Tema svolto: il riparto di giurisdizione in materia espropriativa

Traccia: Criteri di riparto della giurisdizione in materia espropriativa
Di Ilaria Bradamante



 

La traccia proposta richiede di soffermarsi sulla tematica del riparto di giurisdizione nello specifico settore delle espropriazioni.

E’ tuttavia opportuno premettere alcune considerazioni sulla giurisdizione e i relativi criteri di riparto.

Storicamente, la tematica del riparto di giurisdizione emerge all’indomani dell’istituzione, con legge 5992/1889, della IV Sezione del Consiglio di Stato, dotata di funzioni giurisdizionali e non più solo consultive. Tale intervento segna l’abbandono del sistema della giurisdizione unica del giudice ordinario che era proprio della L.A.C (legge 2248/1865), in cui il giudice ordinario conosceva le materie concernenti diritti civili e politici, anche laddove fosse coinvolta una Pubblica Amministrazione, mentre tutte le altre materie erano attribuite, in via residuale, all’autorità amministrativa. In tale sistema il problema del riparto di giurisdizione non aveva ragione di porsi, venendo, semmai, in rilievo, la diversa questione dell’individuazione di un criterio di attribuzione degli affari tra giudice ordinario e autorità amministrativa. Con l’istituzione della IV Sezione e l’affidamento al Consiglio di Stato di funzioni giurisdizionali, si verifica il passaggio all’attuale sistema della cd. doppia giurisdizione tra giudici ordinari e amministrativi e il problema del riparto di attribuzioni viene sostituito da quello del riparto di giurisdizione.

Quanto al criterio in base al quale effettuare il riparto, a fronte di una prima tesi che ripartiva la giurisdizione in base al tipo di pronuncia richiesta dall’attore (giudice amministrativo per le domande di annullamento – giudice ordinario per le domande di risarcimento), prevalse la diversa tesi della cd. causa petendi che fonda la ripartizione sull’intrinseca natura della posizione vantata dal ricorrente, come qualificata dall’ordinamento e non come da egli prospettata. Questo criterio sostanziale, affermatosi con il cd. concordato giurisdizionale del 1929 tra Cassazione e Consiglio di Stato, è stato poi recepito dalla Costituzione repubblicana all’art. 113. Tale norma ripartisce, appunto, la tutela giurisdizionale avverso gli atti della Pubblica amministrazione tra giudice ordinario e giudice amministrativo per la tutela, rispettivamente, di diritti e interessi legittimi. Altri riferimenti normativi che fondano il sistema della doppia giurisdizione sono offerti dall’art. 24 Cost. e art. 103 Cost. che individua nel giudice amministrativo il giudice naturale per la tutela degli interessi legittimi nei confronti del potere pubblico. A livello di legge ordinaria, la norma di riferimento per la giurisdizione è l’art. 7 c.p.a., che devolve al giudice amministrativo le controversie relative agli interessi legittimi e, nelle materie previste dalla legge, anche ai diritti soggettivi, purché collegate all’esercizio di un potere autoritativo da parte della P.A.

Una volta assodato, alla luce dei citati riferimenti normativi, che la regola di riparto si fonda sulla natura della posizione giuridica azionata, diventa necessario individuare un criterio in base al quale distinguere tra diritti e interessi, che sia il più possibile certo o almeno condiviso. Diverse sono le formule che sono state, a tal fine, proposte nel tempo da dottrina e giurisprudenza. Una prima distingueva tra attività d’imperio (in cui la P.A. agisce in posizione di supremazia, degradando il diritto in interesse e radicando la giurisdizione del g.a.) e attività di gestione (in cui la P.A. è in posizione paritaria rispetto ai privato, agendo all’interno del paradigma diritto – obbligo, così radicando la giurisdizione del g.o.). Una seconda tesi guardava alla natura della norma giuridica violata: se la P.A. agiva in violazione di una cd. norma di azione, che disciplinava il potere ad essa comunque attribuito dalla legge, incideva su un interesse legittimo, per la cui tutela sarebbe stato necessario adire il g.a.; viceversa se ad essere violata era una cd. norma di relazione, relativa al rapporto paritetico con il privato, egli avrebbe dovuto trovare tutela per il proprio diritto violato innanzi al g.o. Una terza impostazione proponeva di distinguere tra attività vincolata – diritto soggettivo – g.o. e attività discrezionale – interesse legittimo – g.a. In senso critico si è tuttavia osservato che la dicotomia attività vincolata – attività discrezionale non sarebbe decisiva ai fini del riparto di giurisdizione (ma rilevante, invece, rispetto alla questione della pregnanza del sindacato del giudice amministrativo), perché all’esercizio di attività vincolata non corrisponde, sempre e comunque, una posizione di diritto soggettivo. Si rileva, infatti, che si è dinnanzi a un diritto solo se il potere vincolato è attribuito ed esercitato dalla P.A. nel perseguimento, in via prioritaria, di un interesse privato. Viceversa, laddove la P.A. miri a realizzare l’interesse pubblico, la posizione del privato non potrà che essere protetta in via mediata, assumendo dunque la consistenza di interesse legittimo. A ulteriore conferma della circostanza che, anche di fronte all’esercizio di potere vincolato, possano sorgere posizioni di interesse attribuite alla cognizione del g.a., si suole richiamare l’art. 21 octies, L. 241/1990, che limita il potere del g.a. di annullare un provvedimento per vizi di forma nel caso in cui, per la natura vincolata dell’attività esercitata, il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso.

Tuttavia, nessuno dei criteri sopracitati è stato ritenuto del tutto soddisfacente da dottrina e giurisprudenza, che hanno, invece, optato per il binomio carenza di potere – cattivo uso del potere. Secondo quest’impostazione, la mancanza di una norma attributiva del potere impedisce che il diritto venga compresso e affievolito in interesse legittimo: il diritto resta tale e fonda la giurisdizione del g.o. Diversamente, nel caso in cui l’Amministrazione sia effettivamente titolare del potere autoritativo, ma lo abbia male esercitato perché abbia agito al di fuori dei presupposti e dei limiti prescritti dalla norma attributiva, il privato sarà titolare di un interesse legittimo azionabile dinanzi al g.a. In definitiva, il criterio da adottare per individuare una posizione di interesse legittimo che radichi la giurisdizione amministrativa è quello del cattivo esercizio, da parte della P.A., di un potere autoritativo. Il potere autoritativo è il potere tipico della Pubblica Amministrazione che agisce in posizione di supremazia rispetto ai privati, ponendo in essere provvedimenti che producono unilateralmente effetti sfavorevoli nella sfera giuridica dei destinatari, in assenza del loro consenso. Peraltro, tale potere non si esplica più soltanto attraverso il tradizionale modulo provvedimentale, ma sempre più attraverso moduli convenzionali (si vedano gli accordi ex art. 11 L. 241/90) e finanche schemi comportamentali. Questa lettura merita però di essere integrata considerando la crescita esponenziale dei settori in cui la P.A. opera attraverso strumenti di diritto privato. Invero, oggi non pare più possibile sostenere che la giurisdizione ordinaria si radichi soltanto quando la P.A. pone in essere un’attività autoritativa in assenza della norma attributiva del relativo potere. Infatti, anche quando l’Amministrazione si pone su un piano di parità rispetto ai privati, agendo secondo il paradigma diritto – obbligo secondo le regole del diritto civile, la giurisdizione amministrativa deve essere esclusa in favore di quella ordinaria, in ragione della consistenza di diritto soggettivo delle posizioni in gioco.

Fatta questa premessa sul riparto e guardando più da vicino la giurisdizione amministrativa, va subito detto che l’art. 7 c.p.a. distingue, in tale ambito, tra giurisdizione generale di legittimità, di merito ed esclusiva. Peraltro, la giurisdizione esclusiva, è altresì contemplata dal legislatore costituzionale, accanto a quella generale di legittimità, all’art. 103 Cost.

Quanto ai criteri di riparto, sia per la giurisdizione di legittimità che per quella di merito, vale il già enunciato criterio della causa petendi, poiché esse si distinguono essenzialmente sotto il diverso profilo dell’ampiezza dei poteri cognitori e decisori del giudice. Nell’esercizio della giurisdizione estesa al merito, infatti, il giudice amministrativo non deve limitarsi alla verifica dell’illegittimità dell’atto e al suo annullamento, ma può sostituirsi all’Amministrazione adottando una pronuncia che, bilanciando gli interessi pubblici e privati in gioco, detti la regola del caso concreto in luogo del provvedimento. La previsione di un potere sostitutivo del giudice costituisce una deroga al principio secondo cui, in ossequio alla separazione dei poteri, l’autorità giurisdizionale non può invadere gli spazi di discrezionalità riservati all’Amministrazione. In quanto deroga a un principio generale, la giurisdizione di merito è ammessa, ai sensi dell’art. 7, comma 6, nelle sole materie indicate dalla legge e dall’art. 134 c.p.a. Tra esse rientrano, ad esempio, il giudizio di ottemperanza, le controversie elettorali in cui vengano in gioco interessi legittimi e quelle sulla contestazione di sanzioni pecuniarie, anche applicate dalle Autorità indipendenti, devolute alla giurisdizione amministrativa.

Nelle materie di giurisdizione esclusiva indicate dalla legge, in cui il g.a. decide sia sui diritti che sugli interessi, il criterio di riparto si atteggia diversamente. Invero, la circostanza che il giudice conosce di entrambe le posizioni giuridiche, impedisce che una loro qualificazione nel senso di diritto o di interesse legittimo possa determinare conseguenze diverse ai fini della giurisdizione. Il criterio di riparto è invece rappresentato dalla materia e dal collegamento con l’esercizio (o il mancato esercizio) del potere amministrativo, in tutte le forme provvedimentali, convenzionali, comportamentali in cui esso può manifestarsi. Le materie attribuite alla giurisdizione esclusiva del g.a. sono elencate nell’art. 133 c.p.a. Scorrendo tale elenco, si nota che si tratta di materie di significativa importanza (tra le altre: contratti pubblici, urbanistica ed edilizia, pubblici servizi, accesso e silenzio amministrativo), che sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del g.a. per ragioni di effettività della tutela. Il g.a. agisce, in tali materie, nella duplice veste di giudice dei diritti e di giudice degli interessi, avendo a propria disposizione gli strumenti dell’uno e dell’altro e potendo così irrogare pressoché ogni forma di tutela per dare piena soddisfazione alla pretesa sostanziale del ricorrente.

Questo excursus sulla giurisdizione, in particolare esclusiva, consente di introdurre la specifica questione del riparto di giurisdizione nel settore espropriativo. Ciò perché quella dell’espropriazione per pubblica utilità è, in effetti, materia devoluta alla giurisdizione esclusiva del g.a. a norma dell’art. 133 lett. g) c.p.a., ad eccezione delle controversie sull’indennità di esproprio devolute alla giurisdizione del g.o.

L’espropriazione è un provvedimento ablatorio con cui l’Amministrazione trasferisce a sé la proprietà di un bene privato, secondo un procedimento tipizzato e dietro corresponsione di un indennizzo. E’ un provvedimento strumentale alla realizzazione della pianificazione urbanistica, necessaria per un ordinato assetto del territorio. Posto, però, che con esso la P.A. priva unilateralmente e definitivamente il privato della titolarità del bene, senza il suo consenso, l’espropriazione ne lede il diritto di proprietà. La proprietà è, come noto, un diritto garantito erga omnes sia dalle Carte internazionali e costituzionali, che dalle fonti interne, ed impone a tutti i consociati di astenersi da ogni comportamento che possa turbare il proprietario nel godimento pieno ed esclusivo del bene. La proprietà, però, non è un diritto inviolabile, ma è anche uno strumento di realizzazione della funzione sociale, nei limiti stabiliti dal legislatore. Invero, per fini di interesse generale l’Amministrazione può procedere all’espropriazione del bene privato, purché ciò sia previsto dalla legge e salvo indennizzo. Vi sono molteplici indicazioni normative che riportano, in termini analoghi, quest’affermazione: art. 1, Prot. 1 Cedu; art. 17 Carta di Nizza (che inserisce la proprietà addirittura tra i diritti fondamentali dell’individuo); art. 42 Cost.; art. 117 Cost. (la materia espropriativa rientra nel “governo del territorio” di legislazione concorrente); artt. 832 e 834 c.c. che rinviano a leggi speciali per la disciplina dell’espropriazione.

Oggi la disciplina dell’espropriazione per pubblica utilità è dettata dal d.P.R. 327/2001 (cd. Testo Unico sulle espropriazioni). In breve, basti ricordare che il legislatore ha previsto che l’espropriazione di beni immobili o dei diritti a essi relativi si svolga, nei soli casi previsti dalla legge, secondo il procedimento tipizzato previsto dal T.U. Tale procedimento prevede la partecipazione degli interessati in varie fasi ed è improntato ai principi di semplificazione, efficacia, efficienza ed economicità dell’azione amministrativa. Sono puntualmente individuati i soggetti coinvolti (espropriato, autorità espropriante, beneficiario, promotore), i beni non espropriabili (il demanio fino alla pronuncia di sdemanializzazione) e i beni espropriabili solo a determinate condizioni (tra gli altri, i beni patrimoniali indisponibili di enti pubblici possono essere espropriati solo per perseguire un interesse maggiore a quello soddisfatto dalla precedente destinazione). Sono altresì puntualmente indicate le fasi del procedimento espropriativo, che sono: a) sottoposizione del bene al vincolo preordinato all’esproprio; b) dichiarazione di pubblica utilità dell’opera; c) determinazione, anche provvisoria, dell’indennità di esproprio; e) emissione del decreto di esproprio.

Venendo ora alle problematiche specifiche inerenti il riparto di giurisdizione, va innanzitutto precisato che il legislatore ha ritenuto opportuno dettare una specifica regola di riparto. Invero, l’art. 53 T.U. e l’art. 133 lett. g) c.p.a., stabiliscono che le controversie sull’attività espropriativa della P.A. concernenti diritti e interessi siano devolute alla giurisdizione esclusiva del g.a., con riserva al g.o. delle controversie sulla determinazione e corresponsione dell’indennità spettante al privato espropriato. La giurisprudenza ha chiarito che tale riserva opera in quanto il giudizio di opposizione alla stima ha per oggetto la quantificazione del debito dell’espropriante e del corrispondente credito dell’espropriato, in applicazione di criteri liquidatori direttamente fissati dalla legge e dunque coinvolgenti questioni di diritto soggettivo. Una questione interessante si è posta circa il riparto di giurisdizione nel caso in cui il ricorrente contesti, allo stesso tempo, l’illegittimità dell’esproprio chiedendo il risarcimento del danno e, in subordine, nel caso in cui l’esproprio sia ritenuto legittimo,  chieda la determinazione dell’indennizzo. Sul punto, la giurisprudenza amministrativa, in applicazione del criterio generale di riparto, ha ritenuto che la prima domanda rientri nella giurisdizione esclusiva del g.a., mentre la seconda nella competenza funzionale della Corte d’Appello. Tuttavia, la Corte di Cassazione ha affermato che la domanda di determinazione dell’indennizzo debba essere attratta alla giurisdizione del g.a., in forza del principio di concentrazione delle tutele. Ciò in applicazione della tesi che ritiene che il principio di effettività, che è principio generale del processo amministrativo a norma dell’art. 1 c.p.a., debba essere realizzato anche attraverso il simultaneus processus davanti a un unico giudice dinanzi al quale concentrare ogni forma di tutela delle posizioni azionate (cfr. art. 7, comma 7, c.p.a.). Siffatto principio, così come posto a fondamento delle deroghe ai criteri di competenza anche nel processo amministrativo ai sensi dell’art. 12, comma 4 bis, c.p.a., si è ritenuto estensibile anche alla giurisdizione per cui sarebbe possibile derogare agli ordinari criteri di riparto “per ragioni di connessione”.

Una seconda questione che viene in rilievo concerne il riparto di giurisdizione per le controversie instaurate dal proprietario del bene a seguito di occupazione illegittima da parte della P.A. Giova qui richiamare la distinzione tra comportamenti materiali e comportamenti amministrativi. Nel primo caso, l’Amministrazione pone in essere un comportamento che non è in alcun modo collegato all’esercizio di un potere pubblico ad essa legittimamente attribuito. E’ ciò che si verifica nell’occupazione cd. usurpativa, in cui la P.A. occupa il terreno privato in assenza di una dichiarazione di pubblica utilità. Lo stesso accade, secondo la giurisprudenza, nel caso di dichiarazione nulla per omessa indicazione dei termini iniziali e finali relativi all’occupazione e l’esecuzione dei lavori. In tali casi di carenza di potere, l’agere amministrativo non è in grado di comprimere e degradare la posizione del privato che è e resta di diritto soggettivo, radicando così la giurisdizione del g.o. Nel secondo caso, invece, vi è stata da parte della P.A. l’emissione di una dichiarazione di pubblica utilità e del decreto di occupazione d’urgenza ex art. 22 bis T.U., in forza dei quali essa ha lecitamente occupato l’area, anche se la procedura non si è conclusa con il decreto di esproprio. Qui, il collegamento con l’esercizio, almeno ab origine, di un potere amministrativo è sufficiente a radicare la giurisdizione esclusiva del g.a. Invero, l’espulsione dalla giurisdizione esclusiva del g.a. dei meri comportamenti materiali, con conseguente sottoposizione al suo sindacato dei soli “comportamenti riconducibili, anche mediatamente, all’esercizio del pubblico potere” è stata sancita, in un primo momento dalla Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittima l’attribuzione della giurisdizione per blocchi di materie in maniera del tutto svincolata dall’esercizio di potestà autoritativa. Oggi il legislatore ha recepito tali indicazioni nell’art. 133 lett. g) c.p.a. In entrambi i casi, comunque, stante la natura illecita dell’occupazione della P.A., il privato potrà agire dinanzi al giudice dotato di giurisdizione per ottenere la restituzione del bene e il risarcimento del danno.

Di recente, si è posta all’attenzione della giurisprudenza un’ulteriore problematica relativa alla natura dell’indennizzo da acquisizione sanante e le sue ricadute sul riparto di giurisdizione.

Giova però premettere brevi cenni sull’istituto dell’acquisizione sanante previsto dall’art. 42 bis, d.P.R. 327/2001. Si tratta di un meccanismo di espropriazione semplificata con cui la P.A. acquisisce un bene privato al proprio patrimonio, dopo averlo occupato illegittimamente. Su tale istituto esiste oggi un dibattito estremamente vivace, sul quale però non è opportuno, in questa sede, soffermarsi in maniera approfondita. Basti solo ricordare che esso è stato introdotto a seguito delle sollecitazioni internazionali, in particolare della Corte Edu, che aveva censurato, come violazione strutturale del diritto convenzionale e del principio di certezza del diritto, il sistema italiano delle espropriazioni cd. indirette, non effettuate secondo “buona e dovuta forma” (cioè secondo i procedimenti tipizzati dalla legge). Le critiche si addensavano intorno all’istituto di matrice pretoria dell’occupazione cd. appropriativa o accessione invertita, nel quale l’acquisizione del bene avveniva, a seguito di occupazione illegittima, in base al mero fatto della trasformazione irreversibile del bene in forza della realizzazione dell’opera pubblica.

L’acquisizione sanante, che collega invece l’espropriazione del bene a un formale provvedimento amministrativo, seppur successivo all’occupazione, era stato dapprima introdotto nell’art. 43 T.U. (poi dichiarato incostituzionale per eccesso di delega), e successivamente riprodotto nell’art. 42 bis, tuttora vigente. Ciononostante, le critiche circa tale istituto, considerato anch’esso forma di espropriazione indiretta, non si sono sopite. Recentemente, tuttavia, la Corte Costituzionale ne ha riconosciuto la legittimità, quale forma di espropriazione rispettosa del principio di legalità. Si tratta di una forma di espropriazione semplificata, poiché riunisce lo svolgimento dell’intera procedura ablatoria in un unico atto, che assorbe in sé la dichiarazione di pubblica utilità e il decreto di esproprio. Inoltre, alcuni profili dell’istituto, quali la non retroattività dell’acquisizione, il fatto di porsi come extrema ratio stante l’assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione, l’obbligo di motivazione rafforzata che deve dare conto delle “attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l’emanazione” e comparate con i contrapposti interessi privati, il pagamento di un indennizzo che copra sia il danno patrimoniale che non patrimoniale, sono ritenuti strumenti sufficienti per tutelare il privato e ristorarne il pregiudizio in maniera non deteriore rispetto a quanto avverrebbe con un procedimento espropriativo ordinario.

Circa la natura dell’indennizzo corrisposto al privato si registra un acceso dibattito in giurisprudenza, assolutamente attuale visto che la questione è stata rimessa al vaglio delle Sezioni Unite della Suprema Corte.

Secondo una prima tesi, la somma prevista dall’art. 42 bis, nonostante la dicitura “indennizzo”, costituirebbe il risarcimento del danno subito dal privato a seguito dell’occupazione illegittima della P.A., peraltro già quantificato ex lege e forfetariamente liquidato nella misura del 10% del valore venale del bene. Di esso sarebbe competente a conoscere il g.a., trattandosi di una controversia relativa al risarcimento dei danni conseguenti a un cattivo uso del potere del potere espropriativo. L’art. 42 bis non sarebbe altro che un rimedio previsto dal legislatore per l’illecito perpetrato dalla P.A., colorando l’indennizzo ivi previsto come un risarcimento per un illecito pregresso, piuttosto che come un ristoro in vista della futura ablazione del bene.

Secondo un diverso indirizzo, invece, la somma che l’Amministrazione deve corrispondere avrebbe natura di indennizzo per ristorare i pregiudizi patiti dal privato a seguito di un’attività lecita. Con il provvedimento di acquisizione ex art. 42 bis, infatti, la P.A. rende conforme a legge un’occupazione illecita e riprende a muoversi sul piano della legalità, con la conseguenza che la pretesa del privato muta da diritto al risarcimento da fatto illecito a diritto alla corresponsione dell’indennizzo da attività lecita. Invero, a norma dell’art. 30 c.p.a., il diritto al risarcimento può derivare solo dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria, e non certo da un atto emanato secondo la legge. Il giudice amministrativo dovrà dunque limitarsi ad accertare la legittimità del provvedimento di acquisizione sanante, poiché le questioni indennitarie dovranno essere conosciute dal giudice ordinario.

Per completezza, va rilevato che se si dovesse ritenere radicata la giurisdizione del g.o., i problemi non sarebbero del tutto risolti, poiché residuerebbe una questione relativa all’individuazione del giudice competente per la determinazione dell’indennizzo. Per alcuni si dovrà promuovere il giudizio di opposizione alla stima dinanzi alla Corte d’Appello competente, in forza di un’interpretazione estensiva dell’art. 54 T.U. dettato per la procedura espropriativa ordinaria. Secondo altri, invece, la mancanza di un vero e proprio procedimento di esproprio avrebbe privato i destinatari della misura ablatoria della possibilità di contraddire con l’Amministrazione, pertanto le garanzie procedimentali che sono mancate nella fase amministrativa dovrebbero essere assicurate in fase giurisdizionale, consentendo loro di proporre un’azione di accertamento dell’indennizzo e di condanna della P.A. a corrispondere la maggior somma eventualmente dovuta.

 

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