Tema svolto di diritto amministrativo: la colpa della p.a.

Premessi brevi cenni sulla responsabilità civile della pubblica amministrazione, illustri il candidato i profili attinenti l’elemento soggettivo della colpa

di Serafino Ruscica

Schema preliminare di svolgimento della traccia

–    ‑Responsabilità civile della P.A.: dall’originaria immunità alla risarcibilità degli interessi legittimi.

–    ‑L’elemento soggettivo della responsabilità civile della P.A.

–    ‑Orientamento tradizionale: la culpa in re ipsa.

–    ‑S.U. 500/99: dalla culpa in re ipsa alla colpa dell’“apparato”.

–    ‑I recenti orientamenti giurisprudenziali in tema di colpa:

–    ‑la concezione oggettiva della colpa “temperata” dalla definizione di indici valutativi;

–    ‑la responsabilità da “contatto amministrativo”.

–    ‑Ritorno al modello aquiliano “temperato” ai fini della verifica dell’elemento soggettivo.

Dottrina

Barca, La risarcibilità del danno per lesione di interessi legittimi: orientamenti dottrinali e révirement delle Sezioni Unite, in Nuova giur. civ. commentata, 2000.

Caringella, Manuale di diritto amministrativo, Dike Giuridica Editrice, Roma, 2010.

Casetta, Responsabilità della pubblica amministrazione (voce), in Digesto UTET, Discipline pubblicistiche, vol. XIII.

Landinetti, La colpa nel risarcimento per lesione di interessi legittimi, in Urb. e app., n. 5, 2001.

Micari, La colpa della pubblica amministrazione-autorità tra normativa comunitaria e ingiustificati privilegi intertemporali. Proposte ricostruttive, in GC 2006, 9.

Ruscica, La colpa della P.A.Aggiornamento Nov.mo Dig. Disc. pubbl., Torino, 2008.

Tarullo, La colpa della pubblica amministrazione nel nascente modello di responsabilità provvedimentale della pubblica amministrazione, in Trib. Amm. Reg., 2001, II.

Giurisprudenza

Cass., Sez. Un., 22 maggio 1984, n. 5361

La colpa della P.A. sussiste in re ipsa nella stessa illegittimità processualmente accertata dell’atto amministrativo, essendo già di per sé ravvisabile con l’adozione (necessariamente volontaria) del provvedimento illegittimo e con la sua esecuzione, indipendentemente dalla natura del vizio che invalida il provvedimento.

Cass., Sez. Un., 22 luglio 1999, n. 500

L’imputazione della responsabilità della P.A. non piò avvenire sul mero dato obiettivo della illegittimità dell’azione amministrativa, ma il giudice deve svolgere una più penetrante indagine, non limitata al solo accertamento dell’illegittimità del provvedimento in relazione alla normativa ad esso applicabile, bensì estesa anche alla valutazione della colpa, non del funzionario agente, ma della P.A. intesa come appartato, che sarà configurabile nel caso in cui l’adozione e l’esecuzione dell’atto illegittimo (lesivo dell’interesse del danneggiato) sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l’esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi e che il giudice ordinario può valutare, in quanto si pongono come limita esterni alla discrezionalità.

Cons. Stato, Sez. IV, 14 giugno 2001, n. 3169

In tema di responsabilità della P.A. è indispensabile accedere ad una nozione oggettiva di colpa, che tenga conto dei vizi che inficiano il provvedimento ed, in linea con le indicazioni della giurisprudenza comunitaria, della gravità dell violazione commessa dall’amministrazione, anche alla luce dell’ampiezza delle valutazioni discrezionali rimesse all’organo, dei precedenti della giurisprudenza, delle condizioni concrete e dell’apporto eventualmente dato dai privati nel procedimento.Se la violazione è l’effetto di un errore scusabile dell’autorità, non si potrà configurare il requisito della colpa.

Se, invece, la violazione apare grave e se essa matura in un contesto nel quale all’indirizzo dell’amministrazione sono formulati addebiti ragionevoli, specie sul piano della diligenza e della perizia, il requisito della colpa potrà dirsi sussistente.

Cons. Stato, Sez. V, 6 agosto 2001, n. 4239

Non può essere accolta al tesi, secondo cui la colpa della P.A. si verificherebbe solo nei casi di illegittimità del provvedimento amministrativo più grave ed evidente, in quanto verrebbe introdotta, indirettamente, una limitazione della responsabilità alla colpa grave, senza adeguata base normativa.

In base alla regola generale racchiusa nell’articolo 2697 c.c., il danneggiato ha l’onere di provare tutti gli elementi costitutivi della domanda di risarcimento (danno, nesso di causalità, colpa), ma detto onere può essere ragionevolmente adempiuto anche attraverso prove indirette e adeguate semplificazioni, quali le presunzioni.

La accertata illegittimità dell’atto ritenuto lesivo dell’interesse del ricorrente può rappresentare, nella normalità dei casi, l’indice (grave, preciso e concordante) della colpa della pubblica amministrazione.

Cons. Stato, Sez. IV, 6 luglio 2004, n. 5012

Ai fini della dimostrazione del presupposto della colpa della.P.A., necessario ai fini del riconoscimento del risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi, il danneggiato deve offrire al giudice elementi indiziari quali la gravità della violazione, il carattere vincolato dell’azione amministrativa giudicata, l’univocità della normativa di riferimento; acquisiti gli indici rivelatori della colpa, spetta poi all’amministrazione l’allegazione degli elementi ascrivibili allo schema dell’errore scusabile e, in definitiva al giudice apprezzarne e valutarne liberamente l’idoneità ad attestare o ad escludere la colpevolezza della P.A.

Ai fini della dimostrazione dell’errore scusabile, rilevante ai fini risarcitori per ritenere non sussistente l’elemento della colpa, può farsi riferimento alla giurisprudenza comunitaria, la quale, pur assegnando valenza pressocchè decisiva alla gravità della violazione, indica, quali parametri valutativi di quel carattere, il grado di chiarezza e precisione della norma violata e la presenza di una giurisprudenza consolidata sulla questione esaminata a definita dall’amministrazione, nonché la novità di quest’ultima, riconoscendo così portata esimente all’errore di diritto, in analogia all’elaborazione della giurisprudenza penale in tema di buona fede nelle contravvenzioni.

In senso conforme: Cons. Stato, sez. V, sentenza 27 febbraio 2007, n. 995.

Cons. Stato, Sez. VI, 9 novembre 2006, n. 6608

Non è richiesto al privato danneggiato da un provvedimento amministrativo illegittimo un particolare sforzo probatorio per dimostrare la colpa della P.A. Ai fini dell’ottenimento del risarcimento del danno; infatti, pur non essendo configurabile, in mancanza di una espressa previsione normativa, una generalizzata presunzione (relativa) di colpa dell’amministrazione per i danni conseguenti ad un atto illegittimo o comunque ad una violazione delle regole, possono invece operare regole di comune esperienza e la presunzione semplice, di cui all’art. 2727 c.c., desunta dalla singola fattispecie. Il privato danneggiato può, quindi, invocare l’illegittimità del provvedimento quale indice presuntivo della colpa o anche allegare circostanze ulteriori, idonee a dimostrare che si è trattato di un errore non scusabile. Spetterà a quel punto all’amministrazione dimostrare che si è trattato di un errore scusabile, configurabile in caso di contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, di influenza determinante di comportamenti di altri soggetti o di illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata.

In senso conforme: Cons. Stato, Sez. IV, 10 agosto 2004, n. 5500; Cons. Stato, Sez. V, 10 gennaio 2005, n. 32; Cons. Stato, Sez. VI, 23 giugno 2006, n. 3981

Cons. Stato, Sez. VI, 11 gennaio 2010, n. 14

Ai fini dell’accertamento dell’elemento soggettivo, non è comunque richiesto al privato danneggiato da un provvedimento amministrativo illegittimo un particolare sforzo probatorio per dimostrare la colpa della P.A. Infatti, pur non essendo configurabile, in mancanza di una espressa previsione normativa, una generalizzata presunzione (relativa) di colpa dell’amministrazione per i danni conseguenti ad un atto illegittimo o comunque ad una violazione delle regole, possono invece operare regole di comune esperienza e la presunzione semplice, di cui all’art. 2727 c.c., desunta dalla singola fattispecie.

Ai fini dell’accertamento dell’elemento soggettivo, il privato danneggiato può invocare l’illegittimità del provvedimento quale indice presuntivo della colpa o anche allegare circostanze ulteriori, idonee a dimostrare che si è trattato di un errore non scusabile. Spetterà a quel punto all’amministrazione dimostrare che si è trattato di un errore scusabile, configurabile in caso di contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, di influenza determinante di comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata.

Legislazione correlata

Codice Civile, artt. 2043, 1218, 2727, 1227, 2236.

Legge TAR n. 1034/1971, art. 7, co. 3.

D.Lgs. n. 80/1998, art. 35.

Legge n. 205/2000, art. 7.

Trattato UE, art. 288, co. II.

SVOLGIMENTO

L’affermazione di una responsabilità civile in capo agli apparati pubblici è una realtà abbastanza recente per l’ordinamento italiano. Fino alla nota sentenza delle S.U. n. 500/99, la pubblica amministrazione non rispondeva in via risarcitoria per i danni causati nell’esercizio illegittimo della propria attività amministrativa e beneficiava così di una sorta di immunità o di privilegio, non previsto per altri soggetti del nostro ordinamento e sconosciuto anche nella maggior parte dei sistemi europei. Nessun limite veniva invece ravvisato in relazione ai comportamenti materiali della P.A., indiscussa fonte di responsabilità aquiliana.

L’immunità dela P.A. per l’illecito cagionato dall’esercizio di potestà autoritative ha dunque rappresentato per lungo tempo un dogma del diritto italiano.

Tale impostazione ha trovato il proprio fondamento normativo nella legge abolitrice del contenzioso amministrativo (L. 20 marzo 1865, n. 2248, all. E) che ammetteva alla tutela giurisdizionale nelle controversie “nelle quali si faceva questione di un diritto civile o politico”. Al di fuori di tale ambito, e invero, di regola nelle ipotesi in cui il privato si fosse trovato davanti all’esercizio di una potestà amministrativa, tanto nel caso in cui il cittadino vantasse un interesse all’ampliamento della propria sfera giuridica, non c’era altro rimedio che il ricorso amministrativo, strumento giustiziale interno all’amministrazione, fondato solo sul meccanismo caducatorio. A partire dalla legge Crispi, istitutiva della IV sezione del Consiglio di Stato, si è cercato di ovviare ai vuoti di tutela creati dalla L.A.C.

In particolare, con le leggi istitutive delle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato e, successivamente all’entrata in vigore della Costituzione, con la legge istitutiva dei TAR è stata ammessa la tutela giurisdizionale dell’interesse legittimo, attribuendone la cognizione al Giudice amministrativo. Gli organi di giustizia amministrativa però, sono stati dotati del solo potere di annullare il provvedimento ritenuto illegittimo, senza la possibilità di accordare al privato il risarcimento del danno sofferto per effetto del comportamento illegittimo tenuto dalla P.A. In tale contesto, rilevante era la lacuna sotto il profilo dell’effettività della tutela giurisdizionale, non essendo l’annullamento dell’atto amministrativo sempre in grado di riparare il pregiudizio sofferto dal cittadino, nonostante l’efficacia retroattiva della pronuncia giurisdizionale di demolizione. Tuttavia, la giurisprudenza di legittimità è rimasta contraria all’ammissibilità in via generale, del risarcimento del danno per lesione dell’interesse legittimo fino alla sentenza S.U. n. 500/99.

Ostacoli insormontabili alla risarcibilità dell’interesse legittimo erano rappresentati da due orini di argomenti, l’uno di carattere formale e l’altro di carattere sostanziale.

Il primo, di ordine meramente processuale, si fondava sulla considerazione che nel nostro ordinamento (fino al D.Lgs. 80/98, art. 35, co. 1) la giurisdizione del g.a. era disegnata come una giurisdizione di mero annullamento del provvedimento illegittimo, pertanto capace di fornire un tutela esclusivamente demolitoria, essendo il potere di condanna riservato al giudice ordinario.

Sul piano sostanziale, la lettura tradizionale dell’art. 2043 c.c. identificava il danno ingiusto con la lesione di un diritto soggettivo, sul rilievo che l’ingiustizia del danno che l’art. 2043 c..c. assume quale componente essenziale della fattispecie della responsabilità civile, andava intesa nel senso che il fatto produttivo di danno non doveva essere altrimenti giustificato dall’ordinamento giuridico e doveva ledere una situazione soggettiva riconosciuta e garantita dall’ordinamento medesimo nella forma del diritto soggettivo perfetto.

Gli interessi legittimi si sarebbero dunque collocati al di fuori della tutela risarcitoria.

Nel tempo la giurisprudenza, pur tenendo fede al dogma dell’irrisarcibilità dell’interesse legittimo, ha riconosciuto tutela risarcitoria a posizioni che nella sostanza erano di interesse legittimo oppositivo mascherandole come diritti soggettivi. L’atteggiamento conservatore della giurisprudenza con riferimento alle posizioni di interesse legittimo pretensivo è stato ampiamente criticato in dottrina e in giurisprudenza e l’insostenibilità del dogma dell’irrisarcibilità è emersa anche nella legislazione anteriore al 1999, soprattutto in ragione dell’incidenza del diritto comunitario.

Ruolo fondamentale verso l’affermazione della risarcibilità dell’interesse legittimo ha svolto poi il dlgs. 80/98, il quale nel ridisegnare la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo nei settori dei servizi pubblici, dell’edilizia e dell’urbanistica ha riconosciuto al giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, il potere di condannare al risarcimento del danno ingiusto anche attraverso la reintegrazione in forma specifica. Il giudice ammininistrativo cessa di essere il giudice del mero annullamento e ha la possibilità di garantire una tutela piena, non solo demolitoria, ma anche risarcitoria.

Il dogma dell’irrisarcibilità dell’interesse legittimo è stato infine sconfessato dalla Corte di Cassazione con la pronuncia a Sezioni Unite n. 500 del 1999 sulla base di una rilettura dell’art. 2043 c.c. e dell’adesione ad una concezione sostanzialistica dell’interesse legittimo. Secondo la Cassazione “danno ingiusto” è qualunque conseguenza pregiudizievole che incide negativamente sulla sfera giuridica del soggetto danneggiato, che trova causa nella lesione di un interesse rilevante per l’ordinamento giuridico, a prescindere dalla effettiva consistenza della situazione giuridica violata (diritto soggettivo o interesse legittimo).

In tale prospettiva dunque, l’interesse legittimo non rileva come situazione meramente processuale, cioè come titolo di legittimazione per la proposizione del ricorso al giudice amministrativo, ma assume anche natura sostanziale, nel senso che si correla ad un interesse materiale del titolare al conseguimento di un “bene della vita” la cui lesione può cagionare un danno.

La risarcibilità degli interessi legittimi sancita dalla Cassazione ha infine trovato conferma nell’art. 7, L. 205/2000 che ha attribuito al TAR nell’ambito di tutta la sua giurisdizione, la cognizione delle questioni relative all’eventuale risarcimento del danno e agli altri diritti patrimoniali consequenziali.

Orbene, sulla scia della pronuncia delle Sezioni Unite, l’orientamento giurisprudenziale dominante ha ricondotto la responsabilità della P.A. da lesione di interessi legittimi al modello aquiliano ex art. 2043 c.c. che pone tra i requisiti necessari ai fini della configurazione dell’illecito, l’esistenza di un nesso psicologico tra l’autore della condotta e la lesione che da essa scaturisce, legame che trova la sua estrinsecazione nel dolo o nella colpa.

Nell’ambito del più complesso tema della responsabilità della P.A., la tematica dell’elemento soggettivo ha da sempre formato oggetto di un’attenta disamina sia in dottrina sia in giurisprudenza., che hanno avvertito la necessità di verificare i limiti di compatibilità della disciplina fissata dall’art. 2043 c.c. con il peculiare modo di operare della P.A. come soggetto pubblico, in particolare sotto il profilo dell’elemento psicologico dell’illecito.

L’applicazione nei confronti della P.A., della disciplina dettata dall’art. 2043 c.c., determina in capo al soggetto danneggiato, l’obbligo di fornire la prova dell’elemento psicologico, al fine di ottenere il risarcimento del danno subito. Tale principio inizia a trovare pacifica applicazione in caso di attività materiale dell’ente pubblico, (essendone scontata la verifica secondo i criteri ordinari), si segue invece, una linea interpretativa esattamente opposta, in relazione all’attività provvedimentale. Nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, inizia dunque a consolidarsi il principio per cui, la ricerca del nesso psicologico ai fini della configurazione della responsabilità civile. della P.A., sia da escludere nelle ipotesi in cui la lesione del diritto soggettivo derivi da un atto amministrativo dichiarato illegittimo poiché in tali casi, si afferma che al danneggiato spetta un risarcimento del danno, indipendentemente dalla ricerca del dolo o della colpa dell’amministrazione, giacché l’atto amministrativo postula di per sé che esso sia emanato nell’esercizio di un potere, il quale ha necessariamente il carattere della volontarietà, sicché una volta accertata la sua illegittima (e volontaria) emanazione, consegue automaticamente, nel caso prospettato, l’accertamento dell’imputabilità psichica, senza che in proposito occorra indagare in modo autonomo e distinto, non essendo anche richiesta la coscienza della compiuta illegalità. Il riferimento è alla nozione di culpa in re ipsa, fondata sulla considerazione che la dimostrazione dell’elemento soggettivo (colpa) in tali casi si risolva nell’adozione e volontaria esecuzione di un provvedimento illegittimo: l’illegittimità del provvedimento amministrativo portato ad esecuzione vale, di per sé, ad integrare gli estremi della colpa, richiesti dall’art. 2043 c.c., ai fini della sussistenza della responsabilità aquiliana. Il costrutto giurisprudenziale basato sulla presunzione assoluta di colpa, pur finalizzato a rendere maggiormente agevole l’onere probatorio a carico del privato danneggiato, pareva tuttavia porsi in contrasto con l’eccezionalità della responsabilità oggettiva nel nostro ordinamento e inoltre avrebbe riservato all’amministrazione un trattamento deteriore rispetto agli altri soggetti di diritto.

La propensione verso l’obliterazione dell’elemento psicologico posta alla base di tale teoria, presto diventa dominante. La dottrina più attenta, non tarda ad esprimere le sue perplessità in relazione a tale impostazione. Nella stessa direzione, si orienta la Suprema Corte, confutando le argomentazioni addotte dalla giurisprudenza per escludere la necessità di un’indagine sulla colpa, in caso di responsabilità nell’adozione di provvedimenti illegittimi. La Corte nega che la semplice illegittimità dell’atto amministrativo, possa considerarsi sufficiente ai fini dell’affermazione della responsabilità dell’ente e subordina la tutela risarcitoria del soggetto danneggiato alla circostanza che quest’ultimo, fornisca la prova dell’elemento psicologico della P.A.

È attribuita così rilevanza all’attività del soggetto agente in sede formazione e di emanazione dell’atto, recuperando nella sua interezza, la portata precettiva dell’art. 2043 c.c. nei confronti della P.A., quando la lesione della posizione soggettiva deriva da un atto amministrativo illegittimo. L’affermazione di questi innovativi principi, segna semplicemente un momentaneo abbandono dell’orientamento tradizionale. Infatti, la regola secondo cui il diritto del privato al risarcimento del danno, non postula la prova della colpa della P.A., è prontamente ristabilita dalle S.U che riconoscono una responsabilità sostanzialmente oggettiva che sembra presupporre a carico dell’amministrazione una sorta di obbligazione assoluta di risultato, la cui violazione dà luogo a responsabilità, indipendentemente dalla colpevolezza o meno del comportamento dei dipendenti.

In definitiva, la P.A. è tenuta a fornire un servizio con determinate caratteristiche ed il mancato raggiungimento dello standard, è ragione sufficiente per far sorgere il diritto al risarcimento. L’orientamento tradizionale finora delineato, è radicalmente confutato dalla Suprema Corte, nell’intervento a Sezioni Unite 500/1999 il cui fulcro, è nell’indagine sull’elemento psicologico dell’illecito provvedimentale. In definitiva, ai fini della responsabilità ex art. 2043 c.c. non è più sufficiente il riscontro della mera illegittimità del provvedimento, dovendo il giudice effettuare anche una valutazione della colpa della p..a. intesa quale “apparato”, configurabile nel caso in cui l’adozione e l’esecuzione dell’atto illegittimo sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione, cui deve ispirarsi l’esercizio dell’azione amministrativa. La ricostruzione dell’elemento soggettivo proposta dalle S.U. si è rivelata nel tempo inidonea a fornire agli interpreti un paradigma valutativo certo.

In primo luogo si è rilevata l’assenza di un riferimento alla nozione di “apparato” che valga ad orientare in positivo l’indagine verso un centro di imputazione della responsabilità facilmente individuabile.

Sotto altro profilo si è evidenziato come la violazione dei principi di imparzialità, correttezza e buona amministrazione, considerati dalla Cassazione indici sintomatici della sussistenza della colpa dell’apparato, si risolve nell’illegittimità del provvedimento amministrativo, ricadendosi nell’equivalenza illegittimità/colpa che il revirement intendeva superare.

In considerazione di tali rilievi, la giurisprudenza ha cercato di definire meglio l’elemento soggettivo della responsabilità della P.A. per illegittima attività provvedimentale indirizzandosi verso una nozione oggettiva di colpa che tenesse conto della gravità della violazione commessa dall’amministrazione, secondo un modello molto simile a quello adottato in sede comunitaria in tema di responsabilità delle istituzioni dell’Unione europea e delle pubbliche amministrazioni dei paesi membri derivante da atto giuridico contrario a norme comunitarie sovraordinate.

La giurisprudenza comunitaria ricostruisce tale responsabilità oggettiva subordinandone la configurabilità al ricorrere di tre condizioni:

–    ‑violazione di una norma comunitaria attributiva di un diritto a favore del singolo;

–    ‑carattere grave e manifesto della violazione;

–    ‑nesso di causalità tra violazione e danno patito.

In tale prospettiva, pur escludendosi la necessità di una specifica indagine sull’elemento psicologico, comunque assume indirettamente rilievo un giudizio di rimproverabilità dell’amministrazione che emana l’atto, in quanto si richiede la valutazione della gravità della violazione della norma comunitaria, desumibile da una serie di indici sintomatici espressamente individuati (grado di chiarezza e precisione della norma violata, ampiezza del potere discrezionale attribuito all’autorità, carattere intenzionale o meno della violazione, presenza o meno di una giurisprudenza consolidata, eventuale apporto del privato al procedimento).

Traendo ispirazione dagli orientamenti della giurisprudenza comunitaria, il Consiglio di Stato ha accolto una nozione oggettiva di colpa della P.A. che tiene conto dei vizi che inficiano il provvedimento (Cons. Stato, sez. IV, n. 3169/2001).

Tale orientamento riconosce la sussistenza della colpa di apparato qualora l’illegittimità sia stata cagionata da una violazione grave di norme giuridiche.

Per valutare questa gravità il Consiglio di Stato richiama indici sintomatici analoghi a quelli dettati dalla giurisprudenza comunitaria.

Si conclude quindi nel senso che, se la violazione appare grave e matura in un contesto in cui siano addebitabili alla P.A. rimproveri ragionevoli, sul piano della diligenza e della perizia, potrà riconoscersi sussistente il requisito della colpa.

Anche tale impostazione, pur ripresa da numerose pronunce giurisprudenziali, ha subito delle critiche sulla base di serie di argomentazioni.

In primo luogo si è obiettato che, così argomentando, si introdurrebbe indirettamente una limitazione della responsabilità della P.A. alla colpa grave, senza un’adeguata base normativa e si finirebbe per assegnare alla responsabilità della P.A. una funzione sanzionatoria.

Inoltre, anche se normalmente le illegittimità più gravi esprimono la colpa della P.A., anche vizi meno gravi potrebbero accompagnarsi alla colpa della P.A.

Infine si è osservato che la colpa va riferita all’attitudine dell’atto a pregiudicare gli affidamenti dei privati e non alla difformità dai parametri normativi che disciplinano l’esercizio del potere amministrativo.

Tali osservazioni critiche sono tate fatte proprie da un orientamento giurisprudenziale successivo secondo cui l’illegittimità dell’atto può rappresentare un indizio grave, preciso e concordante della colpa dell’amministrazione.

Secondo tale impostazione, il danneggiato potrebbe limitarsi ad allegare l’illegittimità dell’atto, in quanto questa indica la violazione di parametri che, nella generalità delle ipotesi, specificano la colpa della P.A. che, in tal caso, dovrebbe dimostrare l’assenza di colpa.

Dunque, a differenza dell’orientamento giurisprudenziale precedentemente delineato dove la gravità della colpa diventa un indice determinante per l’affermazione dell’elemento psicologico, la gravità rileva quale presunzione semplice di colpa ex artt. 2727, 2729 c.c.

Ambedue le posizioni riferite riconoscono comunque alla P.A. la possibilità di dimostrare l’assenza di colpa, dimostrando di essere incorsa in errore scusabile.

Tra gli indici rivelatori della gravità della violazione, oltre all’ampiezza delle valutazioni discrezionali ed ai precedenti giurisprudenziali, assume una particolare rilevanza l’eventuale apporto del privato nel procedimento. È proprio il riferimento all’apporto del privato nel procedimento offre lo spunto per elaborare il modello della responsabilità da “contatto amministrativo qualificato”: si dà rilievo al rapporto in sé, preordinato ad ingenerare nel privato un affidamento circa la legittimità dell’attività amministrativa. In particolare, si sottolinea che il “contatto” fa sorgere in capo all’amministrazione specifici doveri nei confronti del cittadino che sarà tenuto esclusivamente a dimostrare che essa ha provveduto a seguito di un procedimento su sua istanza o da lui stesso partecipato. Tale tesi parte dal presupposto che l’amministrazione non si trova rispetto al privato, leso nel suo interesse legittimo, nella posizione del «passante» o del «chiunque», tipica della tutela aquiliana, poiché a seguito del contatto che si instaura tra l’amministrazione e il privato nel corso del procedimento amministrativo sorge, se non un vero proprio rapporto obbligatorio, un rapporto di fatto senza obbligo primario di prestazione.

Da tale impostazione discendono due ordini di conseguenze:

a)  ‑l’inquadramento della responsabilità della P.A. per attività provvedimentale all’interno della responsabilità contrattuale, con le connesse implicazioni in tema di prescrizione (decennale), onere della prova e colpa;

b)  ‑la tutela risarcitoria viene svincolata dal giudizio sulla spettanza del bene della vita o della sua probabilità di conseguirlo, incentrandosi invece sugli obblighi procedimentali, in cui il contatto qualificato si sostanzia. Le conseguenze rilevanti che derivano dall’accoglimento della tesi del contatto sono proprio, ed innanzitutto, relative all’onere della prova in quanto viene interpretata la responsabilità da contatto amministrativo quale responsabilità contrattuale per la quale l’onere probatorio è in capo al debitore, cioè nel nostro caso in capo all’amministrazione che dovrebbe dimostrare immediatamente, e non solo in via di eccezione, che l’illegittimità è derivata dalla situazione di sussistenza di un errore scusabile. Rispetto al precedente orientamento della culpa in re ipsa, non sussisterà una presunzione assoluta, quanto, piuttosto, relativa, superabile da parte del soggetto pubblico provando che in concreto l’accertata violazione della regola è derivata da vicende estranee al normale limite di esigibilità della condotta imposto al soggetto pubblico.

Altro orientamento, pur aderendo alla teoria del “contatto sociale qualificato”, critica il tentativo di graduazione dell’illegittimità della condotta amministrativa e sostiene che la colpa andrebbe valutata con riferimento alla sua attitudine a pregiudicare l’affidamento del privato, senza commisurarla alla difformità dai criteri normativi disciplinanti l’esercizio del potere amministrativo: il contatto procedimentale, una volta innestato nell’ambito del rapporto amministrativo, caratterizzato da sviluppi istruttori e da un’ampia dialettica tra le parti sostanziali, impone al soggetto pubblico un preciso onere di diligenza, che lo rende garante del corretto sviluppo del procedimento e della sua legittima conclusione.

La misura della diligenza è, dunque, definita dalle regole che governano il procedimento amministrativo ed è attualizzata in funzione del concreto nesso tra le parti originato dall’iterprovvedimentale e dal suo stato di attuazione.

La violazione di dette regole si traduce, in primo luogo, nella illegittimità dell’atto. Ma essa esprime anche l’indice, quanto meno presuntivo, della colpa del soggetto pubblico.

Dunque, proprio l’adeguata valorizzazione del rapporto procedimentale instaurato tra le parti consente di affermare che l’onere della prova dell’elemento soggettivo dell’illecito va ripartito tra le parti secondo criteri sostanzialmente corrispondenti a quelli codificati dall’art. 1218 c.c.

Dall’altro lato, l’amministrazione potrà fornire la prova di un concorso colposo del danneggiato e in alcune ipotesi il famoso contatto tra P.A. e cittadino può anche costituire elemento a favore dell’amministrazione, quando ad esempio è stato il privato a violare doveri di correttezza nel fornire il suo apporto partecipativo al procedimento, celando circostanze rilevanti o producendo dichiarazioni inesatte.

Le circostanze esimenti che l’amministrazione è tenuta a provare per escludere la propria responsabilità appaiono, infatti, speculari: la colpevolezza dell’amministrazione è provata quando la violazione risulta grave e commessa in un contesto di circostanze di fatto e in un quadro di riferimenti normativi e giuridici tale da palesare la negligenza e l’imperizia dell’organo nell’assunzione del provvedimento viziato, mentre deve essere negata in presenza di un errore scusabile. La ricostruzione teorica in termini di “contatto qualificato” è stata smentita dalla giurisprudenza più recente la quale ha riportato la responsabilità amministrativa per attività provvedimentale illegittima nell’alveo della responsabilità aquiliana, sulla scorta della considerazione che l’intento di semplificazione probatoria a favore del privato può essere raggiunto anche rimanendo entro i confini dell’illecito extracontrattuale, il quale si rivela, in definitiva, più coerente con i caratteri oggettivi della lesione di interessi legittimi e con le connesse esigenze di tutela. In questa prospettiva, la semplificazione probatoria è stata realizzata attraverso il ricorso alle presunzioni semplici di cui agli artt. 2727 e 2729 c.c., assumendo come indici della colpevolezza della pubblica amministrazione la gravità della violazione, il carattere vincolato dell’azione amministrativa, l’univocità del dato normativo e la rilevanza dell’apporto partecipativo del privato al procedimento. Importante è stato, in questo contesto, l’apporto della giurisprudenza comunitaria, la quale ha fornito importanti parametri per la valutazione della gravità della violazione (chiarezza e della precisione della norma violata e della presenza di una giurisprudenza consolidata sul punto), precisando, al contempo, come la prova dell’assenza di colpa sia a carico della pubblica amministrazione e che la stessa sia configurabile solo nelle ipotesi di oscurità e confusione del dato normativo, nonché in presenza di contrasti giurisprudenziali. Da ultimo, occorre segnalare come, di recente, il Consiglio di Stato abbia suggerito, quale parametro di riferimento per l’accertamento della responsabilità della pubblica amministrazione, i criteri di imputazione della responsabilità del professionista di cui all’art. 2236 c.c., che contemplano un’attenuazione della responsabilità in presenza di problemi tecnici di particolare difficoltà.

In definitiva, secondo il Collegio, anche in materia di responsabilità amministrativa per attività provvedimentale illegittima, la complessità della situazione di fatto esaminata dal funzionario, dovrebbe comportare un’attenuazione della responsabilità dell’organo amministrativo, circoscritta alle sole ipotesi di colpa grave.

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