Tema svolto di diritto penale: principio di tassatività ed “atti sessuali”

PREMESSI BREVI CENNI SUL PRINCIPIO DI TASSATIVITA’ IN MATERIA PENALE E DIVIETO DI ANALOGIA SI SOFFERMI IL CANDIDATO SULLA PORTATA APPLICATIVA DI ATTI SESSUALI E SULLA NOZIONE DI BENE CULTURALE COME PREVISTO DAL D.lg. 42/2004.

Svolgimento.

Nel diritto penale la materia delle fonti è dominata  dal principio “ nullum crimen, nulla poena sine lege”
Tale principio che è denominato di “ stretta legalità” od anche semplicemente di “ legalità”, gia sancito dallo Statuto albertino del 1848 ( art 26) è ribadito e precisato nell’art 1 del codice penale.
“ Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite”.
La Costituzione della Repubblica Italiana, entrata in vigore il 1 gennaio del 1948, riafferma il principio con la seguente formula “ Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso” ( art 25).
Dall’art 1 del codice penale e dall’art 25 della Costituzione si rinvengono le seguenti conseguenze:
1)    un fatto non può considerarsi reato ne sottoporsi a pena, se una legge non lo prevede come tale ( principio di riserva di legge);
2)    al fatto preveduto dalla legge come reato non si possono applicare che le pene fissate dalla legge nei singoli casi e nessuno potrà essere punito da una legge che  non sia entrata in vigore prima della commissione del reato  (principio di irretroattività);
3)    il fatto che dà luogo all’applicazione della pena, deve essere previsto dalla legge in modo  “espresso” e quindi mentre esso non può  desumersi implicitamente da norme che concernono fatti diversi ( divieto di analogia), la fattispecie che lo descrive deve essere formulata con sufficiente determinatezza  (principio di tassatività).
Il principio di legalità, quindi sarebbe rispettato nella forma ma eluso nella sostanza se la legge che eleva il reato a un dato fatto lo configurasse in termini generici da non lasciare individuare con sufficiente precisione il comportamento penalmente sanzionato; appartiene quindi alla stessa ragione ispiratrice del principio di legalità l’esigenza della tassatività o sufficiente determinatezza della fattispecie penale.
Ne deriva che, quando non risulti con precisione che un comportamento sia colpito da una determinata norma incriminatrice va esclusa l’incriminabilità della condotta.
Dibattuto è l’esatto valore semantico ascrivibile alle espressioni “ determinatezza e tassatività”.
Una parte della dottrina vuole tenere separate le due espressioni.
Infatti la determinatezza, concerne la verificabilità empirica e processuale del fatto delineato dalla norma incriminatrice; la tassatività invece asserisce alla proiezione esterna della norma penale.
Un’altra parte della dottrina distingue tra determinatezza, precisione e tassatività.
Il principio di precisione impone al legislatore di disciplinare con precisione il reato e le sanzioni penali, in modo da delimitare l’ambito di discrezionalità dell’ autorità giudiziaria e assicurare i diritti di libertà del cittadino; il principio di determinatezza impone la descrizione di fatti suscettibili di essere accertati e provati nel processo attraverso i criteri messi a disposizione dalla scienza e dall’esperienza attuale; il principio di tassatività esprime il divieto per il giudice e per il legislatore di estendere la disciplina contenuta nelle norme incriminatrici oltre i casi in esse espressamente previsti.
Il principio di tassatività si impone al legislatore in un duplice aspetto: da un lato richiede precisione e univocità nella descrizione del precetto in modo da evitare che lo stesso risulti ambiguo nel significato; dall’altro impone che  i concetti in tal modo  descritti abbiano un riscontro nella realtà empirica e  possano essere realmente accertati dal giudice.
Quindi il principio di tassatività è essenzialmente deputato ad evitare arbitrarie ingerenze nelle norme penali da parte del potere giudiziario.
La  determinatezza della fattispecie incriminatrice rappresenta una condizione indispensabile perché la norma penale possa efficacemente fungere da guida del comportamento del cittadino.
L’inserimento della tassatività nell’ottica del rapporto norma-cittadino ne esalta la valenza di principio penalistico proprio di uno stato democratico: quanto più il cittadino è posto in condizione di discernere senza ambiguità tra le zone del lecito e dell’illecito, tanto più cresce il suo rapporto di fiducia partecipativa nei confronti della Stato e delle sue istituzioni .
Il principio di tassatività vincola da un lato il legislatore ad una descrizione il più possibile precisa del fatto di reato e, dall’altro il giudice ad una interpretazione che rifletta il tipo descrittivo così come legalmente configurato.
Gli strumenti  di tecnica legislativa atti a garantire la tassatività della fattispecie sono i cosiddetti elementi descrittivi, elementi cioè che traggono il loro significato direttamente dalla realtà e dall’esperienza.
Evidenti esempi di fattispecie costituite in forma descrittiva sono i delitti di omicidio ( art 575c.p.), lesioni personali ( art 582 c.p.) o di danneggiamento ( art 635 c.p.).
Quanto agli elementi normativi, cioè agli elementi che necessitano per la determinazione  del loro contenuto di una integrazione mediante rinvio ad una norma diversa da quella incriminatrice, occorre operare una precisazione: se si tratta di elementi normativi giuridici, l’esigenza di tassatività è per lo più rispettata perché la norma giuridica richiamata è solitamente individuale senza incertezza; se si tratti invece di elementi normativi extra-giuridici cioè rinvianti a norme sociali o di costume( ad esempio atti osceni, la determinazione dei quali rinvia al comune sentimento del pudore), il parametro di riferimento diventa inevitabilmente incerto.
Quanto alle ragioni sottese al divieto di ricorrere all’analogia in ambito penale giova puntualizzare che lo stesso affonda le sue radici nell’esigenza di tassatività della fattispecie.
Infatti ciò che non viene rispettato è il principio di determinatezza e più precisamente di tassatività della fattispecie, riconoscendosi al giudice la possibilità di applicare le disposizioni ad ipotesi non puntualmente contemplate.
Va dunque riconosciuto il fondamento costituzionale del principio del divieto di analogia nell’art 14 delle preleggi e nel art 1 e 199 c.p.
L’analogia  consiste nel dare una regolamentazione ad una caso non disciplinato, ne esplicitamente,né implicitamente dalla legge, confrontandolo con altro caso simile oggetto di una norma di legge.
Ha dunque funzione integratrice delle norme giuridiche.
Per analogia legis, si intende, quindi, l’operazione intesa ad assegnare alla previsione normativa un significato più ampio rispetto a quello risultante dalla portata letterale della stessa.
Lo stesso procedimento sorregge l’analogia iuris che si differenzia dalla prima perché come parametro di somiglianza utilizza i principi generali dell’ordinamento.
Il principio di stretta legalità vigente in diritto penale impone al giudice di attenersi alla precisa disposizione della norma incriminatrice, senza indulgere a interpretazione analogiche.
Ne consegue che la sanzione da applicare a una fattispecie che ne sia priva non può essere rinvenuta attraverso l’interpretazione analogica.
Il divieto di analogia è violato  in tutti i casi nei quali il legislatore fa ricorso a tecniche di tipizzazione di tipo casistico, accompagnate dall’aggiunta di formule di chiusura quali “ in casi simili” “ in casi analoghi”.
Controversa è l’ampiezza del divieto in esame.
Secondo un indirizzo minoritario il divieto di analogia avrebbe carattere assoluto, nel senso che riguarderebbe sia le norme incriminatrici, sia le norme di favore ( che prevedono cioè cause di non punibilità o di estinzione del reato).
A giustificazione di tale assunto così rigoroso si adduce il primato dell’esigenza di certezza.
Infatti, la certezza del comando penale, in questo caso, verrebbe meno non solo se si estendesse analogicamente la disposizione incriminatrice, ma anche se fossero resi incerti, in conseguenza del procedimento analogico, i limiti della sua applicazione.
Contro la concezione assoluta del divieto di analogia è da obiettare, con la dottrina dominante, che l’art 25 comma 2 Cost. sancisce il primato non dell’esigenza di certezza ma della libertà del cittadino: proprio muovendo dal presupposto che la “libertà” è la regola,e la sua limitazione l’eccezione, risulta del tutto conforme all’art 25 Cost. un interpretazione analogica che abbia come obiettivo di estendere la portata delle norme più favorevoli al reo.
Riconosciuto che il divieto di analogia ha carattere relativo perché concerne soltanto l’interpretazione delle norme penali sfavorevoli, si tratta di precisare in che limiti sia consentita un interpretazione analogica in bonam partem.
L’ammissibilità di un siffatto procedimento analogico potrebbe, infatti trovare ostacolo nel citato art 14 delle disposizioni preliminari, a tenore del quale “ le leggi che fanno eccezioni a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in essa considerati”.
Occorre dunque stabilire il significato del concetto di leggi eccezionali insuscettivo di applicazione analogica sia in malam partem che in bonam partem.
Secondo un orientamento ormai consolidato sono da considerare regolari le norme che disciplinano situazioni generali in cui può versare “ chiunque” al ricorrere di determinati presupposti; mentre ci si trova di fronte a norme eccezionali tutte le volte in cui viene introdotta una disciplina che deroga rispetto a particolari casi all’ efficacia potenziale generale di uno o più disposizioni applicando questi criteri distintivi.
Non tutte le norme, però,  che  prevedono cause di non punibilità hanno carattere eccezionale ad esempio le cause cosiddette di giustificazione  o di esclusione della colpevolezza, appaiono suscettibili di applicazione analogica, ad esempio il caso di un ragazzo sequestrato che, per riconquistare la libertà ferisce il guardiano dormiente sapendo che non sarà pagato il riscatto ( legittima difesa cosiddetta anticipata).
Il ricorso al procedimento analogico è invece precluso rispetto a quelle cause di non punibilità che fanno riferimento a situazioni particolari.
Pertanto l’analogia risulta di conseguenza inammissibile rispetto alla cosiddette immunità le quali derogano al principio della generale obbligatorietà della legge penale rispetto a tutti coloro che si trovano nel territorio dello Stato; alle cause di estinzione del reato e della pena  che derogano alla normale disciplina dell’illecito penale; alle cause speciali di non punibilità che rispecchiano valutazioni politico-criminali legate alle caratteristiche specifiche della situazione presa in considerazione  e perciò non estensibili ad altri ( come ad esempio il rapporto di famiglia nei reati contro il patrimonio).
Altro problema che si è posto la dottrina e la giurisprudenza e che non è sempre agevole distinguere tra analogia e interpretazione estensiva.
Secondo parte della dottrina maggioritaria non si travalicano i limiti di un interpretazione estensiva della fattispecie incriminatrice allorché la soluzione proposta rientra in ogni caso nell’ambito dei possibili significati letterali dei termini impiegati nel testo di legge.
Si ricade quindi nel divieto di applicazione analogica delle legge penale se l’interpretazione ermeneutica và al di la della massima estensibilità interpretativa del testo di legge.
Anche la Cassazione ha ben accolto, in qualche pronuncia il discrimine teorico tra interpretazione estensiva e procedimento analogico, ribadendo che l’interpretazione estensiva è sempre legata al testo della norma esistente, il procedimento analogico è, invece, creativo di una nuova norma che prima non esisteva.
Ciò spiega  perché il procedimento per analogia sia incompatibile con il principio di legalità sancito legislativamente dall’art 1 c.p. e costituzionalmente garantito dal comma 2 dell’art 25 Cost.
Il principio di tassatività e del divieto di analogia della norma penale hanno dato filo da torcere ai Tribunali e soprattutto nelle materie riguardanti la violenza sessuale e i beni culturali.
Infatti la nuova norma sulla violenza sessuale, introdotta con la legge 1996 n. 66 ha costituito una novità significativa per il semplice fatto che la norma non richiede più la distinzione tra atti di maggiore gravità puniti con l’incriminazione di violenza carnale e quella di minore gravità puniti con l’incriminazione di atti di libidine violenta.
Il legislatore del 1996 ha raggruppato in questa nozione “ atti sessuali”  sia la violenza carnale, prevista precedentemente dall’art 519 c.p. , ora abrogato, sia gli atti di libidine violenti, prevista dall’abrogato art 524 c.p. , nonché la congiunzione carnale commessa con abuso di qualità di pubblico ufficiale, prevista dall’allora art 520 ora abrogato.
L’introduzione di tale norma, però, non ha soddisfatto pienamente perché non è riuscita a colmare alcune lacune già  esistenti in passato.
Infatti dal rapporto dell’art 609 bis con gli art 519, 520,521 c.p. si possono trovare quattro diversi indirizzi interpretativi.
Secondo una prima opinione sembrerebbe che l’atto sessuale possa assumere un valore molto più ampio di quello di violenza sessuale ed atto di libidine dal momento che in  essi rientrerebbero tutti gli atti aventi significato erotico.
La seconda opinione si basa sul concetto che il legislatore del 1996 non ha ampliato in alcun modo l’ambito di applicazione della normativa precedente ma ha voluto soltanto dare una definizione diversa nella forma e non nella sostanza agli atti di libidine precedentemente considerati.
Una terza ipotesi è quella che il nuovo concetto di atti sessuali è molto più ristretta degli atti di libidine.
Infine la quarta teoria riguarda coloro che ritengono assolutamente violato con la nuova disciplina il principio di tassatività.
Tuttavia il giudice da cui è stato sollevato l’illegittimità costituzionale sembra ritenere equivalente il principio di tassatività cioè il divieto di analogia della norma penale, con quella della determinatezza cioè l’esigenza che il legislatore disciplini una fattispecie criminosa quanto più possibile, dettagliata e precisa.
Secondo parte della dottrina, quindi, il concetto di atto sessuale designa le sole manifestazioni dell’istinto sessuale che si traducono in un atto o un contatto corporeo con esclusione quindi delle espressioni di libido mancanti ( ad esempio atti di esibizionismo) per cui l’espressione atti sessuali assumerebbe un senso più ampio rispetto a quella di atti di libidine consentendo la punizione di comportamenti che non prevedono un coinvolgimento dell’essere corporeo e sessuale della vittima del reato.
La giurisprudenza per prima ha percorso la via della definizione di “atti sessuali” nei quali devono escludersi “ tutti quegli atti indirizzati verso zone erogene che siano idonei a compromettere la libera determinazione del soggetto passivo ad entrare nella sua sfera sessuale con modalità connotate alla costrizione”.
Tuttavia, in mancanza di una esplicita definizione normativa del concetto di atti sessuali non ci rimane che considerare la volontà del legislatore come espressione equivalente di congiunzione carnale e di atti di libidine, precedentemente abrogati, lasciando così fuori dalla nuova disciplina tutte le condotte non rientranti in una delle due categorie.

Altro aspetto da esaminare è quello relativo alla portata applicativa del bene culturale come previsto dal D.lg. 42/2004.
Il secondo comma dell’art 2 del decreto dispone che “sono beni culturali, le cose immobili e mobili che presentano interesse artistico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà”.
La nozione di bene culturale, accolta dal Codice del 2004, non soltanto è quella “ dichiarata” di cui agli art 10 e 11 di detto testo normativo, bensì anche quella “ reale” desumibile dal dettato di cui all’art 2 che individua quali beni culturali pure quelle cose “ individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà”.
Avverso tale ordinanza il giudice ha eccepito una violazione del “ principio di tassatività-determinatezza” attraverso la configurazione di un patrimonio storico-artistico non dichiarato ma “ reale” costituente interpretazione analogica in malam partem ( che lascia al giudice il compito di individuare cosa sia la “ civiltà”), preclusa in materia penale ed incompatibile con l’elemento soggettivo del dolo.
Qualora dovesse considerarsi un’interpretazione siffatta, dovrebbe ritenersi non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art 173 del D.lg. 42/2004 per contrasto con gli art 25 comma 2 e 27 comma 1 della Cost.
Il riferimento alle “altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà costituisce una formula di chiusura che consente di ravvisare il bene giuridico protetto dalle nuove disposizioni sui beni culturali ed ambientali non soltanto nel patrimonio storico-artistico- ambientale   “dichiarato” ( beni la cui valenza culturale è oggetto di previa dichiarazione), bensì anche quello “ reale” ( beni protetti in virtù del loro intrinseco valore, indipendentemente dal previo riconoscimento di esso da parte delle autorità competenti).
Il D.lg. 42/2004 ha delineato, praticamente, un sistema misto, sia per i beni di appartenenza pubblica che quelli di proprietà privata; rivolto ad apprestare una prima forma di tutela al patrimonio culturale “ reale” e quindi una protezione successiva all’effettiva utilizzazione del patrimonio culturale “ dichiarato”.
La pubblica amministrazione infatti deve essere posta in condizione di venire a conoscenza dell’esistenza del bene e le violazione dell’obbligo di denuncia, si configurano quale reato di pericolo volto a tutelare non solo la preservazione del patrimonio archeologico storico ed artistico, ma anche l’interesse alla individuazione delle cose appartenenti a detto patrimonio.
La norma incriminatrice in questione, in mancanza di criteri obiettivi sulla base dei quali affermare la natura di “ bene culturale” di un determinato soggetto, recherebbe un vulnus evidente al fondamentale principio di tassatività- determinatezza della fattispecie penale, dal momento che la “sussistenza di un interesse culturale nel bene offeso verrebbe fatalmente a dipendere all’arbitrium indicis” .
Il principio di tassatività della fattispecie penale deve considerarsi rispettato anche se il legislatore nel descrivere il fatto reato, usi non già termini di significato rigorosamente determinato ma anche espressioni meramente indicative o di rinvio alla pratica diffusa nella collettività in cui l’interprete opera, spettando a quest’ultimo di determinare il significato attraverso il procedimento ermeneutico di cui all’art 12 comma 1 delle Preleggi.
La determinatezza è un modo di essere delle norme come risulta non soltanto dagli enunciati legislativi, ma anche dall’interpretazione dei medesimi e da loro precisati attraverso l’applicazione.
Deve essere pertanto da guida il criterio affermato dalla Corte Costituzionale, secondo il quale la verifica del rispetto del principio di determinatezza-tassatività, va condotto non già valutando isolatamente il singolo elemento descrittivo dell’illecito, ma raccordandolo con gli altri elementi costitutivi della fattispecie e con la disciplina in cui questa si inserisce.
L’inclusione, nella formula descrittiva dell’illecito penale, di espressione sommarie, di vocaboli polisensi, ovvero di concetti “ elastici” non comporta un vulnus del parametro costituzionale, ma la descrizione complessiva del fatto incriminato che consente al giudice di stabilire il significato del singolo elemento, mediante un’ operazione interpretativa non esorbitante dall’ordinario compito a lui affidato, permettendo così al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente  chiara ed immediata del relativo valore precettivo della norma stessa.
Alla luce di tutto quanto esposto, possiamo notare, come ancora una volta giurisprudenza e dottrina siano conformi a non negare l’applicazione del principio di tassatività- determinatezza  nonché del divieto di analogia della norma penale, lasciando pertanto fuori dalla disciplina del codice sui beni culturali tutte quelle condotte e fattispecie che non vengono esaminate con chiarezza e precisione e che lascerebbero adito a un interpretazione analogica vietata nel diritto penale, tutelando al contrario tutti quei comportamenti e quelle regole stabilite ed introdotte nel codice dei beni culturali dal legislatore.

Dott.sa Cristina Cosentini
( corsista Catanzaro 2009)

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