Successione di leggi penali e reati false comunicazioni sociali.
SELENE DESOLE
Successione di leggi penali e reati false comunicazioni sociali.
Il fenomeno della successione nel tempo di leggi penali è preso in considerazione da una pluralità di fonti, sia proprie dell’ordinamento giuridico italiano, sia esterne ad esso.
Il principio generale in materia di efficacia nel tempo della legge penale è quello di irretroattività.
Si veda l’art. 7 della CEDU, il quale, oltre al principio di legalità, espressamente sancisce l’altrettanto fondamentale principio di irretroattività della legge penale: in primo luogo, l’articolo in esame afferma che nessuno può essere condannato per un’azione o omissione che, al momento della commissione, non costituiva reato secondo il diritto interno o nazionale; nel prosieguo, precisa che, parimenti, non possa essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso.
Nelle preleggi al codice civile, all’art. 11, si trova un riferimento alla regola della non retroattività della legge in generale, derogabile, peraltro, dalla legge medesima, ma non nei casi di leggi penali, per le ragioni che di seguito si esamineranno.
Ancora, all’art. 25 co. 2 Cost., il principio è ribadito con particolare riferimento alla potestà punitiva dello Stato: è, infatti, sancito che nessuno possa essere punito, se non in forza di una legge penale che sia entrata in vigore prima del fatto commesso.
Infine, si veda l’art. 2 c.p., ove è precipuamente posta la disciplina della successione di leggi penali, in applicazione dei sopra espressi principi generali.
La norma, al comma primo, sancisce il principio di irretroattività, richiamato dal dettato costituzionale, per il quale nessuno può essere punito per un fatto che, per la legge del tempo in cui è stato commesso, non costituiva reato.
Il comma secondo dell’art. 2 disciplina poi, nel dettaglio, il fenomeno dell’abolitio criminis: non si può essere puniti per un fatto che, per la legge posteriore, non costituisce più reato. In tali casi, la legge posteriore ha l’effetto di abolire la fattispecie incriminatrice prevista in una norma precedente e, anche laddove sia intervenuta condanna con sentenza irrevocabile, di essa cessano l’esecuzione e gli effetti penali. Il comma terzo prende in considerazione l’ipotesi in cui la legge posteriore preveda l’applicazione di una pena pecuniaria in luogo di una pena detentiva per il medesimo fatto; anche in tale circostanza, troverà attuazione la norma posteriore, con conseguente applicazione della pena pecuniaria.
Il quarto comma dell’articolo in esame riguarda, invece, il fenomeno della successione di leggi penali: l’interprete è chiamato a comparare la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori, al fine di identificare e applicare quella che preveda un trattamento di maggior favore per il reo, salvo che sia intervenuta sentenza irrevocabile. Tale disposizione non può trovare applicazione nei casi di intervenuta abolitio criminis, per la quale, come detto, si applica l’art. 2 comma 2 c.p.; tuttavia, la disposizione di cui al comma 4 può trovare applicazione laddove si configuri un’abrogatio sine abolitione, in quanto il fatto considerato continua ad avere rilevanza penale. In tali casi, seppure intervenga l’abrogazione di una norma incriminatrice, la condotta che la stessa considerava penalmente rilevante non viene realmente eliminata dall’ordinamento, ma viene inglobata in una norma incriminatrice nuova oppure si trova ricompresa in altre norme preesistenti.
Non sempre, però, è agevole distinguere i due fenomeni. A tal scopo, la dottrina e la giurisprudenza hanno cercato di elaborare dei criteri discretivi, sulla base dei quali operare le dovute distinzioni, in considerazione delle rilevanti conseguenze applicative derivanti dalla qualificazione in termini di abrogatio o di abolitio; come chiarito dalla stessa disposizione di cui al comma quarto, l’applicazione della legge più favorevole è preclusa se sia stata già pronunciata sentenza irrevocabile, mentre l’intangibilità del giudicato è superata se si configura il fenomeno abolitivo. Tra i criteri distintivi elaborati, si richiama quello di specialità: si tratterà di abrogatio sine abolitione se la leggi succedutesi nel tempo siano in rapporto di genere a specie. Giova, infatti, precisare che non sempre il legislatore prevede espressamente l’abrogazione di norme precedenti, rimanendo così all’interprete il compito di verificare se si sia configurato un fenomeno abolitivo o se invece si sia trattato di abrogazione senza abolizione.
Concludendo l’analisi della disciplina prevista dall’art. 2 c.p., i commi quinto e sesto delimitano l’ambito di applicabilità delle regole dettate nella prima parte dell’articolo. In particolare, il comma quinto precisa che le disposizioni dei capoversi precedenti dell’art. 2 non si applicano se si tratta di leggi eccezionali o temporanee. Infatti, l’eccezionalità o la limitazione dell’efficacia nel tempo di una legge giustificano che la stessa operi diversamente rispetto a quanto previsto da regole generali, proprio in virtù della specialità che la caratterizza. Per quanto riguarda, invece, il comma sesto, l’originaria formulazione dello stesso prevedeva l’applicabilità dei principi generali anche nei casi di decadenza e mancata ratifica di un decreto legge e in quelli di conversione del decreto in legge con emendamenti. Su tale disposizione è intervenuta la Corte Costituzionale dichiarandone l’illegittimità, ai sensi dell’art. 77 Cost.; infatti, è necessario rammentare che la citata disposizione del codice penale si inseriva in un momento storico antecedente a quello inaugurato dall’entrata in vigore della Costituzione, essendo il codice penale risalente al 1930. Per questo motivo, la disciplina dei decreti legge non era quella attualmente disposta dal dettato costituzionale: secondo la normativa vigente, il decreto legge non convertito perde efficacia sin dall’inizio e i rapporti giuridici eventualmente sorti sulla base dei decreti non convertiti possono essere regolati con legge. Pertanto, il decreto non convertito si considera tamquam non esset e non potranno applicarsi ad esso le disposizioni – di cui all’art. 2 c.p.- sulla successione di leggi penali. Altresì, non potrà applicarsi la predetta disciplina nelle ipotesi in cui intervenga una sentenza della Consulta che dichiari l’illegittimità costituzionale di una norma incriminatrice, in quanto, anche in tal caso, l’effetto della sentenza della Corte è di eliminare la norma dal mondo giuridico, annullandola; non potrà quindi parlarsi di successione di leggi penali.
Con riguardo ai decreti legge non convertiti e alle sentenze di incostituzionalità deve, però, operarsi un’ulteriori distinzione: laddove le disposizioni contenute nel decreto o nella norma incostituzionale fossero norme penali di favore (si pensi, ad esempio, alle norme che prevedono cause di giustificazione), si è ritenuta applicabile, comunque, la norma penale di favore, alla luce di quello che sembra essere il leitmotiv dell’intera disciplina della successione di leggi penali nel tempo, ovvero il c.d. “favor rei”.
Occorre allora approfondire il fondamento del favor rei e quale sia la ratio sottesa ad esso. Osservando le disposizioni citate, emerge chiaramente che il legislatore ha come obiettivo quello di applicare, nei confronti del reo, la norma che consenta ad esso un trattamento di maggior favore (lex mitior). Tale obiettivo, più che essere riconducibile ad una scelta di politica criminale, si inserisce in un’ottica – ben più ampia- di general-prevenzione. Al pari del principio di legalità, infatti, il principio di irretroattività ha la funzione fondamentale di orientare le condotte dei consociati: i destinatari delle norme giuridiche, perché adottino condotte conformi ai dettami dell’ordinamento giuridico, devono essere posti nelle condizioni di conoscere quali siano i fatti penalmente rilevanti e quali conseguenze derivino dal loro verificarsi. Tale conoscibilità è possibile solo se ci sono norme chiare e precise, che siano entrate in vigore prima della commissione del fatto; l’applicazione retroattiva di una norma pregiudicherebbe la libertà di scelta del destinatario della medesima: solo la norma che opera pro futuro è in grado di raggiungere gli obiettivi esplicati. Parimenti, anche la funzione special-preventiva e la finalità rieducativa della pena sarebbero compromesse se le norme incriminatrici potessero avere effetti retroattivi; il destinatario della norma subirebbe una pena della quale avvertirebbe l’ingiustizia, perché non è stato posto nelle condizioni di comprendere la portata delle proprie azioni nel momento preciso in cui le ha compiute. Questo comporta che la pena sia svuotata della sua funzione rieducatrice, di cui all’art. 27 comma 3 Cost., con l’ulteriore conseguenza che il soggetto punito potrebbe ancora delinquere e l’obiettivo del reinserimento sociale sarebbe, inevitabilmente, compromesso.
Dal quadro delineato emerge che il principio di irretroattività sia mitigato dalla c.d. irretroattività favorevole: come osservato nella disamina effettuata sull’art. 2, commi 2, 3 e 4 c.p. e sui principi enunciati in materia di incostituzionalità di norme penali di favore o di non conversione di decreti legge che le contengano, al reo sarà applicabile la lex mitior, in applicazione del favor rei, in luogo del generale principio di irretroattività. Quindi, il fenomeno della successione delle leggi penali nel tempo vede il costante contemperamento tra il principio di irretroattività e quello del favor rei, tenendo a mente la fondamentale differenza tra le ipotesi di abolitio e quelle di abrogatio, per le quali l’art. 2 c.p., come visto, dispone una differente disciplina.
I principi analizzati debbono, a questo punto, essere richiamati al fine di comprendere l’attuale disciplina in materia di responsabilità penale per i reati di false comunicazioni sociali, di cui agli artt. 2621 e ss. c.c., oggetto anche di una recente riforma per effetto della l. 69/2015. Tali fattispecie di reato hanno subito nel tempo varie modifiche da parte del legislatore, soprattutto per le ipotesi di cui agli art. 2621 e 2622 c.c.
Analizzando l’attuale formulazione dell’art. 2621, si deve notare che la norma si apre con una clausola di sussidiarietà, ai sensi della quale l’applicazione delle disposizioni in esame è possibile solo fuori dei casi previsti dall’art. 2622 c.c.; si osserva poi che si tratta di un reato proprio, in quanto i soggetti attivi sono espressamente identificati negli amministratori, direttori generali, dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, sindaci e liquidatori di società. La condotta tipica si caratterizza per l’esposizione, nei bilanci, relazioni e altre comunicazioni sociali dirette ai soci e al pubblico, di fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero, oppure nell’omissione dei fatti materiali la cui comunicazione è imposta dalla legge, in modo idoneo a indurre altri in errore; le falsità o omissioni possono riguardare anche beni posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi. Per ciò che concerne l’elemento soggettivo di tale fattispecie, lo si qualifica in termini di dolo specifico, dal momento che, alla coscienza, volontà e consapevolezza delle azioni o omissioni poste in essere, deve aggiungersi anche la sussistenza del perseguimento di un ulteriore fine specifico, consistente nel conseguire un ingiusto profitto per sé o per altri. Inoltre, la l. 69 del 2015 ha introdotto i successivi artt. 2621 bis e ter, nel quali si prevede, rispettivamente, la disciplina per i fatti di lieve entità e per l’applicabilità della non punibilità per particolare tenuità di cui all’art. 131 bis.
La fattispecie di reato di cui all’art. 2622 c.c., nella formulazione prevista dalla l. 69 del 2015, è identica a quella ex art. 2621 c.c., per quanto concerne la condotta tipica e l’elemento soggettivo, mentre diverso è il contesto societario nel quale i soggetti attivi operano, trattandosi di società quotate. Inoltre, la pena edittale prevista è più grave rispetto alla fattispecie di cui all’art. 2621 c.c.
Analizzando i testi dei citati articoli nella previgente formulazione, risalente alla l. 262 del 2005, possono rilevarsi notevoli differenze.
Innanzitutto, si nota che l’elemento soggettivo del dolo specifico si caratterizzava, non solo per il perseguimento dell’ingiusto profitto, ma anche per l’intenzionalità di ingannare i soci e il pubblico. Invece, il legislatore del 2015 ha ritenuto sufficiente che le condotte siano idonee ad indurre altri in errore. Pertanto, nella formulazione attuale, l’accertamento della responsabilità prescinde dalla prova dell’intenzione di ingannare i soci e si rileva un ampliamento dell’area del penalmente rilevante rispetto alla norma incriminatrice previgente. In questo modo, si è dato luogo ad un reato di pericolo concreto (“in modo concretamente idoneo ad indurre altri in errore”), ove l’offesa al bene giuridico non è connessa alla verificazione di un danno concreto alla società.
Inoltre, è stato introdotto l’avverbio “consapevolmente” – riferibile alla condotta tipica- con la conseguenza applicativa che le forme di dolo necessarie per la configurazione del reato saranno di dolo diretto o intenzionale, con esclusione del dolo eventuale.
Altro aspetto rilevante di divergenza dell’attuale art. 2621 c.c. rispetto alla versione precedente, è rappresentato dall’espunzione dell’inciso “ancorché oggetto di valutazioni”, riferito ai fatti materiali falsi contenuti nelle comunicazioni sociali. Da tale dato si desume che non abbia più rilevanza penale la falsità che attenga comunicazioni sociali di natura prettamente estimatoria e che la condotta tipica si estrinsechi unicamente nei casi in cui si inseriscano fatti materiali non rispondenti al vero o si omettano taluni fatti rilevanti. Tale elemento fa desumere una riduzione dell’area del penalmente rilevante.
Si rileva inoltre che, prima della l. 69 del 2015, la condotta tipica nella connotazione omissiva si configurava con l’omissione di informazioni la cui comunicazione è imposta dalla legge, mentre a seguito della riforma è incriminata l’omissione di qualsiasi fatto materiale rilevante la cui comunicazione è prevista per legge. Pertanto, la disposizione vigente, per l’aspetto qui considerato, ha ampliato l’area di rilevanza penale rispetto alla legge previgente che prendeva in considerazione le omissioni delle mere informazioni.
Infine, per ciò che concerne la pena, si noti che la precedente formulazione prevedeva la pena dell’arresto fino a due anni. Pertanto, si trattava di una fattispecie di reato contravvenzionale; oggi, invece, la pena prevista è della reclusione da uno a cinque anni e il reato deve qualificarsi come delitto.
La fattispecie di reato di cui all’art. 2622 c.c., nell’attuale formulazione, non diverge da quella di cui all’art. 2621 c.c., in relazione all’elemento materiale del reato, cambiando unicamente il contesto societario nel quale si configura il reato. Quindi, anche in tal caso, si nota l’inserimento dell’avverbio “consapevolmente” e l’espunzione dell’inciso “ancorché oggetto di valutazione”, con le conseguenze applicative già sopra esposte. Elemento peculiare della fattispecie di cui all’art. 2622 c.c. nella formulazione ante l. 69/2915 è, inoltre, l’eliminazione del danno patrimoniale ai soci o ai creditori dagli elementi costitutivi del reato. Infatti, si osserva che in precedenza le fattispecie di reato di cui agli artt. 2621 e 2622 non differivano unicamente per il contesto societario in cui si verificavano, ma erano in rapporto di progressione criminosa, essendo quella di cui all’art. 2622 c.c. più grave rispetto alla prima, in ragione della necessaria sussistenza del danno patrimoniale quale elemento costitutivo del reato. Tale fattispecie era qualificabile come delitto, con l’applicazione della pena più grave della reclusione da sei mesi a tre anni. Ciononostante, si trattava di un reato punibile a querela di parte, mentre, a seguito della l. 69/2015, entrambe le fattispecie di reato analizzate sono procedibili d’ufficio. Resta la procedibilità a querela se il fatto è di lieve entità, ai sensi dell’art. 2621 bis c.c.; inoltre, l’esistenza del danno patrimoniale e la sua entità possono essere elementi di valutazione utili al fine di verificare l’applicabilità della causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis c.p., come previsto dal nuovo art. 2621 ter c.c.
Attualmente, quindi, i reati di cui agli artt. 2621 e 2622 c.c. sono strutturati quali reati di pericolo concreto, con un inasprimento in termini di pena che si giustifica col fatto che il bene giuridico ora tutelato dalle norme incriminatrici è identificabile nella trasparenza societaria e non più nella mera integrità del patrimonio di soci e creditori.
Ora, esposte le differenze tra la precedente e l’attuale disciplina in tema di false comunicazioni sociali, ci si deve chiedere se, per le fattispecie considerate (2621 e 2622 c.c.), con riferimento alle valutazioni estimative, si sia verificato un fenomeno di abolitio criminis, con l’applicazione dell’art. 2 co. 2 c.p., o se, invece, si sia configurata una forma di abrogatio sine abolitio, con applicazione dell’art. 2 comma 4 c.p. Come anticipato, si tratterà di abrogazione se tra la norma antecedente e la posteriore si configura un rapporto di genere a specie. L’abolitio criminis, invece, presuppone che una condotta, prima penalmente rilevante, non sia più tale per effetto dell’intervenuta legge successiva.
La verifica circa la sussistenza del fenomeno abolitivo nelle fattispecie in esame si pone, per l’appunto, con riferimento all’espunzione dell’inciso “ancorché oggetto di valutazione”, nell’attuale testo dell’art. 2621 c.c., nonché dell’art. 2622 c.c. Come precisato, il non inserimento di tale espressione ha reso non più penalmente rilevanti le condotte caratterizzate da valutatività in ordine ai fatti materiali inseriti nelle comunicazione, della cui falsità, oggi, non si può essere chiamati a rispondere penalmente. Il fatto che non siano più considerate reato tali condotte condurrebbe ad escludere la sussistenza di un rapporto di specialità tra la norma previgente e quella attuale, proprio perché in ordine a tale condotta il legislatore ha adottato la precisa scelta di non considerarla più come tipica; questo precluderebbe l’applicabilità dell’art. 2 comma 4 c.p. Pertanto, per quanto attiene tale aspetto, sembrerebbe potersi configurare una parziale abolizione: la condotta considerata non costituisce più reato per la legge vigente e, come osservato in precedenza, si tratterebbe di abolitio criminis. Allora, sarà applicabile l’art. 2 co. 2 c.p., il quale consente di valicare i limiti del giudicato, facendo cessare l’esecuzione e gli effetti penali della condanna eventualmente intervenuta.