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Tema svolto diritto penale: concorso eventuale e reato associativo

Premessi brevi cenni sul principio di personalità in materia penale, si soffermi il candidato sulla tematica della responsabilità dei capi delle organizzazioni criminali per i singoli reati commessi dagli appartenenti all’associazione nonché sulla questione dell’invocabilità del vincolo di continuazione tra i singoli delitti scopo posti in essere

di Serafino Ruscica

Schema preliminare di svolgimento della traccia

–    ‑La tematica della responsabilità personale in ambito penale con riferimento all’interpretazione del suddetto principio data dalla Corte Costituzionale nell’alveo dell’art. 27 commi 1 e 3 Cost.

–    ‑Il divieto del ricorso nel diritto penale a forme di responsabilità oggettive o per posizione.

–    ‑La natura del reato di associazione a delinquere di stampo mafioso.

–    ‑La responsabilità dei capi-clan per i delitti scopo.

–    ‑Cenni all’istituto del reato continuato.

–    ‑Peculiarità del vincolo di continuazione.

–    ‑Compatibilità tra la continuazione e i singoli delitti scopo posti in essere dall’associato.

Dottrina

Argirò, La responsabilità dei capi- clan per i reati-fine commessi dagli associati: tra regole di esperienza e criteri d’imputazione oggettiva, in Cass. Pen., 2008, 3, 1189

Corvi, Regole di esperienza e prova del concorso morale dei vertici dell’associazione mafiosa nei delitti commessi dagli altri sodali (nota a Cass. Pen., Sez. VI, 20 aprile 2005, n. 607, A. e altro) – in Riv. it. dir. e proc. pen., 2006, 782.

Fiandaca – Musco, Diritto penale, Parte generale, Bologna, 2007.

Mantovani, Diritto penale Parte generale, Padova, 2009.

Giurisprudenza

Corte Assise S. Maria C.V., 15 giugno 2006

La partecipazione ad un’associazione camorristica in posizione gerarchicamente preminente non è sufficiente, di per sé sola, a fondare la responsabilità a titolo di concorso morale nei delitti commessi dagli altri associati e rientranti nell’interesse strategico dell’organizzazione criminosa. Deve necessariamente essere individuato il tipo di contributo materiale o psicologico apportato alla realizzazione dell’evento, potendo consistere in qualsiasi comportamento esteriore che fornisca un apprezzabile apporto, in tutte o alcune fasi (ideazione, organizzazione, esecuzione, ecc.). Non è però necessario che la condotta del concorrente sia condicio sine qua non dell’evento, essendo sufficiente che il soggetto abbia apportato un contributo idoneo a favorire potenzialmente la verificazione dello stesso. La garanzia costituzionale espressa dall’art. 27, co. 1, Cost. impone soltanto che si rifugga da inaccettabili semplificazioni probatorie ed attribuzioni di responsabilità di posizione.

Cass. Pen., Sez. VII, Ord. 20 giugno 2007, n. 24294

Presupposto normativo per il riconoscimento della continuazione fra più fatti è, anche in executivis, la ricorrenza del medesimo disegno criminoso, ovvero di quel programma unitario nel quale, fin dall’inizio, e sia pure nelle loro linee generali, siano ricomprese tutte le violazioni poi commesse per la sua attuazione.

Non è logicamente ipotizzabile che, all’atto dell’ingresso in un determinato sodalizio mafioso, un soggetto abbia già potuto programmare quello in un successivo gruppo, diversificato sia quanto agli scopi, sia quanto alla partecipazione, oltre che neppure immaginabile quanto alla sua costituzione. Né, a tale riguardo, può valere una generica disposizione ad essere comunque il ricorrente pronto ad agire all’interno di organizzazioni criminali, perché ciò attiene ad una inclinazione delinquenziale del tutto avulsa dallo schema normativo della continuazione.

Cass. Pen., Sez. I, 15 novembre 2000, n. 3834

La partecipazione di un soggetto a un’organizzazione per delinquere di stampo mafioso non costituisce la prova dell’unicità del disegno criminoso fra i reati commessi per il perseguimento degli scopi dell’associazione, in quanto il programma associativo va tenuto distinto dal disegno criminoso la cui unicità costituisce presupposto essenziale della continuazione. E invero quest’ultima richiede la rappresentazione, fin dall’inizio, dei singoli episodi criminosi, individuati almeno nelle loro linee essenziali e costituenti parti integranti di quel disegno, sicché la continuazione fra i singoli reati commessi in attuazione del medesimo disegno criminoso è possibile solo quando risulti che l’autore abbia già previsto e deliberato in origine nei tratti essenziali l’iter criminoso da percorrere e i singoli reati attraverso cui esso si snoda. (Fattispecie in tema di pretesa continuazione tra reati già unificati ex art. 81 c.p., nell’ambito di un disegno criminoso ascrivibile a una cosca delinquenziale di stampo mafioso, e un attentato non rientrante neanche nel generico programma delinquenziale alla cui realizzazione l’associazione era finalizzata).

Cass. Pen., Sez. V, 4 ottobre 2004, n. 42635

L’elemento distintivo tra il delitto di associazione per delinquere e il concorso di persone nel reato continuato, è individuabile nel carattere dell’accordo criminoso, che nel concorso si concretizza in via meramente occasionale ed accidentale, essendo diretto alla commissione di uno o più reati, anche nell’ambito di un medesimo disegno criminoso, con la realizzazione dei quali si esaurisce l’accordo e cessa ogni motivo di allarme sociale, mentre nel reato associativo risulta diretto all’attuazione di un più vasto programma criminoso, per la commissione di una serie indeterminata di delitti, con la permanenza di un vincolo associativo tra i partecipanti, anche indipendentemente e al di fuori dell’effettiva commissione dei singoli reati programmati.

Cass. Pen., Sez. I, 16 novembre 2006, n. 39726

Mentre un’associazione per delinquere è contraddistinta da un accordo programmatico per la commissione di delitti, per aversi reato continuato non è sufficiente un generico piano di attività delinquenziale, ma occorre che tutte le azioni od omissioni siano comprese, fin dal primo momento e nei loro elementi essenziali e individualizzanti, nell’originario disegno criminoso. Pertanto, affinché possa ritenersi sussistente il vincolo della continuazione tra un reato associativo e i reati-fine programmati ed effettivamente realizzati, non basta una generica compatibilità strutturale tra detti reati, né una contiguità temporale che ne caratterizzi la commissione, ma occorre la sussistenza di uno stesso momento genetico-ideativo che accomuni il reato associativo a quelli eseguiti per la sua realizzazione, cosicché possa affermarsi che, sin dall’inizio, nel programma criminoso dell’associazione si erano concepiti nelle loro linee essenziali detti reati-fine, in modo tale da potere ravvisare un’identità di disegno criminoso.

Cass. Pen., Sez. I, 16 aprile 2007, n. 24750

La continuazione presuppone l’anticipata e unitaria ideazione di più violazioni della legge penale, già insieme presenti alla mente del reo nella loro specificità, almeno a grandi linee, che è situazione ben diversa da una mera inclinazione a reiterare violazioni della stessa specie, anche se dovuta a un bisogno persistente nel tempo, a una scelta di vita o a un programma generico di attività delittuosa da sviluppare in futuro secondo contingenti opportunità, qual è quello che generalmente connota le associazioni per delinquere. Pertanto, la continuazione fra il reato associativo e quelli che vengono posti in essere in attuazione delle finalità perseguite dall’organizzazione criminale è ravvisabile solo quando risulti che l’autore abbia già previsto in origine, al momento della sua adesione al sodalizio, l’”iter” criminoso da percorrere e i singoli delitti attraverso i quali si snoda. Ne consegue che la partecipazione a un’associazione per delinquere non può costituire, di per sé sola, prova dell’identità di disegno criminoso fra i reati commessi per il perseguimento degli scopi dell’associazione.

Cass. Pen., Sez. V, 22 febbraio 1999, n. 949

Il criterio distintivo del delitto di associazione per delinquere rispetto al concorso di persone nel reato (e in specie nel reato continuato) consiste essenzialmente nel carattere dello stesso accordo criminoso; infatti, nel concorso, esso si manifesta in maniera occasionale ed accidentale, in quanto diretto alla commissione di uno o più reati determinati, eventualmente ispirati dal medesimo disegno criminoso, mentre nell’associazione è diretto all’attuazione di un programma criminoso, volto alla commissione di una serie indeterminata di delitti con la permanenza del vincolo associativo tra gli autori, ciascuno dei quali ha consapevolezza di essere associato all’attuazione del programma criminoso, anche indipendentemente dalla commissione dei singoli reati programmati. Appare pertanto astrattamente corretta e, se confortata da adeguata motivazione, incensurabile in sede di legittimità, la decisione del giudice di merito che, assolto un imputato per difetto di dolo dal delitto associativo (ritenendo il suo ruolo circoscritto al solo gioco di azzardo), abbia poi disposto la confisca di somma di danaro che lo stesso deteneva, in quanto provento di attività illecita, riferibile all’associazione suddetta.

Legislazione correlata

Codice Penale, artt. 110, 416-bis.

SVOLGIMENTO

Il principio di personalità in ambito penale viene analizzato alla luce dell’interpretazione datane dalla Corte Costituzionale nella storica sentenza n. 364/1988 nella quale si è espressis verbis affermato, tra l’altro, che può parlarsi di responsabilità penale solo per fatto proprio (art. 27, co. 1, Cost.) mentre alla pena è attribuita una funzione rieducativa (art. 27, co. 3, Cost.), nella misura in cui questa postula almeno la colpa dell’agente in relazione agli elementi più significativi della fattispecie tipica, perché, ove anche questa mancasse, s’incorrerebbe nella violazione dell’art. 27, co. 1, Cost., nella parte relativa al rapporto psichico tra soggetto e fatto.

La Corte Costituzionale ha, inoltre, precisato che è in relazione al complessivo risultato vietato che va posto il problema della violazione delle regole preventive che, appunto in quanto collegate al medesimo, consentono di riscontrare nell’agente la colpa per il fatto realizzato.

Nella successiva sentenza n. 1085/1988 la Corte ha ribadito i principi già enunciati nella precedente decisione. Sviluppando le argomentazioni poste a fondamento di quella pronuncia, ha affermato che “perché l’art. 27, co. 1, Cost. sia pienamente rispettato e la responsabilità penale sia autenticamente personale, è indispensabile che tutti e ciascuno degli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano soggettivamente collegati all’agente (siano, cioè, investiti dal dolo o dalla colpa), ed è altresì indispensabile che tutti e ciascuno dei predetti elementi siano allo stesso agente rimproverabili (…); soltanto gli elementi estranei alla materia del divieto si sottraggono alla regola della rimproverabilità ex art. 27, co. 1, Cost.”.

Alla luce dell’insegnamento della Corte Costituzionale, potranno essere ammesse ipotesi di responsabilità oggettiva spuria o impropria, nelle quali un solo, magari accidentale, elemento del fatto, a differenza di altri elementi, non è coperto dal dolo o dalla colpa dell’agente, ma non sarà certamente ammissibile una responsabilità oggettiva, fondata sull’esistenza di un mero nesso di causalità tra condotta ed evento, con riferimento agli elementi altamente significativi e caratterizzanti della fattispecie, che obbligatoriamente devono essere coperti dal dolo o dalla colpa dell’agente.

La dottrina, sempre più attenta alla salvaguardia del principio di personalità in materia penale, denuncia ormai da tempo una certa tendenza giurisprudenziale ad ipotizzare nell’ambito della responsabilità concorsuale forme di responsabilità oggettiva sotto forma di responsabilità da posizione. Infatti, l’indeterminatezza della disciplina dettata dall’art. 110 c.p. presta il fianco ad interpretazioni poco rispettose del sintagma costituzionale.

Da questo punto di vista, il primo profilo significativo che emerge dall’incontro tra la vastità e l’ampiezza della definizione del concorso di persone nel reato e le singole fattispecie incriminatrici, è destinato a presentarsi sotto le vesti di una tematica a tutt’oggi notevolmente dibattuta: quella, cioè, della partecipazione da parte dei membri di un’associazione delittuosa alla commissione dei singoli reati-scopo programmati all’interno della stessa associazione. In questo campo, la latitudine descrittiva dell’art. 110 c.p. diventa estremamente pericolosa, perché già lo stesso concetto di “associazione” criminale, così come risulta indicato dalle varie fattispecie, si rivela una nozione eccessivamente generica: non esistono, infatti, disposizioni che espressamente chiariscano a quali condizioni dovrebbe potersi riscontrare la presenza di un simile fenomeno.

Ne nasce un connubio perverso, che si sostanzia nell’affermazione automatica di una responsabilità dei membri dell’associazione per tutti i reati commessi in esecuzione del relativo programma criminoso. Poiché chiunque “concorre” con altri è punito e poiché associarsi non sarebbe niente di diverso, in buona sostanza, dall’unirsi con altri per il perseguimento di uno scopo delittuoso, tutti coloro che si uniscano per uno scopo potranno essere considerati concorrenti nella sua realizzazione.

Dunque, si assiste ad una sorta di “sinergia”, per così dire, tra due modelli vaghi, indeterminati, che non presentano connotazioni descrittive univoche, e che sono destinati, per ciò stesso, ad “interferire” inevitabilmente tra loro.

Nella giurisprudenza quest’aspetto sinergico si è rivelato in una serie di vicende, sotto la spinta dell’emergenza terroristica: un nutrito gruppo di decisioni, specialmente dei giudici di merito, si è spinto fino a ritenere che ai dirigenti, o agli organizzatori delle associazioni terroristiche, dovessero essere addebitati, ipso jure, tutti i reati commessi dai membri dell’organizzazione di appartenenza. Mentre si è generalmente propensi a ritenere che si possa rispondere soltanto in presenza di un’attività causalmente rilevante rispetto ad un determinato reato e con l’intenzione di provocare questo reato, nell’esperienza del terrorismo si è manifestata una tendenza ispirata ad un’ottica repressiva di segno esattamente opposto.

Il fatto stesso di ricoprire un ruolo al vertice dell’organizzazione apporterebbe, di per sé, un contributo causale alla commissione del reato. Sul piano soggettivo, poi, simili condotte associative denoterebbero, secondo una parte della giurisprudenza, una “visione completa” del disegno eversivo e, dunque, necessariamente, la previsione (e la conseguente accettazione) degli ulteriori sviluppi del programma dell’associazione. Quindi, il fatto stesso dell’assunzione da parte di determinati soggetti del ruolo di dirigenti l’organizzazione farebbe sì che costoro abbiano necessariamente concorso in qualsiasi reato realizzato nell’interesse dell’associazione criminale. Ad es., se alcuni associati abbiano intrapreso l’iniziativa di commettere delle rapine per finanziare l’organizzazione, i soggetti in questione dovrebbero in ogni caso essere chiamati a rispondere (anche) di tali reati: si tratterebbe, infatti, pur sempre di un’attività funzionale rispetto allo sviluppo del programma criminoso. Viene ad introdursi, in tal modo, una sorta di nesso di “correlazione necessaria”, in virtù della quale i capi, i dirigenti, gli organizzatori dell’associazione delittuosa dovrebbero essere automaticamente assoggettati alle conseguenze penali derivanti dalla commissione dei reati-scopo.

In dottrina, una soluzione così estensiva, che contrasta con il buon senso, con la logica e, prima di tutto, con le garanzie fondamentali dell’ordinamento penale ed, in particolare, con quella sottesa al principio di colpevolezza quale si desume dalla solenne proclamazione della “personalità della responsabilità penale” di cui all’art. 27, co. 1, Cost. è stata stigmatizzata in maniera piuttosto pesante. Si è detto che quest’opinione, in realtà, non terrebbe conto del principio secondo il quale, data la commissione di un determinato reato, quanto meno sotto il profilo psicologico della partecipazione è necessario dimostrare che il concorrente abbia voluto contribuire proprio alla realizzazione di quel reato; da un punto di vista causale, anche la predisposizione, in via del tutto generica, delle direttive programmatiche destinate a regolare l’attività dell’associazione potrà ritenersi efficace; ma bisognerà anche accertare se il soggetto che (in qualità di capo o di organizzatore) ha collaborato all’individuazione di tale generico programma, ne abbia poi percepito una “progressione” ed uno sviluppo destinato a sfociare nella realizzazione del singolo reato (o gruppo di reati). Sul piano psicologico, non basta il mero fatto di causare, ma occorre che questa causazione s’indirizzi verso un fine specifico: non si può volere il delitto, si può volere soltanto un determinato reato o un determinato gruppo di reati.

Quindi, è necessario che sul piano soggettivo s’introduca una limitazione. E una limitazione soggettiva farebbe sì che, in qualche misura, venga a riequilibrarsi quell’ampiezza oggettiva.

Quest’affermazione, che, considerata sotto il profilo puramente psicologico, appare senza dubbio condivisibile, è destinata tuttavia a rivelarsi concretamente inefficace.

Sarà sufficiente, infatti, che l’agente (l’organizzatore, il capo dell’associazione) abbia percepito, sia pur genericamente, di essere in qualche modo di “stimolo” per la realizzazione di un’attività ad opera di terze persone; questa percezione soggettiva generica sarà sufficiente, essendosi già ritenuta sufficiente l’esistenza oggettiva di un, sia pur remoto, antecedente causale dell’evento.

In effetti, la giurisprudenza, proprio quando si occupa della questione relativa all’individuazione del contributo causale nel concorso di persone nel reato, propone delle formule estremamente vaghe: non sarebbe necessaria una condicio sine qua non dell’evento, ma sarebbe invece sufficiente anche un contributo agevolatore, anche un contributo di rafforzamento del proposito criminoso, anche un contributo idoneo soltanto ex ante a favorire lo sviluppo d’iniziative delinquenziali.

Sono evidenti le conseguenze di un simile orientamento quando esso venga “calato” nella particolare prospettiva del concorso di persone rispetto ai reati-scopo. Già la stessa condotta associativa presenta una fisionomia sul piano descrittivo non compiutamente definita; niente potrà escludere, allora, che essa si presti a svolgere il ruolo di un elemento di “sostegno” dell’ampiezza, anch’essa indefinita, della responsabilità concorsuale. Ampiezza che, come si coglie sul piano oggettivo, così si coglierà su quello soggettivo. Ragion per cui, inevitabilmente, chi si associa risponderà dei reati-scopo.

Per la verità, la stessa giurisprudenza, con una serie di sentenze successive, ha cercato di ripristinare un’ottica di carattere maggiormente “garantistico”. Si è detto, ad es., nel contesto di alcune vicende giudiziarie per fatti di terrorismo, ed anche in alcuni processi di mafia, che non è possibile rispondere, per il solo fatto di essere associati, in relazione a qualsiasi delitto-scopo; ma che si può invece rispondere soltanto di quei reati che il soggetto agente abbia voluto, specificamente, concorrere a realizzare. E tuttavia, una soluzione del genere si situa, a ben guardare, in un’ottica che appare lontana dall’attuale sistema normativo, poiché questo, come si è avuto modo di constatare, lascia aperte delle maglie repressive pur sempre ampie ed indeterminate. In altri termini, un simile approccio segna già un recupero di fondamentali istanze di garanzia, lontane però dall’amplissima definizione del concorso che, a tutt’oggi, il nostro codice penale espressamente accoglie.

Questo, invero, è quanto sembra essere accaduto nell’ambito della responsabilità concorsuale dei rappresentanti della “cupola” mafiosa; in essa si tende, per l’appunto, ad affermare la responsabilità dei componenti di un simile organismo, per tutti gli omicidi c.d. “eccellenti”, in base al presupposto di un loro collegamento con gli interessi dell’intero gruppo criminale. Il percorso argomentativo prescelto dalla Cassazione per giustificare una siffatta responsabilità si muove, in particolare, lungo la seguente direttrice. Data la particolare importanza di simili delitti, non è possibile escludere la sussistenza di un concorso “morale” in capo a coloro che fossero, per così dire, “investiti” del compito di manifestare il proprio assenso alle attività rivolte a realizzarli. Da questo punto di vista, non vi sarebbe bisogno di dimostrare un consenso “esplicito”, essendo sufficiente anche un “consenso tacito”, nella misura in cui i membri collocati al vertice della struttura organizzativa non abbiano impedito eventuali iniziative criminose ad opera di altri componenti l’associazione. Si afferma, in sostanza, che, trattandosi di delitti che si situano nelle strategie di vertice dell’organizzazione, questi non potrebbero venir decisi se non da parte di tutti i soggetti chiamati a ricoprire una posizione di “preminenza” all’interno del sodalizio mafioso.

Un simile consenso, tuttavia, più che presentarsi in forma “tacita” (il che presupporrebbe in ogni caso una manifestazione di volontà, sia pure per facta concludentia, come tale concretamente accertata e verificata) rischia, in realtà, di apparire come il frutto di una valutazione fondata sulla mera “presunzione” della sua esistenza. Secondo la Cassazione, in effetti, trattandosi di un delitto bisogna accreditare, ipso facto, “l’ipotesi” di una decisione “collegiale” a monte di esso. Si aggiunge che il consenso contiene necessariamente gli elementi del dolo e dell’efficienza causale rispetto all’evento che viene realizzato, salva la prova contraria e concreta dell’inesistenza di un nesso causale per l’inefficacia del rafforzamento rispetto all’altrui volontà. In definitiva, la responsabilità discende dall’appartenenza ad un certo organismo e può essere esclusa solo ove si dimostri che il soggetto si è opposto, che ha fatto in modo che il delitto non venisse perseguito, che non l’ha dunque “voluto”.

In questo tipo di approccio si scorge il ritorno alle precedenti soluzioni, sia pure sotto mentite spoglie. L’idea che la partecipazione psichica, l’istigazione, possa ricomprendere una gamma di fenomeni potenzialmente indefinita (rafforzamento del proposito; sostegno psicologico; implicita condivisione o assenso; creazione di un atteggiamento di maggior “disponibilità” al reato; accettazione e “ratifica”del proposito delittuoso, per il fatto stesso di ricoprire una certa posizione) rappresenta, ancora una volta, il sintomo di una totale “erosione” dei confini della responsabilità concorsuale, almeno laddove s’intenda ricostruire quest’ultima secondo parametri di razionalità, e non già sulla base di moduli repressivi arbitrari (purtroppo, consentiti dalla vigente disciplina), artificiosamente strumentalizzati per finalità di natura probatoria.

La garanzia costituzionale espressa dall’art. 27, co. 1, Cost. imporrebbe la ricerca e la condivisione di un metodo di valutazione che rifugga da inaccettabili semplificazioni probatorie e da attribuzioni di responsabilità da status. A tal proposito si osserva, infatti, che l’adesione da parte del singolo associato al generico programma di operatività dell’associazione non può, di per sé, essere valorizzata (anche per i soggetti dirigenti) quale forma di necessario concorso (anche sul piano morale) nella realizzazione dei singoli episodi delittuosi in cui verrà a manifestarsi l’azione concreta dell’associazione. Risulterebbe, infatti, evidente che nell’aderire all’associazione il singolo soggetto incluso esprime una condivisione del programma di massima del gruppo (ad esempio assicurarsi il controllo di una parte del territorio, sottoporre a contribuzione coatta le imprese che risulteranno operanti in quella zona, imporre alle pubbliche amministrazioni l’assegnazione di appalti a soggetti vicini al gruppo), e che ciò viene operato non tanto a fini di astratta vicinanza ideologica a simili metodi di utilizzo della violenza, quanto al fine di operare (quantomeno) uno scambio tra la disponibilità della propria capacità operativa (soggetto che si propone quale esattore, accompagnatore, killer, contabile) e la ripartizione delle risorse economiche (lo stipendio) e di potere che andranno a formarsi in capo al clan, ma è altrettanto innegabile che il mero accordo d’inclusione viene operato su un piano di progettualità del tutto generica, che non consente l’individuazione delle singole condotte di aggressione ai beni o soggetti. Di qui, la ritenuta impossibilità di far scattare meccanismi di coinvolgimento concorsuale generalizzato nei singoli delitti poi realizzati, e ciò anche in ragione della necessità d’individuare, caso per caso, gli autori delle scelte concrete, sia sul piano della loro programmazione (l’ampiezza dell’associazione e la mutevolezza degli organismi di vertice spesso inducono a ritenere variabili gli stessi contesti soggettivi di dirigenza) che su quello della realizzazione effettiva (posto che anche qui sarebbe irragionevole attribuire all’intera manovalanza del gruppo le condotte poste in essere da un ristretto numero di esecutori o agevolatori, di volta in volta incaricati).

Assodata l’opportunità di individuare e valutare, in rapporto ad ogni azione delittuosa contestata, gli elementi di conoscenza idonei a dimostrare, o meno, il coinvolgimento dei singoli soggetti imputati, sia sotto l’aspetto della scelta strategica sottostante (e dunque dell’attivazione deliberativa della serie causale che ha determinato in concreto l’evento) che delle varie forme di apporto con carattere realizzativo, prescindendo dal dato comune dell’appartenenza al medesimo contesto associativo (dato valorizzabile, al più, come indizio e come contenitore degli elementi a maggiore connotazione specifica), la giurisprudenza si pone il problema di determinare quali debbano essere i presupposti di ordine oggettivo necessari alla configurabilità di una partecipazione rilevante ex art. 110 c.p. D’altra parte, appare evidente che la formula codicistica secondo la quale “quando più persone concorrono alla commissione di un reato ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita” lasci all’interprete ampi margini di discrezionalità circa il criterio da utilizzare per ascrivere l’evento collettivamente realizzato al comportamento tenuto da ciascuno dei concorrenti. Semplificando al massimo la questione, può assumersi che, dall’esame della giurisprudenza sul concorso morale, emergono almeno due orientamenti. Il primo, che si accontenta della prestazione di un contributo che, ad una valutazione ex ante ed in concreto (secondo il criterio della c.d. prognosi postuma), appaia semplicemente idoneo ad incrementare il rischio della verificazione dell’illecito.

Il secondo, adottato nelle più recenti pronunce delle S.U., che si sostanzia invece nell’opportunità di verificare ex post se la condotta dell’agente sia stata realmente causale rispetto alla commissione del reato, sia pure nei termini dell’agevolazione o del rafforzamento del proposito criminoso nutrito dagli altri compartecipi.

Tale ultima soluzione sembrerebbe in linea con quanto sostenuto dalla dottrina dominante sul fatto che l’impiego di criteri di carattere prognostico:

a)  ‑‑con riferimento al principio di legalità, condurrebbe ad un’indebita trasformazione di fattispecie che il legislatore ha configurato come reati di danno in altrettanti reati di pericolo;

b)  ‑‑in relazione ai principi di materialità ed offensività, contrasterebbe con la pacifica irrilevanza del c.d. tentativo di partecipazione, desumibile dall’art. 115 c.p.;

c)   ‑‑rispetto allo stesso principio della responsabilità per fatto proprio, permetterebbe di imputare all’agente la verificazione dell’evento pur in assenza della dimostrazione che lo stesso non sia stato cagionato dal caso ovvero dall’attività di terzi.

La tesi più rigorosa, riconoscendo come pacifico approdo della giurisprudenza di legittimità il fatto che in base alla concezione unitaria del concorso di persone nel reato, l’attività costitutiva del concorso può essere rappresentata da qualsiasi comportamento esteriore che fornisca un apprezzabile contributo, in tutte o alcune delle sue fasi, alla realizzazione collettiva, anche soltanto mediante il rafforzamento dell’altrui proposito criminoso o l’agevolazione dell’opera degli altri concorrenti e che, pertanto, non sarebbe necessario che la condotta del concorrente sia stata condicio sine qua non dell’evento, essendo sufficiente che il soggetto abbia apportato un contributo idoneo a favorire potenzialmente, a rendere più probabile l’evento; ciò che esclude la necessità di accertare se l’evento si sarebbe ugualmente verificato senza l’apporto di quel concorrente.

Il criterio della prognosi postuma viene applicato in maniera abbastanza coerente: la rilevanza del comportamento tenuto dai capi dell’associazione in relazione ai singoli omicidi contestati viene ricollegata, infatti, al carattere più o meno vincolante del mandato, dell’autorizzazione o del consenso prestati. I casi più semplici sono costituiti, ovviamente, da quelli in cui è possibile raggiungere la prova della partecipazione dell’imputato alla c.d. fase deliberativa del delitto, quelli meno chiari le fattispecie nelle quali il concorso viene desunto per facta concludentia, cioè dalla semplice presenza e dallo svolgimento di compiti marginali durante la sua esecuzione o dai legami sussistenti con gli autori materiali del fatto.

Ma il teorema funziona anche in bonam partem, conducendo i giudici ad escludere la responsabilità degli imputati a fronte della dimostrazione del carattere prevalentemente personale dell’iniziativa, dell’autonoma capacità operativa degli esecutori o sulla base della regola d’esperienza (per esempio l’eliminazione di un giovane spacciatore extracomunitario non può considerarsi azione di elevata delicatezza strategica tale da richiedere una particolare attività deliberativa e preparatoria).

Occorrerebbe escludere che atteggiamenti di tolleranza od acquiescenza rispetto all’altrui proposito criminoso possano integrare gli estremi di un concorso mediante omissione (ex artt. 40 e 110 c.p.). Il punto dovrebbe ritenersi fuori discussione, considerata almeno la pacifica inesistenza di un obbligo giuridico, gravante sui capi o sui dirigenti di un’organizzazione illecita, di impedire la commissione di reati da parte di altri membri del sodalizio (c.d. principio di autoresponsabilità).

Il problema sorge nel momento in cui si sostiene che i medesimi comportamenti sarebbero in grado di integrare gli estremi di una partecipazione di carattere psicologico, qualora si dimostri che abbiano comunque contribuito a rafforzare il proposito criminoso degli autori materiali del reato. È, infatti, proprio sulla base di una simile impostazione che la giurisprudenza, avvalendosi della distinzione tra connivenza non punibile ed inerzia espressiva di un’effettiva adesione al delitto, è pervenuta ad attribuire rilevanza alla figura del c.d. consenso tacito, definito come approvazione, sia pure non manifestata espressamente ma chiaramente percepibile, di un’iniziativa altrui, da parte di chi, per compito autoassegnatosi, esercita il potere di esaminarla e di deliberarne il contenuto rispetto agli interessi rappresentati, oppure d’interdirne eventualmente l’attuazione, anche con l’imposizione di sanzioni in caso di disobbedienza.

La tematica è stata, successivamente, approfondita affermando che il consenso tacito dovrebbe estrinsecarsi in comportamenti dai quali possa dedursi con certezza che il componente della associazione informato della deliberazione, anche se non abbia espresso formalmente la propria opinione, abbia fatto comprendere di essere favorevole all’approvazione della proposta, o, comunque, che non vi si sarebbe opposto, non essendo sufficiente ad integrare gli estremi di una responsabilità concorsuale il semplice silenzio del soggetto che non abbia partecipato alla riunione, salvo che risulti specificamente provata l’esistenza di un obbligo di manifestare l’opinione dissenziente, in forza della quale l’inerzia del capo rappresenti la manifestazione di un parere favorevole all’omicidio. Il richiamo alla figura del consenso tacito sarebbe inconferente nella fattispecie la cui realizzazione pacificamente non abbia costituito oggetto di una deliberazione autorizzatoria, o comunque non interdittiva; ed opererebbe in termini non coerenti con un’attenta lettura delle linee di sviluppo dottrinale e giurisprudenziale, dirette a raccordare le peculiari regole interne di appartenenza all’organo centrale di Cosa Nostra, di funzionamento dello stesso e di formazione del relativo impulso decisionale all’omicidio eccellente, con il principio costituzionale di personalità della responsabilità penale e con i criteri del ragionamento probatorio sul concorso di persone nel reato.

Innanzitutto, si conferma l’astratta validità della massima di esperienza secondo la quale, nei contesti associativi, non sarebbe possibile commettere un omicidio eccellente senza che vi sia stato l’assenso dei capi. La questione, con particolare riferimento alle organizzazioni di tipo camorristico, si riduce quindi alla necessità di capire, volta per volta, quali soggetti fossero effettivamente in grado di definire ed attuare le principali scelte strategiche del gruppo. In secondo luogo, risulta palese che la punibilità del rafforzamento psichico mediante omissione contrasti con l’accoglimento di una concezione unitaria del concorso, alla quale gli stessi giudici di merito avevano dichiarato in precedenza di aderire. Ed infatti, se si ammette che tutti coloro che partecipano alla commissione di un reato ne devono essere considerati autori, risulta assai difficile configurare una responsabilità omissiva, o meglio, convertire una fattispecie naturalisticamente omissiva in commissiva, senza ricorrere alla clausola di equivalenza prevista dall’art. 40 c.p. Se davvero si volesse attribuire un qualche significato agli atteggiamenti di mera acquiescenza o di mancata opposizione occorrerebbe riconoscere che il disvalore insito nella condotta tenuta dal concorrente corrisponda a quello dell’istigazione e non certo a quello del mandato, che rappresenta invece una forma classica di determinazione. Risulta, infatti, pacifico che mentre nel primo caso l’agente si limita a rafforzare l’intento criminoso nutrito dagli altri compartecipi, nel secondo determina un proposito prima inesistente.

Decisamente più coerente con l’opportunità di valorizzare il principio di personalità della responsabilità penale si rivela, invece, l’opinione espressa circa l’applicabilità della continuazione tra il reato associativo ed i singoli omicidi contestati. La questione si rivela di grande importanza considerato che la Corte di Cassazione aveva inizialmente ritenuto di escludere una simile possibilità, adducendo la sussistenza di un’incompatibilità ontologica tra l’accordo relativo alla commissione di una serie indeterminata di delitti ed il requisito del medesimo disegno criminoso, legato alla rappresentazione anticipata, nei loro elementi essenziali, degli illeciti da realizzare.

Sebbene l’orientamento sia stato, successivamente, superato a favore di una valutazione di tipo casistico, la prevalente giurisprudenza continua ad esigere che il delitto sia stato ideato e singolarmente programmato già all’atto della costituzione dell’associazione, non essendo affatto sufficiente che lo stesso rientri, tipologicamente, nel programma del sodalizio. La conseguenza che in genere se ne trae consiste nell’affermazione secondo cui la partecipazione ad un’organizzazione criminale non sarebbe in grado di costituire, di per sé sola, prova dell’unicità di disegno criminoso fra i reati commessi per il perseguimento degli scopi dell’associazione.

Nel recepire tale ultimo orientamento, si precisa, tuttavia, che l’esigenza di scindere l’accertamento del c.d. programma associativo da quello relativo alla sussistenza dei presupposti di cui all’art. 81, co. 2, c.p., è figlia di un’ineludibile opzione garantistica, posto che se l’adesione all’associazione comporta un momento di concreta rappresentazione e volizione di tutti gli episodi criminosi oggetto del programma ne deriverebbe una inevitabile dilatazione della responsabilità concorsuale, riconoscibile in capo a tutti gli associati per tutti i delitti-scopo realizzati in costanza di rapporto associativo. Piaccia o meno, tale è l’effetto della regola che pone come necessario, al fine dell’attribuzione di responsabilità individuale, un momento di verifica probatoria di tipo soggettivo, né può negarsi tale fondamentale opzione di metodo al solo fine di contenere gli effetti sanzionatori dell’eventuale raggiungimento della prova su singoli episodi delittuosi.

Ci si propone, pertanto, l’individuazione di talune serie di eventi delittuosi specifici che, per le loro modalità, la loro genesi e gli obiettivi strategici sottostanti, siano concretamente espressivi di un momento progettuale unitario e sufficientemente determinato, sì da consentire l’applicazione del trattamento sanzionatorio previsto per il reato continuato.

Ispirato al principio del favor rei, l’istituto della continuazione nel reato, previsto dal secondo comma dell’art. 81 c.p., comporta che chi, anche in tempi diversi, commetta più reati, attraverso più azioni ovvero omissioni, in esecuzione di un unico disegno criminoso, non soggiaccia alla pena stabilita per ciascun reato, bensì a quella stabilita per il reato più grave, aumentata sino al triplo. L’elemento oggettivo è costituito da una serie di reati, avvinti però dal vincolo della continuazione in virtù dell’elemento soggettivo, rappresentato dalla combinazione dell’elemento volitivo (la pluralità di determinazioni) e dell’unicità del disegno criminoso. In questo caso, il legislatore ha dunque scelto il cumulo giuridico, in contrapposizione al cumulo materiale.

Come ricordato in una pronuncia delle Sezioni Unite del 2009, il reato continuato è una particolare figura di concorso di reati. Esiste però una differenza rispetto al concorso formale, disciplinato dal primo comma dello stesso articolo. Nel concorso formale l’azione è unica, mentre nel reato continuato unico è il disegno criminoso. L’art. 81 c.p. ammette che la commissione dei reati possa avvenire “anche in tempi diversi”. La giurisprudenza più risalente aveva dato un’interpretazione restrittiva di tal espressione. Il decorso del tempo, infatti, poteva ragionevolmente far supporre che la determinazione fosse venuta meno e successivamente si fosse riaccesa. L’opposta teoria argomentava invece nel senso che non si potesse escludere la continuazione sulla base di una semplice supposizione. La giurisprudenza si è infine assestata su una posizione intermedia. Il decorso anche considerevole del tempo non esclude di per sé la continuazione. Tuttavia, quanto più esso si dilati, tanto più è probabile la riemersione del conflitto fra opposti motivi, che necessiti di essere superato attraverso una nuova deliberazione criminosa, interruttiva dell’unicità originaria del disegno criminoso. Tanto più penetrante sarà dunque l’onere di allegazione. In linea di principio, però, anche la circostanza che la nuova fattispecie da giudicare sia commessa dopo una condanna per altro reato non impedisce il riconoscimento del vincolo di continuazione. La cosa non è stata, invero, sempre pacifica, tanto che sul punto si sono pronunciate S.U. Secondo l’indirizzo più risalente, infatti, la condanna costituiva un evento processuale importante, tale da provocare un ripensamento nel reo. Un successivo reato, dunque, doveva necessariamente esser frutto di una nuova determinazione criminosa. Con la pronuncia del Giudice Nomofilattico, però, tali perplessità sono state superate.

La continuazione, inizialmente ammessa solo per reati dello stesso tipo, è stata nel ‘74 estesa a reati di tipo diverso.

Da un lato, gli interpreti si sono interrogati sull’effettiva compatibilità del reato continuato con riferimento al rapporto fra reato associativo e reati fine. Dall’altro, ci si è chiesti se sia ipotizzabile la continuazione con riferimento all’appartenenza a più associazioni a delinquere. È chiaro che sia il fondamento che la natura giuridica della continuazione rivestono un ruolo importante nella risoluzione del quesito. La circostanza che il reato continuato trovi il suo fondamento nel principio del favor rei, riveste senza dubbio grande pregnanza quando si tratta di stabilire la reale portata del reato continuato. D’altronde, però, la natura giuridica del reato continuato (unicità o scissione) influisce sulla questione. Chi sostiene la tesi dell’unicità, tende più facilmente a ravvisare un’incompatibilità strutturale fra il reato continuato e il reato associativo. Il reato continuato sarebbe, infatti, un reato unico, appunto perché sorretto dall’unicità del disegno criminoso, che condurrebbe l’agente a predeterminare la commissione dei singoli reati. Viceversa, si argomenta che dal tenore testuale delle norme sul reato associativo traspare un’indeterminatezza dei singoli reati-fine, che non sono prestabiliti ab initio. Di qui la supposta incompatibilità strutturale che chi sposa il principio di unicità è più incline a riconoscere. Viceversa, chi abbraccia la teoria della scissione, tende più facilmente ad ammettere la continuità verticale ovvero fra reato associativo e singoli reati-scopo. Infine, si registrano alcune pronunce della giurisprudenza di legittimità che, pur non prendendo esplicitamente posizione in merito alla natura giuridica del reato continuato, ritengono comunque sussistente la predetta incompatibilità strutturale, appunto per la supposta indeterminatezza dei reati-fine. Reati fine che oltretutto, in quanto tali, sono avvinti da un nesso teleologico. Non a caso, l’aggravante del nesso teleologico è stata per molto tempo ritenuta incompatibile con la continuazione.

Peraltro, secondo alcuni il principio del favor rei dovrebbe spingere verso la più ampia applicazione possibile della continuazione. L’argomento testuale dell’indeterminatezza dei reati-scopo proverebbe troppo. La continuazione sarebbe dunque ammissibile. Infine, secondo una tesi intermedia, pur non essendovi incompatibilità strutturale, occorrerebbe aver riguardo al criterio della determinatezza. In altre parole, in tanto è configurabile la continuazione, in quanto i singoli reati-scopo siano sufficientemente determinati al momento della costituzione dell’associazione a delinquere, ovvero dell’affiliazione del reo.

Secondo il recente insegnamento delle S.U. del 2009, il reato continuato va considerato unitariamente solo per gli effetti espressamente previsti dalla legge. Vi è chi vede in ciò un rifiuto della teoria dell’unicità e dunque una più facile configurabilità del vincolo di continuazione anche con riferimento alla continuità verticale, ovvero fra reato associativo e singoli reati-scopo. Come detto, però, vi è anche chi afferma invece che l’incompatibilità dipenderebbe non dalla struttura del reato continuato, bensì dalla struttura del reato associativo e dunque dall’indeterminatezza dei reati-scopo.

Preliminarmente, occorre rilevare che in giurisprudenza si è posto assai più di frequente il problema della compatibilità fra reato associativo e reati scopo. Quello della configurabilità del reato continuato con riferimento a più reati associativi è stato invece affrontato meno sovente.

Con riguardo alla compatibilità fra reato associativo e reati-fine, le pronunce più risalenti tendevano a escludere la continuazione, soprattutto in virtù della supposta incompatibilità strutturale.

Verso la fine degli anni ottanta, cominciarono però a registrarsi le prime pronunce della Cassazione che non escludevano a priori la continuazione, ma sposavano il criterio della determinatezza. Quest’orientamento è poi divenuto maggioritario. L’adesione al criterio della determinatezza si è però variamente articolata in giurisprudenza. Secondo alcune pronunce, i reati dovrebbero essere stati semplicemente “programmati”. Viceversa, secondo altre sentenze, più risalenti, occorrerebbe che i singoli reati siano stati dettagliatamente predeterminati. È chiaro, dunque, che esiste una linea di tendenza generale nel senso dell’adesione al criterio della determinatezza, le cui sfumature vengono però variamente interpretate dalla giurisprudenza, tanto che è difficile identificare una posizione univoca.

Parte della dottrina ha altresì affermato che sarebbe sufficiente una programmazione generica accompagnata da unità di scopo, laddove sia rintracciabile nel reato fine l’attuazione del medesimo disegno criminoso che ha animato la costituzione dell’associazione. In altre parole, basterebbe la creazione di una struttura organizzativa per commettere una serie definita o indefinita di reati, purchè ab origine riconducibili a unità, come avviene per i reati aventi la stessa indole o identiche modalità esecutive. Un minoritario orientamento di merito aveva in passato sostenuto la continuazione anche a prescindere dalla riconducibilità dei reati fine in un originario programma criminoso. Stante la natura permanente del delitto associativo, tale programma non andrebbe visto solo nel momento genetico dell’associazione ma nel suo evolversi. L’associato, infatti, nel commettere il delitto fine, si propone l’attività delittuosa esclusivamente nel quadro dell’attività propria dell’associazione, alla quale intende contribuire. Una volta accertata la continuazione orizzontale, cioè quella fra i singoli reati scopo, sarebbe possibile affermare anche quella verticale, ovvero fra reato associativo e reati scopo.

Come detto, tale indirizzo è rimasto però minoritario. Tanto che la Cassazione, in due recenti occasioni, in particolare nel 2002 e nel 2005, non ha mancato di precisare che non esiste invece alcun automatismo fra reato associativo e continuazione, che deve quindi essere accertata da parte del giudice di merito. Si è pertanto affermato che ben può sussistere continuità orizzontale, ovvero continuità fra i singoli reati scopo, senza che tuttavia tale continuità abbracci anche il reato mezzo, ossia la costituzione della societas sceleris ovvero l’affiliazione del singolo associato. La pronuncia del 2002 ha in particolare ribadito che, ai fini della continuazione, non è sufficiente che i reati-fine rientrino nel generico programma criminoso perseguito dall’associazione. È altresì necessario provare che siano stati progettati almeno nelle linee essenziali fin dal momento della costituzione del sodalizio, con definizione di tempi e modalità operative.

In altra sentenza la Suprema Corte aveva distinto il concorso di persone nel reato continuato dal reato associativo. In particolare, mentre il concorso di persone nel reato continuato comporta un unico disegno criminoso predeterminato e temporalmente delimitato, l’associazione a delinquere è una fattispecie necessariamente plurisoggettiva priva di tale determinatezza. Ancora una volta, dunque, il principio della determinatezza viene utilizzato quale criterio discretivo. Ma vi è di più. Nel concorso di persone nel reato continuato non vi è un nesso teleologico fra i reati-fine, che non sono, infatti, tali. Nel delitto di associazione a delinquere, invece, i reati-scopo servono a rafforzare l’associazione.

Per quanto riguarda invece l’ammissibilità della continuazione con riferimento all’appartenenza a più associazioni a delinquere, in linea di principio essa non viene esclusa dalla giurisprudenza. Essa è ammessa, anzi, anche nel caso di trasformazione di un’associazione a delinquere in un’altra. È il caso, per esempio, della trasformazione di un’associazione a delinquere ex art. 416 in associazione a delinquere ex art. 416-bis: da un lato, ricorre lo scopo di rafforzare l’associazione, dall’altro, quello di creare un clima d’intimidazione e un vincolo di omertà, che caratterizza le associazioni a delinquere di stampo mafioso.

Nel caso di trasformazione di un’associazione a delinquere in un’altra, la Cassazione sostiene però che non può aversi continuazione laddove l’associazione sia stata costituita sulla base di circostanze nuove e imprevedibili al momento della costituzione della societas sceleris. L’imprevedibilità non è, infatti, compatibile con l’unicità del disegno criminoso.

Naturalmente, tale indirizzo viene criticato da chi tuttora esclude la continuazione nel reato associativo. A maggior ragione si ritiene, infatti, inconciliabile con l’unicità del disegno criminoso la continuità fra più reati associativi, stante l’indeterminatezza dei reati-scopo. Tale opinione sembrerebbe però cedere appunto il passo all’ammissibilità della continuazione in entrambi i casi. Più difficile, anche se non impossibile, sarebbe l’ipotizzabilità della continuazione fra associazioni molto diverse fra loro, quali l’associazione a delinquere, da un lato, e l’associazione sovversiva dall’altro.

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