche le posizioni della minoranza, siano rappresentati.

La centralità del Parlamento e la riserva di legge in materia penale, dunque, sono state conquiste storiche importanti. Più in particolare, la riserva di legge, intrinsecamente legata al principio di legalità, tutela la libertà personale e, di conseguenza, la detenzione e ogni altra misura restrittiva della stessa sono ammesse solo se previste e nei modi indicati dalla legge ai sensi dell’art. 13 Cost. D’altronde, la limitazione della libertà personale può avvenire solo a seguito della lesione o messa in pericolo di beni giuridicamente rilevanti selezionati da un organo a legittimazione democratica ai sensi della norma di cui all’art. 25 Cost., del quale il brocardo nulla poena sine lege è espressione. Quest’ultimo, per vero, è stato creato ad opera del tedesco Feuerbach, nell’Ottocento, in base alla necessità per i cittadini di conoscere prima quali sono i fatti la cui realizzazione comporti l’inflizione di una sanzione, posto che la funzione di prevenzione generale si realizza mediante la coazione psicologica. Il che serve a precisare che nel diritto romano non era conosciuto né il principio di legalità, né quello della riserva di legge, poiché il princeps decideva ciò che era o meno reato. La rivoluzione francese e l’affermarsi della borghesia con la conseguente separazione dei poteri ha consentito di affidare la materia penale solo al Parlamento. In tal senso, nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso (art. 25, comma 2 Cost.) e, in tale prospettiva, le pene e le misure di sicurezza devono essere stabilite con legge (art. 27, co. 3 Cost.), ai fini della risocializzazione del reo.

Tuttavia, la centralità del Parlamento sta pian piano scemando; oggi, infatti, parte della dottrina paventa una crisi del principio di legalità. Invero, le scelte di politica criminale in materie sempre più tecniche hanno spesso reso necessario che queste siano prese da soggetti con maggiori conoscenze specialistiche, tramite il ricorso al decreto delegato.

Pertanto, se da un lato, la riserva di legge, quale corollario del principio di legalità, si poneva al centro del sistema penale, poiché la legge proveniva dal Parlamento, organo eletto democraticamente, e contrastava l’abuso dell’organo politico per eccellenza; dall’altro, il subentro della necessità di legiferare in settori sempre più specialistici mette in crisi tale visione. Sotto tale profilo, l’uso della legge delega ha ampliato il concetto di legge che, oltre quella in senso formale, ha ricompreso anche i decreti legislativi e i decreti legge (nei casi di necessità e urgenza). Tuttavia, il rispetto della riserva di legge viene, ad ogni modo, garantito tutt’oggi dalle sentenze della Corte Costituzionale ove dichiarano l’illegittimità del decreto delegato per eccesso di delega. Detto diversamente, la riserva di legge ex art. 25, comma 2 Cost. è violata quando ai sensi dell’art. 76 Cost. il governo travalica quanto previsto nella legge delega.

Dall’altro lato, anche a livello sovranazionale, l’art. 7 Cedu riconosce il principio di legalità, ma non la riserva di legge. In tal senso, accanto alle fonti di natura legislativa (law in books) la Convenzione EDU riconosce quali fonti della materia penale anche quelle di origine giurisprudenziale (law in action). Il che non è stato privo di risvolti applicativi, infatti, i giudici di legittimità hanno avuto modo di chiarire che vi è una relazione concorrenziale tra legge ed opera interpretativa (in specie, interpretazione consolidata delle Sezioni Unite della Suprema Corte) nel definire ciò che è reato.

 A tal punto occorre chiedersi se il concetto di legge, così come inteso dalla norma costituzionale di cui all’art. 25, comma 2, possa essere ulteriormente dilatato fino ad ammettere un margine di compatibilità con l’intervento del diritto unionale in materia penale.

La questione, al fine di un’adeguata impostazione, richiede di premettere quali rimedi siano apprestati dal nostro ordinamento nell’ipotesi di contrasto della nostra normativa con le fonti comunitarie.

In tale ottica, pare opportuno analizzare, seppur brevemente, i rapporti tra l’ordinamento interno e quello unionale.

A seguito del Trattato di Roma del 1957 l’Italia  ha acconsentito alle limitazioni della propria sovranità (ex art. 11 Cost.) al fine di assicurare la pace e la sicurezza fra le nazioni. In tal guisa, l’Unione Europea ha dato vita ad un ordinamento nuovo al quale ognuno degli Stati membri  ha ceduto solo una parte della propria sovranità. Da ciò deriva che non si è in presenza di uno Stato federale, ma di un ibrido nel panorama internazionale.

Ciò posto, la dottrina costituzionalista e la giurisprudenza della Corte Costituzionale sposarono sin dall’inizio una visione dualista tra i due ordinamenti; le norme comunitarie, infatti, avevano lo stesso valore della legge ordinaria, poiché il Trattato istitutivo della (allora) CEE era stato ratificato con legge ordinaria. Ne derivava l’uso del criterio cronologico in materia di successione di leggi del tempo per i casi di contrasto tra le fonti dei due ordinamenti. Nonostante l’affermazione in ambito comunitario della primazia del diritto comunitario rispetto al diritto interno, la Corte Costituzionale ammise, prima, solo un sindacato accentrato della legittimità del diritto interno rispetto a quello comunitario, per aderire, poi, al predetto principio, riconoscendo un sindacato diffuso. In tal modo, il giudice interno può non applicare la norma nazionale (che diviene tamquan non esset) ed applicare la norma comunitaria prevalente.

L’affermarsi di una concezione monista è avvalorato, a seguito della modifica del Titolo V della Costituzione, dall’art. 117 Cost., ai sensi del quale l’esercizio della potestà legislativa statale e regionale è sottoposto al rispetto dei vincoli comunitari e degli obblighi derivanti dall’ordinamento internazionale. Ne discende, dunque, un vincolo nel rispettare il diritto comunitario.

A tal punto, in tale visione monista, occorre chiedersi se il diritto unionale possa essere direttamente fonte del diritto penale. La risposta negativa a tale quesito deriva dalla sussistenza del principio di riserva di legge ai sensi dell’art. 25, comma 2, Cost., posto che i principi fondamentali della Carta Costituzionale prevalgono sulle norme del diritto unionale. In secundis, non sussiste una norma del Trattato che preveda una competenza legislativa penale in capo a qualsivoglia organo dell’Unione. Ne discende che tale potere dovrebbe essere attribuito al Consiglio UE quale istituzione comunitaria legislativa. Tale assunto, tuttavia, pone un ulteriore limite alla possibilità che il diritto comunitario possa introdurre nuove incriminazioni. Ciò in quanto il Consiglio UE, nella sua formazione, non è un organo rappresentativo dei cittadini degli Stati membri, ove, invece, il Parlamento è investito di tale legittimazione democratica, ma non gli è attribuita, in generale, la competenza legislativa.

In breve, la riserva di legge, il deficit di democraticità, l’assenza di una norma all’interno dei Trattati, tale da attribuire competenza penale all’interno dell’Unione, escludono che quest’ultima possa introdurre nuove norme incriminatrici nell’ordinamento penale nazionale.

Cionondimeno non è da escludere del tutto un intervento del diritto unionale in ambito penale. In effetti, l’UE può individuare una serie di beni sensibili (di rango comunitario), a fronte dei quali tutti gli Stati membri devono predisporre delle misure effettive ed efficaci, nonché uniformi, per apprestarvi tutela. Il che realizza quello che in dottrina viene definito l’effetto espansivo del diritto penale italiano ad opera del diritto unionale ai sensi dell’art. 83 TUE. Dall’esame di tale norma emergono tra le materie di intervento il terrorismo, la criminalità informatica e organizzata, la tratta di esseri umani, lo sfruttamento sessuale delle donne ed dei minori, il traffico illecito di stupefacenti e di armi, la corruzione, il riciclaggio di denaro, la contraffazione dei mezzi di pagamento. Nonostante ciò, è di competenza legislativa nazionale l’individuazione delle sanzioni da irrogare a tutela di tali materie, nonché la concreta definizione della fattispecie incriminatrice.

Sotto un ulteriore profilo, il diritto unionale tende a regolare sempre più materie e, di conseguenza, aumentano i settori di interferenza di tale diritto nell’ordinamento nazionale anche penale. A tale specifico riguardo, al fine di valutare l’incidenza riflessa del diritto unionale nella materia penale, pare opportuno precisare i tipi di effetti diretti o indiretti che le fonti comunitarie possono produrre nel nostro ordinamento, nonché gli strumenti per risolvere gli eventuali contrasti tra norme.

Rispetto al primo profilo, si annoverano brevemente, da un lato, i regolamenti, quali fonti comunitarie vincolanti in tutte le loro parti e direttamente applicabili negli Stati membri. Di contro, le direttive sono fonti vincolanti nei fini da raggiungere ma non nei mezzi e, pertanto, necessitano di una legge interna di attuazione. In assenza di una legge di recepimento, la direttiva, comunque, può produrre effetti diretti (ossia essere self executing) qualora sia, così come la Corte di Giustizia ha avuto modo di precisare, sufficientemente chiara, precisa, incondizionata (cioè non bisognosa della mediazione di una legge interna); attribuisca – tramite la sua previsione – una posizione giuridica favorevole al singolo nei confronti dell’autorità, nonché sia infruttuosamente scaduto il termine per il suo recepimento. In tale ipotesi, la direttiva cosiddetta dettagliata  può essere fatta valere nei confronti dello Stato (effetti diretti verticali), ma non può dispiegare effetti nei rapporti tra soggetti (effetti diretti orizzontali).

I risvolti applicati di tale distinzione si rilevano nell’ipotesi di contrasto della norma interna con tali fonti.

In generale, in presenza di un contrasto, il giudice nazionale deve cercare, in primo luogo, di effettuare un’interpretazione conforme del diritto interno alla norma comunitaria, sia essa ad effetti diretti o indiretti, ossia tra due interpretazioni possibili, entrambe derivanti dal dato letterale della norma, deve scegliere quella che consente di adempiere agli obblighi derivanti dall’UE (Caso Pupino).

Qualora tale interpretazione ermeneutica non sia possibile, da un lato, il giudice nazionale deve disapplicare la norma interna (sentenza Granital, 1984), in virtù del principio della primazia del diritto comunitario, a fronte di atti direttamente applicabili (tra cui, regolamenti, direttive dettagliate, norme dei Trattati). Di contro, dall’altro lato, in caso di direttiva non self executing ovvero direttiva dettagliata non ancora scaduta, è sempre possibile sollevare questione di legittimità costituzionale davanti alla Consulta della norma interna per violazione dell’art. 117 Cost., nonché della norma interposta (ossia quella comunitaria). Tale impostazione è stata seguita dalla Corte Costituzionale nella sentenza 28/2010 inerente una norma del T.U. ambiente (d.lgs. 152/2006), che sottraeva le ceneri di pirite dalla disciplina, penalmente sanzionata, in materia di rifiuti. Tale norma contrastava con la direttiva 2006/12/CE che invece sottoponeva tali sottoprodotti alla disciplina penale.

Ora, se da un lato, era principio consolidato nella dottrina e nella giurisprudenza anche comunitaria che una fonte priva di effetti diretti non potesse incidere, sull’ordinamento penale, in modo sfavorevole per l’individuo, aggravandone la responsabilità penale; tuttavia, dall’altro lato, la Consulta ha ritenuto che lo Stato italiano e, quindi, anche il legislatore penale, devono rispettare gli obblighi derivanti dal diritto comunitario a seguito della ratifica da parte dell’Italia del Trattato istitutivo della odierna UE e della relativa limitazione di sovranità. Ne discendeva  la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma de qua per violazione dell’art. 11 e 117 Cost., nonché della direttiva comunitaria quale parametro di legittimità interposto. Ad un’analoga dichiarazione di incostituzionalità per violazione degli artt. 11 e 117 Cost. è pervenuto il Giudice delle Leggi in ordine al contrasto tra la disciplina interna e la decisione quadro 2002/584 GAI sul mandato d’arresto europeo.

Ora, dalla disapplicazione o dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale (nell’ipotesi di norma sprovvista di effetti diretti) della norma interna per contrasto con una norma comunitaria possono derivare effetti sfavorevoli o favorevoli per il reo. Ciò in quanto, nel primo caso, una norma di favore può contrastare con il diritto europeo; viceversa, nel secondo, la norma comunitaria, a cui non è conforme il diritto nazionale, può avere effetti limitativi del diritto penale.

Rispetto a quest’ultimo profilo, è pacificamente ammesso in dottrina e nella giurisprudenza nazionale e comunitaria che effetti in bonam partem possano derivare dalla applicazione indiretta del diritto unionale in materia penale, poiché tale incidenza non pone alcun problema di compatibilità con la riserva di legge. In tal senso, dopo gli anni novanta, infatti, il diritto comunitario ha svolto anche una funzione integratrice del diritto penale. Il che si è verificato nell’ambito della colpa specifica, ove va individuata la regola cautelare violata. Quest’ultima spesso si può rinvenire nel diritto comunitario nei casi in cui presenta un contenuto meno restrittivo di quello previsto dalla norma nazionale.

Ebbene, il diritto comunitario che incide in modo riflesso con effetti in bonam partem, in generale, disciplina e garantisce i diritti contenuti nei Trattati, quali la libertà di stabilimento ovvero la libertà di circolazione di persone, merci e capitali. Ne discende che,  di fronte a tali norme  che restringono la fattispecie incriminatrice (se hanno effetti diretti), il giudice interno deve disapplicare la norma nazionale contrastante con esse e assolvere gli imputati.

Alla luce di quanto sopra esposto, il giudice nazionale ha disapplicato la normativa sull’esercizio abusivo della professione, ai sensi del 384 c.p., per la quale è richiesta una specifica abilitazione dello Stato, che restringeva l’esercizio della professione di avvocato in territorio nazionale, per contrasto con il diritto comunitario, che prevede l’esercizio della professione all’interno di ciascuno degli Stati membri. Ne discende che il diritto comunitario ha inciso sull’ampiezza della scriminante di cui all’art. 51 c.p. (esercizio del diritto), integrandolo con il principio di libertà di circolazione derivante dai Trattati.

La casistica giurisprudenziale, in tema di effetti favorevoli per il reo, è ricca, poiché l’incidenza indiretta del diritto comunitario sul diritto penale è stato ripetutamente oggetto del dialogo tra Corti, così come è avvenuto in ordine alla disciplina che sanziona e regola l’esercizio dell’attività di raccolta e gestione delle scommesse sportive.

Più in particolare, la disciplina nazionale prevede che l’attività di raccolta del gioco e delle scommesse può essere esercitata in presenza di una concessione dello Stato, ottenuta tramite la partecipazione ad una gara (nei limiti quantitativi previsti dalla legge). Allo stesso tempo, causa l’impossibilità di conoscere i soci, era esclusa la partecipazione delle società quotate in borsa; disciplina quest’ultima, oggi abrogata, ma ancora applicabile nelle ipotesi di rinnovo di concessione. Infine, ai sensi dell’art. 84 TUPS è necessaria una licenza di polizia. La mancanza di uno dei requisiti sopra esposti è idonea ad integrare la fattispecie di esercizio abusivo del gioco e delle scommesse, sanzionato dall’art. 4 l. 401/89. Tale disciplina è stato ritenuta, per vero, in contrasto, a parere della Corte di Giustizia, con i principi comunitari di libertà di stabilimento e di libertà di prestazione dei servizi previste dai Trattati. Cionondimeno, i Trattati stessi prevedono che i principi in esame possano subire delle restrizioni da parte della legislazione degli Stati membri in presenza di interessi generali e quando tali deroghe siano idonee e proporzionate ai fini che si debbano raggiungere. Nello stesso senso, anche la Corte di Giustizia ha ammesso la conformità del diritto nazionale con quello comunitario in presenza di restrizioni gravi, salvo che queste non dipendessero da valutazioni di ordine fiscale ovvero da politiche statali di espansione del gioco e delle scommesse. Ne discendeva che gli effetti favorevoli derivanti dall’incidenza riflessa del diritto comunitario sul diritto interno non si producevano in presenza di fattispecie incriminatrici poste a tutela di interessi integranti deroghe legittime alle libertà riconosciute a livello unionale.

La questione, però, restava oggetto di dibattito giurisprudenziale tra la Corte di Cassazione, da un lato, che ammetteva la compatibilità tra diritto comunitario e diritto interno facendo leva sulle ragioni di ordine pubblico e sulla prevenzione dell’infiltrazione criminale nell’esercizio di tali attività, ed i giudici di merito, dall’altro. Questi ultimi, invero, nell’ottica del favor rei, disapplicavano la disciplina nazionale sanzionatoria, in base ai principi richiamati dalla Corte di Giustizia. La Corte di Lussemburgo, nuovamente chiamata a pronunciarsi, ha ribadito che il giudice nazionale non deve disapplicare la norma interna quando le deroghe sono volte alla tutela dell’ordine pubblico ed a contrastare il fenomeno della infiltrazione criminale; nonostante ciò, ha ravvisato un’incompatibilità comunitaria della disciplina di cui all’art. 4 bis l. 401/89 nella parte in cui si sanzionano penalmente i soggetti che svolgono attività di intermediazione nell’attività di gestione delle scommesse per conto di società, aventi sede in Stati membri dell’Unione, qualora queste sono in regola con le previsioni sancite negli Stati di appartenenza e non hanno potuto partecipare alla gara italiana per ottenere la concessione, poiché quotata in mercati regolamentati.

Tale sentenza trova fondamento nella illegittimità delle deroghe alle libertà fondamentali che siano sproporzionate o non necessarie. In tal senso, le restrizioni all’accesso alle gare per l’ottenimento della concessione, previste per le società per azioni quotate e le relative sanzioni sono da considerare misure sproporzionate rispetto all’obiettivo da raggiungere, ossia evitare l’infiltrazione criminale nelle attività in oggetto. Ne consegue che, a fronte di deroghe illegittime, il diritto comunitario può produrre effetti favorevoli per il reo incidendo indirettamente nella materia penale.

Inoltre, è stato oggetto di un dibattito giurisprudenziale nazionale ed europeo, nonché è stato attenzionato da parte della dottrina il contrasto tra la norma di cui all’art. 14, co. 5 ter e quater d.lgs. 286/98 (che punisce gli immigrati extracomunitari irregolari inottemperanti all’ordine di allontanamento intimato dal questore) con la direttiva cosiddetta “rimpatri”. Quest’ultima prevede la disciplina del rimpatrio dello straniero che irregolarmente dimora nel territorio dello Stato e individuava come ultima ratio il trattenimento dello straniero in appositi centri di permanenza, per un periodo non superiore a diciotto mesi, escludendo, salvo casi eccezionali, il trattenimento in carcere. Pertanto, è incompatibile con quanto previsto dalla direttiva la reclusione fino a cinque anni per lo straniero non cooperante con la procedura espulsiva ai sensi dell’art. 14 cit. Ne deriva, in altri termini, una compressione illegittima delle libertà personali dello straniero. A seguito di rinvio pregiudiziale, la Corte di giustizia dichiara l’incompatibilità con la predetta direttiva della normativa che prevede la pena della reclusione  per lo straniero che soggiorna irregolarmente nel territorio dello Stato e, in violazione dell’ordine del questore, permane nel territorio senza giustificato motivo. Con maggiore impegno esplicativo, la Corte di Lussemburgo, riconosciuto l’effetto diretto della direttiva,  chiarisce che il giudice italiano deve disapplicare tale normativa interna che prevede una sanzione incompatibile con il diritto europeo. Alla luce di ciò, i giudici nazionali hanno assolto molto imputati e altrettante pronunce dei giudici di merito, passate in giudicato, sono state revocate per effetto dell’incidenza del diritto unionale nel nostro ordinamento.

Non manca di rilevare che una parte della dottrina ritiene essere in presenza non di un fenomeno di disapplicazione, bensì di una abolitio criminis. Opinando in tal senso, in forza di un’interpretazione costituzionalmente necessitata, alle predette situazioni si è estesa la previsione di cui all’art. 673 c.p.p. (ossia la richiesta al giudice dell’esecuzione di revocare la sentenza di condanna passata in  giudicato per abolizione del reato) per sopravvenuta inapplicabilità della norma incriminatrice.

Orbene, occorre indagare se l’incidenza riflessa del diritto comunitario in materia penale possa produrre anche effetti sfavorevoli. Sul punto la Corte di Giustizia ha ritenuto per lungo tempo, così come la dottrina e la giurisprudenza nazionale, che il diritto comunitario non può incidere indirettamente estendendo o aggravando le sanzioni penali interne quando non comportano una attuazione efficace del diritto dell’Unione. Il che è avvenuto in ordine al reato di false comunicazioni sociali. Più in particolare, la Corte di Lussemburgo è stata chiamata in via pregiudiziale a pronunciarsi sul contrasto tra gli artt. 2621 e 2622 c.c. (nella pregressa formulazione) con le direttive in materia di diritto societario dell’Unione Europee, pervenendo alla conclusione che la normativa comunitaria non può avere l’effetto di aggravare o determinare la responsabilità penale di un soggetto, a fortiori a fronte di una direttiva not self executing.

Recentemente la Corte di Giustizia non ha esteso l’ambito operativo di una fattispecie penale, né ha aggravato il trattamento sanzionatorio, ma ha inciso sulla applicazione di una norma di favore in contrasto con il diritto dell’Unione. Il che è avvenuto in ordine al reato di cui all’art. 2 d.lgs. 74/2000, ossia la falsa fatturazione al fine di evadere l’IVA.

La questione, per vero, attiene al diritto unionale in quanto viene evasa anche l’imposta comunitaria. Ciò creerebbe un vulnus di tutela ad un bene comunitariamente rilevante quale il patrimonio dell’Unione. In tale ottica si muoveva l’ordinanza di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia che sollevava il contrasto tra la normativa interna in materia di interruzione della prescrizione (artt. 160-161 c.p.) e l’art. 325 TFUE (in materia di rimedi efficaci ed effettivi nella tutela dell’ordinamento economico comunitario). Più in particolare, la Corte di Lussemburgo ha modo di precisare che l’ordinamento italiano non applica tale normativa in ambito di accise. Ne deriva una disparità di trattamento nella tutela dell’imposta interna e di quella comunitaria, in violazione del principio di assimilazione, ai sensi del quale lo Stato membro ha l’obbligo di sanzionare la violazione comunitaria in condizioni sostanziali e processuali analoghe a quelle previste per la violazione del diritto interno in ordine a beni di natura e di importanza similari. A tal fine la Corte di Giustizia dichiara che il giudice nazionale può essere tenuto a disapplicare la normativa interna in materia di prescrizione per contrasto con il diritto comunitario. Ne discende un allungamento fittizio dei termini prescrizionali e in tal guisa un trattamento penale sfavorevole nei confronti del reo.

E’ noto che ai sensi dell’art. 25 comma 2 Cost. nessuno può essere punito se non in forza di un legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso.

Pertanto, nonostante una prima applicazione di tale sentenza da parte della Suprema Corte, è stata successivamente sollevata questione di legittimità costituzionale davanti alla Consulta per i seguenti motivi.

In primo luogo, viene in rilievo una violazione dell’art. 25, comma 2 Cost. sotto il profilo della riserva di legge. Il soggetto, infatti, verrebbe condannato in forza di una legge e di una sentenza della Corte di Giustizia in aperta violazione del principio della riserva di legge. Inoltre, vi sarebbe una violazione del principio della irretroattività sfavorevole, posto che, per i soggetti a favore dei quali la prescrizione era già maturata, si era in presenza di diritti acquisiti nella loro sfera giuridica. Opinando in tal senso, si rileva, di fatto, una violazione del principio della calcolabilità degli effetti penali, ai sensi del quale, fuori dalle ipotesi di criminali irrazionali, il reo deve potere prevedere le conseguenze della sua condotta ex art. 27 Cost., nonché in base al combinato disposto dell’art. 117 Cost. con l’art. 7 CEDU. Il che implica, per l’effetto, una violazione del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., in quanto il soggetto avrebbe potuto scegliere una diversa strategia difensiva, quale, a titolo esemplificativo, un altro rito che avrebbe garantito l’applicazione di una pena più mite.

Sotto un diverso profilo, si rileva anche una violazione del principio della separazione dei poteri. Tale assunto fa leva sulla considerazione che, a parere della Corte di Giustizia, è rimesso alla valutazione discrezionale  del giudice interno se disapplicare o meno, caso per caso, la normativa in materia di prescrizione, in base al numero considerevole di casi nei quali tale disciplina lede gli interessi finanziari dell’Unione. È chiaro come scelte di tal tipo appartengano, per vero, al legislatore, a seguito di opportune indagini statistiche effettuate da appositi soggetti. Ne discende che la Corte di Giustizia, come autorevole dottrina ha sottolineato, avrebbe dovuto più correttamente agire  tramite una procedura di infrazione nei confronti dello Stato italiano.

Cionondimeno, la scelta dello strumento della disapplicazione da parte della decisione della Corte di Lussemburgo è stata oggetto di critiche, poiché la materia della prescrizione sottostà alla previsione di cui all’art. 25, comma 2, Cost. Il che dipende dalla natura sostanziale della stessa; natura ribadita dalla Corte Costituzionale, nonché facilmente evincibile dalla collocazione della stessa per volontà del legislatore nel codice penale e non in quello di rito. Non è mancata l’obiezione di altra parte della dottrina che ha ritenuto l’interruzione della prescrizione questione attinente alla materia processuale. A tale tesi si contrappongono fino ad escluderne la validità, secondo i fautori della natura sostanziale, le evidenti ricadute che la disciplina in esame ha sul diritto sostanziale.

Vi è un ulteriore profilo inerente la violazione del principio di tassatività, corollario anch’esso del principio di legalità, che non può essere non osservato. In tale ottica, il riferimento, contenuto nella sentenza della Corte di Giustizia, ad un numero elevato di casi in cui la disciplina sulla prescrizione potrebbe ledere gli interessi finanziari dell’Unione è un parametro altamente vago e indeterminato. È noto che nel nostro ordinamento il principio di tassatività è rivolto al legislatore che deve descrivere in modo preciso e dettagliato la fattispecie penale. E’, altresì, vero che un margine di discrezionalità è fisiologico nella funzione interpretativa che viene svolta dal giudice. Tuttavia, in tale ipotesi, si è in presenza di elementi vaghi ed indeterminati.

Alla luce di quanto sin qui detto, per contrastare le violazioni dei principi fondamentali della nostra Carta Costituzionale da parte della decisione in oggetto la giurisprudenza ha fatto ricorso alla teoria dei controlimiti. Quest’ultima è stata creata negli anni ’70 a causa delle diffidenze della Corte Costituzionale nei confronti di un diritto comunitario di stampo economico e, pertanto, disattento ai diritti inviolabili della persona. In tal senso, il principio della primazia del diritto comunitario si scontra con lo zoccolo duro dei principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico (principio di legalità in materia penale ex art. 25 Cost. e suoi corollari, ossia riserva di legge, tassatività, irretroattività sfavorevole, divieto di analogia in materia penale).

Il quadro dei rapporti tra diritto nazionale e diritto comunitario risultava, quindi, mutato alla luce della sentenza Tarrico. All’indomani dell’emanazione delle ordinanze di remissione alla Consulta, la dottrina si interrogava se tale assetto sarebbe stato confermato dalla Corte Costituzionale, optando per una visione compromissoria, ovvero sovvertito in favore della riserva di legge. Quest’ultima, pare, di fatto, essere la via scelta recentemente dalla Consulta.

Sul punto, la Corte Costituzionale con recente ordinanza ha effettuato rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia al fine di aver conferma se la norma di cui all’art. 325 TFUE vada applicata solo se sia compatibile con l’identità costituzionale dello Stato membro e, di conseguenza, se tale valutazione debba essere effettuata dalle autorità competenti del medesimo Stato.

Per vero, la Consulta non dubita sulla primazia del diritto comunitario rispetto al diritto interno; cionondimeno ritiene, nel caso di specie, che sussista un  impedimento di tipo costituzionale alla sua applicazione. Più in particolare, tale impedimento è costituito dalla riconducibilità, per il nostro ordinamento, della disciplina della prescrizione al diritto penale sostanziale.

Con maggior impegno esplicativo si può dire che il Giudice delle Leggi ha argomentato l’ordinanza facendo leva su due considerazioni: a) la natura sostanziale della prescrizione; b) il principio di leale collaborazione.

Sotto il primo profilo, la natura non processuale della prescrizione la riconduce all’art. 25, comma 2, Cost. e, di conseguenza,  ne sottopone la disciplina ai principi di riserva di legge e tassatività. Rispetto a quest’ultimo profilo, il deficit di tassatività si evince dall’impossibilità di delimitare la discrezionalità del giudice nell’interpretare il requisito del “numero considerevole di casi”, così come richiesto dalla sentenza della Corte UE.

Da altra angolazione la disapplicazione della disciplina de qua violerebbe il principio della riserva di legge; ciò in quanto nessun individuo poteva ragionevolmente prevedere, prima della sentenza Tarrico, che l’art. 325 TFUE prescrivesse al giudice di non applicare la normativa interna (artt. 160 ult. co. e 161 secondo comma c.p.) qualora venisse violato il principio di assimilazione ovvero, a fronte di frodi fiscali gravi in danno dell’Unione, fosse derivata l’impunità in un numero considerevole di casi.

Rispetto al principio di leale collaborazione, la Consulta muove dall’assunto per cui i giudici di Lussemburgo ritengono, nella sentenza Tarrico, che il giudice nazionale, qualora decida di procedere alla disapplicazione, nelle ipotesi sopra descritte, deve, al contempo, assicurare che i diritti fondamentali degli interessati siano rispettati. Dal vaglio analitico di tali affermazioni – a parere del Giudice delle Leggi – si dovrebbe dedurre che la non applicazione della norma interna non vada attuata qualora ciò contrasti con i principi supremi della Carta Costituzionale, nonché con i diritti inviolabili della persona, così come costituzionalmente  garantiti. Il che troverebbe conforto in un’interpretazione di “leale collaborazione” quale principio di reciproco rispetto. Dato che l’Unione e gli Stati membri sono uniti nella diversità, non vi sarebbe rispetto se prevalessero le ragione dell’unità.

Detto altrimenti, non sussisterebbe un “rispetto” per il  nostro ordinamento da parte dell’Unione se il nucleo dei valori costituzionali, sui quali si fonda il nostro ordinamento, venisse meno.

Per quanto sopra esposto, sarebbe auspicabile, de iure condendo, da un lato, un intervento legislativo in materia di prescrizione; dall’altro lato, qualora la Corte di Giustizia rigettasse la questione, la Corte Costituzionale parrebbe non poter che sollevare la parziale illegittimità costituzionale della legge di ratifica del TFUE, in quanto violerebbe il nucleo dei diritti inviolabili.

In sintesi, è palese come le fonti eurounitarie, da un lato, incidano sempre di più sul monopolio della legge statale nella determinazione della condotta e delle sanzioni, dall’altro lato, svolgono un ruolo di eterointegrazione; tuttavia, tali fonti si scontrano con lo zoccolo duro dei controlimiti, rappresentato dai principi fondamentali della Costituzione (tra cui la riserva di legge ex art. 25, Comma 2, Cost.), nonché i diritti inviolabili della persona.

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