Tema svolto: “Ineseguibilità del giudicato e strumenti di tutela”

Il provvedimento emesso in sede giurisdizionale dall’autorità competente, all’esito del dispiegarsi delle fasi e dei gradi in cui si articola una vicenda processuale, individua il precetto normativo applicabile al caso concreto, nonché i termini ed i contenuti di una decisione immutabile, che risolve il contrasto sorto tra le parti dal quale ha preso le mosse il cammino processuale.

Alla formazione del cd. giudicato, sia in senso formale che sostanziale, non può non seguire, per elementari ragioni di tutela delle posizioni giuridiche soggettive, una fase volta a tradurre in termini concreti le statuizioni contenute in sentenza, laddove queste ultime dovessero risultare non auto-esecutive. Si vuole con ciò sottolineare l’esigenza di assicurare alla parte vincitrice in sede di giurisdizione civile o amministrativa, che ha viste riconosciute le proprie ragioni, la possibilità di ottenere il bene della vita sperato, in virtù della cui tutela si è visto costretto ad intraprendere le vie legali.

Orbene, tale esigenza si traduce nell’interesse in capo al privato a che, nei rapporti in cui sia parte in causa una Pubblica Amministrazione, questa si conformi al giudicato con riferimento al caso deciso.

L’obbligo di conformità, tuttavia, può essere perseguito intraprendendo due differenti percorsi. In specie, da un lato, potrebbe farsi luogo all’esecuzione spontanea da parte dell’amministrazione di quanto contenuto nel provvedimento emanato dall’Autorità Giudiziaria, dall’altro, a fronte della mancanza di un adeguamento spontaneo, l’ordinamento predispone a tutela del privato “vittorioso” in sede giurisdizionale lo strumento del giudizio di ottemperanza.

Quest’ultimo, infatti, rappresenta lo strumento esecutivo delle pronunce emesse dal G.A ovvero dal G.O., che posseggano i requisiti della esecutività o che siano passate in giudicato. Il rimedio dell’ottemperanza, inoltre, configura una delle più importanti ipotesi di giurisdizione estesa al merito, ancora rinvenibili nel panorama giurisdizionale amministrativo, a fronte della tendenza volta alla progressiva riduzione ed eliminazione di ipotesi di tal fatta, nel solco di una più ampia garanzia del principio della separazione dei poteri.

La previsione legislativa di un’espressa possibilità di sostituzione del giudice dell’ottemperanza all’amministrazione si trova in linea, d’altra parte, con la natura complessa del giudicato, in specie, amministrativo. Quest’ultimo, infatti, si caratterizza proprio per l’attitudine conformativa che da esso discende sull’attività futura della PA, oltre che per l’effetto demolitorio ed eventualmente ripristinatorio, a fronte di effetti medio tempore generati dal provvedimento poi annullato.

Dunque, volendo enucleare gli aspetti maggiormente controversi sottesi alla disciplina del giudizio di ottemperanza, non è possibile tralasciare le innovazioni apportate in sede legislativa dall’emanazione del Codice del Processo Amministrativo, di cui al D. Lgs. 104/2010, All. IV, in vigore dal 16 settembre 2010.

In particolare, giova porre in evidenza la volontà perseguita dal legislatore, da una parte, di recepire gli spunti emersi nel dibattito dottrinario e giurisprudenziale nel vigore delle previgenti norme dispositive in materia, dall’altra, di tentare di dare sistemazione definitiva a vetuste questioni.

Infatti, il CPA, agli artt. 112-115, recepisce una logica volta alla concentrazione delle tutele spendibili in sede di ottemperanza, nel quadro di un più ampio adeguamento dell’ordinamento al principio dell’effettività della tutela e della ragionevole durata del processo, che sembra, invero, rappresentare il leit motiv di tutta l’impalcatura del codice.

Tuttavia, quanto appena esposto risulta maggiormente chiaro laddove si pone mente ai contenuti delle azioni che necessariamente o facoltativamente confluiscono nel giudizio di ottemperanza, come delineate, in particolare, dall’art. 112 CPA.

Da un lato, invero, ritroviamo tutte le azioni inerenti alla inesecuzione, violazione o elusione del giudicato, nonché alle questioni sorte medio tempore in conseguenza degli adempimenti realizzati dal commissario ad acta. Dall’altro, invece, il legislatore prevede la possibilità per il ricorrente di adire il giudice dell’ottemperanza al fine di ottenere il risarcimento del danno da mancata esecuzione, elusione o violazione del giudicato, anche quando l’esecuzione sia divenuta impossibile o eccessivamente onerosa per la PA, nonché la facoltà di agire per la prima volta in tale sede con la domanda risarcitoria da provvedimento illegittimo.

Orbene, ciò che in questa sede viene in rilievo è proprio la possibilità che, per qualsiasi causa, l’adempimento specifico da parte dell’amministrazione non sia più realizzabile, dando luogo, così, ad una vicenda di ineseguibilità del giudicato.

Invero, il richiamo alla impossibilità di dare esecuzione alla cosa giudicata sembra riportare alla mente le categorie civilistiche dettate dagli artt. 1463 e 1467 c.c. in tema di risoluzione del contratto per impossibilità ed eccessiva onerosità sopravvenuta.

Tale giudizio, tuttavia, sembra, in ogni caso, destinato ad essere operato da parte del giudice dell’ottemperanza alla luce del bilanciamento d’interessi che s’impone tra le istanze proprie del privato e quelle dell’ente pubblico, il quale agisce pur sempre nell’ottica del perseguimento dell’interesse pubblico, nonché in vista del soddisfacimento delle istanze di efficienza dell’azione amministrativa dettate dall’art. 97 Cost.

In realtà, non sembra possibile rimettere alla discrezionalità della PA la scelta in ordine alla eseguibilità o meno della statuizione contenuta in sentenza, seppur essa risulti legata, sotto il profilo della impossibilità od onerosità, alle valutazioni dalla stessa operate, dovendo passare, tale accertamento, per una fase cognitoria della quale il giudizio di ottemperanza non sembra invero sfornito.

Infatti, volendo por mente all’insegnamento fornito da illustre dottrina, il giudizio in questione si caratterizza come “necessariamente esecutivo ed eventualmente di cognizione”. Con ciò si vuole tradizionalmente fare riferimento, da un lato, alla necessità che il giudice, in un’ottica puramente esecutiva, si limiti a dare attuazione a quanto sancito con la pronuncia giurisdizionale, dall’altro alla possibilità che a tale fase si affianchi un momento valutativo. In quest’ultimo caso, in specie, si renderebbe necessaria un’opera d’interpretazione della sentenza della cui esecuzione si tratta, al fine di trarne il contenuto dispositivo e al fine di valutare l’effettiva compatibilità della regola così enucleata alla realtà concreta del caso specifico. Il tutto, si badi, nell’interesse ad un giudizio effettivo di conformità dell’azione amministrativa alla regola del caso concreto, nonché in vista del soddisfacimento pieno delle istanze di tutela del privato nei confronti dell’amministrazione.

Occorre, a questo punto, chiedersi quale rimedio residui in capo al privato al fine di ritenere soddisfatte le istanze poste dal precetto costituzionale di cui all’art. 24 Cost.

Orbene, sembra non potersi invocare, nella specie, lo strumento dell’azione risarcitoria del cd. “danno da inottemperanza”, come definito da parte della dottrina, in quanto, se è vero che l’amministrazione non dà luogo all’esecuzione del giudicato, con ciò rendendo a prima vista applicabile il co.3 dell’art. 112 CPA, tuttavia, tale inadempimento non sembra giuridicamente imputabile ad essa, derivando, invece, da una impossibilità o eccessiva onerosità, non preordinate da parte dalla PA al precipuo scopo di sottrarsi all’onere esecutivo scaturente dalla definizione in via immutabile della controversia.

Infatti, le categorie civilistiche invocate sono suscettibili di apprezzamento alla luce di un giudizio di proporzionalità, nonché avuto riguardo alla situazione di fatto esistente al momento in cui la prestazione deve essere effettuata. Ma, soprattutto, esse richiedono, ai fini della loro operatività, che l’impossibilità e l’onerosità sopravvenute non siano imputabili al debitore, in quanto, se così fosse, si verterebbe in una vera e propria ipotesi di inadempimento, che condurrebbe, oltre che alla risoluzione contrattuale, anche alla domanda risarcitoria.

Dunque, sembra a questo punto riespandersi la possibilità per il privato d’invocare una tutela risarcitoria, non ancorata alla mancata esecuzione del giudicato, bensì al danno derivante dall’illegittimità provvedimentale o comportamentale della PA, accertata definitivamente in sede giurisdizionale. Danno di per sé non riparato dalla mera caducazione del provvedimento illegittimo, soprattutto a fronte d’interessi pretensivi che richiedono, al fine di ottenere il soddisfacimento della pretesa concreta, rappresentata dal bene della vita, un comportamento attivo dell’amministrazione, un facere.

Il problema della configurabilità di una siffatta azione risarcitoria ha conosciuto, per vero, un lungo e travagliato contrasto di opinioni in sede dottrinaria e giurisprudenziale, a fronte del quale il legislatore del codice del processo ha cercato di porre fine con la previsione di cui all’art. 112, co. 4 CPA.

Le principali critiche mosse alla configurabilità di un’azione risarcitoria da provvedimento illegittimo, esperibile per la prima volta in sede di ottemperanza, muovevano dalla constatazione di una possibile violazione al principio del doppio grado di giudizio sancito dall’art. 125 Cost. Tuttavia, a fronte della suddetta critica, altra parte della dottrina mostrava un atteggiamento di favore nei confronti di una siffatta apertura ordinamentale, ritenendo facilmente superabile l’ostacolo rappresentato dal doppio grado di giudizio. Infatti, si sosteneva come tale principio non fosse affatto codificato dal legislatore costituzionale, il quale, all’art. 125 Cost. aveva voluto solamente sancire la necessaria appellabilità delle sentenze, ma non si voleva in alcun modo limitare la discrezionalità del legislatore, laddove quest’ultimo avesse voluto affidare, per la prima volta ad un giudice di seconda istanza la cognizione della materia risarcitoria.

Tuttavia, la prevalenza o meno dell’uno piuttosto che dell’altro orientamento non può essere, allo stato attuale, sganciata dal necessario riferimento al CPA ed, in particolare, non ci si può sottrarre ad una interpretazione precipua dell’art. 112, co. 4, laddove esso opera un rinvio espresso ai modi e ai termini del processo ordinario.

Invero, tale ultimo rimando legislativo, anche alla luce della più recente impostazione emersa in seno alla giurisprudenza del Consiglio di Stato, deve essere interpretato come rafforzativo delle garanzie connesse al doppio grado di giudizio. Sicché, la domanda risarcitoria sarebbe attualmente esperibile per la prima volta in ottemperanza, solo qualora quest’ultimo giudizio sia promosso avanti al TAR, a fronte di sentenze non appellate o non più appellabili, ovvero, laddove impugnate, confermate in totodall’organo d’appello della giurisdizione amministrativa.

Solo così ragionando ed interpretando, infatti, sarebbe possibile rispettare la natura propria del giudizio di ottemperanza, che è e resta un giudizio principalmente di esecuzione, nel quale la fase di cognizione assume un ruolo meramente eventuale, come si è avuto modo di sottolineare in precedenza.

Il riconoscimento, tout court, della risarcibilità, per la prima volta in ottemperanza, del danno da originario atto illegittimo aprirebbe spazi di cognizione che, seppur eventuali, non rientrano nella funzione precipua di tale giudizio che, pur volendo accedere alla teoria che qualifica lo stesso come avente natura mista, resta necessariamente funzionale ad assicurare l’esecuzione del giudicato.

Il codice, dunque, come ribadito anche recentemente dal Consiglio di Stato, accede a quella teoria minoritaria che riteneva esperibile la domanda risarcitoria dei danni discendenti dall’originario illegittimo esercizio della funzione pubblica, a condizione che la stessa fosse introdotta davanti al TAR, per evitare la violazione del doppio grado di giudizio. A tale soluzione conduce, volendo seguire le indicazione offerte dal precedente in commento, sia un’interpretazione letterale dell’art. 112, co.4 CPA, laddove richiama i modi e i tempi del rito ordinario, sia una esegesi storica e sistematica del codice, il quale consente una “connessione”tra domanda volta all’esecuzione e domanda volta al risarcimento del danno, subordinata all’applicazione del rito ordinario, improntato al canone ex art. 125 Cost.

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