Tema svolto sul Principio di Tassatività

 

Premessi brevi cenni sul principio di necessaria lesività, il candidato

consideri alla luce di siffatto principio il reato previsto dall’art. 217 L. Fall. nonché l’ipotesi del furto archeologico particolarmente importante

di Serafino Ruscica

Schema preliminare di svolgimento della traccia

–    ‑Cenni sul principio di necessaria lesività.

–    ‑‑Applicazioni del principio di necessaria lesività nell’ambito dei reati previsti dal codice penale.

–    ‑‑Natura giuridica e ratio puniendi del reato previsto dall’art. 217 L. Fall.

–    ‑‑Applicazione dei principi elaborati dalla giurisprudenza in ordine all’art. 217 L. Fall.

–    ‑‑Natura giuridica e ratio puniendi del reato previsto dall’art. 176 del D.Lgs. n. 42/2004.

Dottrina

Cipolla, Rapporti tra impossessamento di beni culturali e ricerche archeologiche clandestine, nella tematica del concorso di norme, in Cass. Pen. 2008, 10, 3795.

Cipolla-Ferri, Il recente codice dei beni culturali e la continuità normativa in tema di accertamento della culturalità del bene, in Cass. Pen. 2005, 11, 3451.

Mantovani, Diritto penale, Parte generale, Cedam, 2009.

Giurisprudenza

Cass. Pen., Sez. III, 15 febbraio 2006, n. 13701

Ai fini della configurabilità del reato d’impossessamento illecito di beni culturali, di cui all’art. 176, D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, non è sufficiente che il soggetto agente abbia tenuto un atteggiamento meramente passivo nei confronti dell’acquisita disponibilità del bene, atteso che il reato si perfeziona allorché l’autore abbia posto in essere un’azione a mezzo della quale abbia appreso la cosa spostandola dal luogo in cui si trovava in origine per collocarla sotto il proprio dominio esclusivo. In applicazione di tale principio la Corte ha escluso il reato “de qua” in un’ipotesi in cui il bene era pervenuto all’imputato per successione ereditaria.

Cass. Pen., Sez. IV, 1° febbraio 2005, n. 12618

Il possesso di oggetti d’interesse artistico storico o archeologico si deve ritenere illegittimo a meno che il detentore non dimostri di averli legittimamente acquistati. Tali oggetti, invero, sono di proprietà dello Stato sin dalla loro scoperta e il loro impossessamento, sia che provenga da scavo sia da rinvenimento fortuito, è previsto dalla L. n. 1089/1939 come delitto punito con la stessa pena comminata per il furto.

In senso conforme alla massima, circa l’onere della prova in materia di possesso di beni archeologici, v., fra le altre, Cass., Sez. Seconda Pen., 21 novembre 1997, Amorelli, in C.E.D. Cass., n. 212786; Cass., Sez. Seconda Pen., 27 giugno 1995, Dal Lago, in Riv. pol., 1996, p. 806, con nota di Pioletti, la quale, oltre a stabilire che nel procedimento penale per il reato in questione l’onere della prova incombe sulla persona presso la quale gli oggetti sono stati rinvenuti, precisa che, se il processo si chiude con la declaratoria di estinzione del reato per amnistia o prescrizione, la persona prosciolta, ai fini della restituzione delle cose sequestrate, conserva la possibilità di fornire la prova della legittimità del possesso anche davanti al giudice dell’esecuzione; Cass., Sez. Seconda Pen., 5 ottobre 1984, Ponti, in C.E.D. Cass., n. 1677/89; Cass., Sez. Seconda Pen., 17 dicembre 1992, Waldner, ivi, n. 160010; Cass., Sez. Terza Pen., 8 gennaio 1980, Schiavo, in Giur. it., 1981, p. 12, con nota di Testori.

Cass. Pen., Sez. III, 27 maggio 2004, n. 28929

Ai fini della configurabilità del reato d’impossessamento di beni culturali, attualmente previsto dall’art. 176, D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (codice dei beni culturali e del paesaggio), a differenza delle disposizioni previgenti di cui all’art. 67, L. 1° giugno 1939, n. 1089 e all’art. 125, D.Lgs. 29 ottobre 1999, n. 490, è necessario che i beni oggetto materiale del reato siano qualificati come tali in un formale provvedimento dell’autorità amministrativa, in quanto rivestano un oggettivo interesse, che risulti eccezionale o particolarmente importante; pertanto, quando si tratta di un bene mai denunziato all’autorità competente, deve avere inizio il procedimento per la dichiarazione d’interesse culturale, prevista dall’art. 13, D.Lgs. n. 42/2004, e a tal fine esso può essere legittimamente sottoposto a sequestro probatorio qualora sia presente il fumus del c.d. “furto d’arte”, desunto delle caratteristiche della res in riferimento al valore comunicativo spirituale ed ai requisiti peculiari attinenti alla sua tipologia, localizzazione, rarità o analoghi criteri.

Cass. Pen., Sez. III, 4 maggio 1999, n. 7131

In tema di prova della liceità del possesso privato di beni mobiliari archeologici, dal fatto che la L. 1° giugno 1939, n. 1089 sulla tutela delle cose d’interesse artistico o storico, configuri un dominio eminente dello Stato sul sottosuolo archeologico, che si esprime nell’appartenenza allo Stato delle cose d’interesse archeologico rinvenute fortuitamente ovvero a seguito di ricerche od opere in genere (appartenenza peraltro già affermata in precedenza dalla L. 20 giugno 1909, n. 364), non può desumersi che i privati proprietari, possessori, detentori di beni archeologici, a cui carico non è stato posto onere alcuno circa il possesso, e che la legge considera per porre vincoli sui loro beni, la cui culturalità raggiunga un certo grado, o per espropriarli, siano dalla legge stessa considerati tali solo se forniscono la prova della legittimità della loro proprietà, del loro possesso, della loro detenzione. Fattispecie relativa a furto di cose d’antichità e d’arte, in cui la Corte ha ritenuto la manifesta illogicità della motivazione nella parte in cui il giudice di merito si era basato sulla mancata prova, da parte del possessore, della legittimità del possesso stesso, rigettando peraltro il ricorso in quanto la decisione era sorretta in modo autonomo da altre considerazioni che conducevano alla delittuosità dell’impossessamento ed in cui il giudice aveva evidenziato, a chiusura del costrutto probatorio, l’omissione di qualsiasi allegazione circa la legittimità del possesso.

Cass. pen.  sez. V 19 aprile 2010 n. 21588

Sussiste il reato di bancarotta fraudolenta documentale non solo quando la ricostruzione del patrimonio si renda impossibile per il modo in cui le scritture contabili sono state tenute, ma anche quando gli accertamenti, da parte degli organi fallimentari, siano stati ostacolati da difficoltà superabili solo con particolare diligenza.

 

Cass. pen.  sez. V,  8 gennaio 2010  n. 10304

Anche la sola difficoltà di ricostruire il movimento d’affari dell’azienda fallita è sufficiente ad integrare il reato di cui all’art. 216 l.fall. nei confronti dell’imprenditore che non ha tenuto o ha tenuto irregolarmente le scritture contabili. Per configurare il reato in oggetto, infatti, non è necessaria l’assoluta impossibilità di ricostruire il patrimonio, ma è sufficiente una difficoltà nella ricostruzione del movimento d’affari dovuta all’assenza di scritture contabili. Quanto all’elemento soggettivo del reato di bancarotta documentale è sufficiente il dolo generico, cioè la coscienza e volontà dell’irregolare tenuta delle scritture e della consapevolezza che ciò non consentirà la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari.

 

Trib. Bologna, 23 ottobre 2007, n. 2779

In tema di bancarotta semplice documentale, pur essendo questo un reato di pericolo presunto (che prescinde cioè dall’accertamento del pericolo nel caso concreto, e ciò in quanto la violazione dell’obbligo della tenuta dei libri è punita di per sé, indipendentemente dalla possibilità di procedere aliunde alla ricostruzione del patrimonio del fallito), va sempre valutata l’idoneità della condotta incriminata, anche omissiva, a incidere in concreto sull’interesse tutelato dall’art. 217, che è l’ostensibilità del patrimonio dell’imprenditore. Una valutazione d’intrinseca pericolosità, corrispondente alla fattispecie di pericolo così come costruita dal legislatore, è possibile solo per le condotte effettivamente idonee, nel concreto conteso contabile dell’azienda, a ostacolare la ricostruzione della vita economica e patrimoniale dell’impresa.

Cass. Pen., Sez. III, 10 novembre 1998, n. 3383

Il reato di cui all’art. 1, co. 6, L. n. 516/1982, è integrato dall’omessa od irregolare tenuta delle scritture contabili obbligatorie, indipendentemente dalla verificazione di un qualsiasi ulteriore evento di natura fiscale od economica. Si tratta, pertanto, di un reato di mera condotta e di danno, da ritenersi sussistente in presenza di tale comportamento, anche se successivamente si appuri che l’imponibile sottratto all’accertamento tributario era di gran lunga inferiore alle soglie di punibilità di cui ai commi 2 e 3 dell’art. 1, posto che il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice è l’interesse statale alla trasparenza fiscale ed alla completa ostensibilità della contabilità del contribuente.

Legislazione correlata

Codice Penale, art. 49, co. 2.

Legge 16 marzo 1942, n. 267, art. 217.

Legge 20 giugno 1909, n. 364, art. 2.

Legge 1° giugno 1939, n. 1089, artt. 1, 2, 3.

D.Lgs. n. 42/2004, art. 176.

SVOLGIMENTO

Il principio di offensività o di necessaria lesività, unitamente ai principi di materialità e colpevolezza costituisce uno dei principi cardine su cui poggia la moderna concezione del reato. In base a tale principio, un fatto umano è penalmente rilevante quando, oltre ad essere conforme ad un’astratta fattispecie criminosa (c.d. fatto tipico), è dotato d’idoneità offensiva tale da ledere o porre in pericolo il bene giuridico protetto dalla norma.

Il principio di offensività, tradizionalmente espresso dal brocardo “nullum crimen sine iniuria”, non è si è tradotto, nel nostro ordinamento, in una norma positiva espressa e dunque parte della dottrina ne ha a lungo escluso la cogenza.

In realtà, il principio di offensività assume una notevole importanza nel sistema penale in quanto mette il cittadino al riparo dall’incriminazione di comportamenti non lesivi e pertanto privi di disvalore penale (la manualistica tradizionale fa, per esempio, riferimento al furto di un acino d’uva o di un chiodo arrugginito come ipotesi di condotte inidonee ad arrecare un pregiudizio al patrimonio della vittima).

Il principio di offensività del reato si contrappone al principio del reato come mera violazione del dovere. Esso presuppone ed integra il principio della materialità del reato: mentre questo assicura il cittadino contro le incriminazioni di meri atteggiamenti interni, il principio di offensività garantisce altresì contro l’incriminazione di fatti materiali non offensivi.

Parte della dottrina ritiene di poter individuare un fondamento normativo implicito del principio in esame nell’art. 49, co. 2, c.p.; inoltre, si ritiene che la stessa Costituzione presupponga implicitamente la sussistenza di tale principio (si fa riferimento, in particolare, al c.d. principio sancito dalla Carta costituzionale all’art. 25, comma 2, Cost.).

Sono numerose le fattispecie che dottrina e giurisprudenza concordemente ritengono non punibili per mancanza di offensività. Si pensi, a titolo di esempio, alle seguenti fattispecie: falso grossolano, falsità testimoniale su circostanze irrilevanti, favoreggiamento non idoneo a deviare le indagini, privazione della libertà personale per una durata trascurabile, truffa commessa con artifizi o raggiri manifestamente scoperti, accuse calunniose palesemente infondate, simulazione inidonea a dar vita ad un processo penale, sottrazione/appropriazione/danneggiamento di cose senza valore.

In ordine alla disposizione di cui all’art. 49, co. 2, c.p., che come accennato taluni interpretano quale norma fondante il principio di offensività, sono emerse in dottrina tre principali tesi, sinteticamente definibili rispettivamente come tesi abrogatrice, tesi valorizzatrice e tesi intermedia.

Per la tesi abrogativa, il reato impossibile non è una figura autonoma, ma un inutile doppione in negativo del delitto tentato (Stella, Pulitanò, Nuvolone, Fiandaca-Musco, Romano, Pagliaro).

Per la tesi valorizzatrice, l’art. 49 c.p. esprime invece un principio cardine dell’ordinamento, ovvero il principio generale per il quale non vi può essere reato senza offesa: in quest’ottica, ben può esservi un fatto in tutto conforme al tipo ma non punibile perché non lesivo dell’interesse tutelato (Neppi Modona, Ettore Gallo, Bricola, Vassalli).

I fautori di questa tesi, individuano inoltre tre motivi di ordine letterale che impongono di differenziare l’art. 49 c.p. dall’art. 56 c.p. in tema di tentativo: innanzitutto, il tentativo si riferisce ai soli delitti mentre il reato impossibile si riferisce genericamente ai reati, di modo che gli atti idonei a commettere una contravvenzione sarebbero penalmente irrilevanti e non darebbero luogo all’applicazione di alcuna misura; in secondo luogo, l’art. 56 c.p. parla di “atti”, mentre la norma sul reato impossibile parla di “azione”; da ultimo, è quantomeno strano che l’art. 49 c.p. anticipi in negativo la stessa prescrizione contenuta nel successivo art. 56 c.p.

Altra dottrina (Mantovani) rifiuta tanto la tesi abrogante quanto quella valorizzante, affermando che il principio di offensività altro non è se non una linea direttiva e un criterio interpretativo.

Il reato impossibile è figura dall’inquadramento discusso, che non avrebbe senso in un sistema penale oggettivo e sarebbe parificata al delitto perfetto in un sistema soggettivo. Essa è codificata nel nostro ordinamento (qualificabile quale sistema di tipo misto oggettivo-soggettivo), all’art. 49, co. 2, c.p., ove si opta per la soluzione mediana della punibilità tramite misura di sicurezza quando “per l’inidoneità dell’azione o per l’inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile l’evento dannoso o pericoloso”.

L’art. 49, co. 2, c.p., unitamente all’art. 115 c.p., rappresenta una delle ipotesi che la dottrina individua con il nome di “quasi reati”, in quanto l’agente è sanzionato (con una misura di sicurezza) indipendentemente dalla commissione di un reato.

Il reato impossibile di cui all’art. 49, co. 2, c.p. va distinto dal reato putativo di cui all’art. 49, co. 1, c.p.: mentre al reato impossibile consegue l’applicazione di una misura di sicurezza, ed è collegato alla tematica del tentativo, al reato putativo non consegue l’applicazione di alcuna misura, ed è collegato alla tematica dell’errore.

Si parla di reato impossibile tanto con riferimento ai reati materiali (di danno o di pericolo), che ai reati di mera condotta (nei quali l’evento è giuridico). Esso pone il problema di individuare le distinte ipotesi d’inidoneità della condotta e inesistenza dell’oggetto.

Relativamente alla condotta, già si è detto che diverse sono le posizioni circa il rapporto tra gli artt. 49 e 56 c.p.: per alcuni l’art. 49 è un doppione inutile dell’art. 56; per altri esso ha un suo specifico ambito di applicazione, perché diversamente dall’art. 56 riguarda casi in cui il soggetto ha portato a termine la condotta, che per caratteristiche intrinseche e originarie non ha però realizzato l’offesa al bene protetto.

È discusso il concetto d’inesistenza dell’oggetto ai sensi dell’art. 49, co. 2, c.p.: fermo restando che tale inesistenza deve essere assoluta e non accidentale, i dubbi riguardano il momento in cui il giudizio circa l’inesistenza stessa deve essere formato.

La prevalente tesi giurisprudenziale ritiene necessaria un’inesistenza in rerum natura o inesistenza assoluta od originaria, escludendo quindi dall’ambito applicativo della norma la mancanza accidentale o temporanea della res.

La giurisprudenza prevalente ritiene che il giudizio, al di fuori dell’ipotesi dell’inesistenza in rerum natura dell’oggetto materiale del reato, debba essere effettuato ex ante col criterio della prognosi postuma. Pertanto, il giudice dovrà idealmente porsi nella stessa condizione in cui si trovava l’agente, ed escludere la sussistenza del reato solo ove in relazione alle concrete circostanze e alle maggiori conoscenze dell’agente stesso, l’esistenza dell’oggetto appaia improbabile allorché venga posta in essere l’azione.

Giurisprudenza minoritaria e parte della dottrina (Mantovani), invece, ritengono che il giudizio in ordine all’inesistenza vada effettuato ex post, tenendo conto di tutte le circostanze esistenti anche se non conosciute o non verosimili ex ante. Costituirebbe, infatti, manifesta violazione del principio di offensività punire là dove è precluso già a priori un qualsiasi pericolo di perfezione del delitto.

Il principio di offensività, come evidenziato anche dalla giurisprudenza costituzionale, assume rilevanza sotto un duplice aspetto: come criterio guida per il Legislatore nella formulazione delle fattispecie tipiche di reato (essendo questi chiamato a concretizzare nella norma penale l’offesa all’interesse protetto), e come criterio interpretativo per il giudice, cui viene chiesto d’incriminare le sole condotte effettivamente dotate di offensività.

Terreno di elezione per l’applicazione del principio di offensività è sempre stato il dibattuto ambito dei reati di pericolo. Se è vero che i reati di danno hanno tradizionalmente rappresentato la maggior parte delle figure criminose, è altrettanto vero che attualmente i reati di pericolo sono in continua espansione (soprattutto nelle leggi speciali) e sembrano ormai aver invertito il rapporto quantitativo rispetto ai reati di danno. Si pensi, per avere una dimensione del fenomeno, che il tentativo di delitto è esso stesso figura generale di reato di pericolo, e che figure specifiche sono i delitti di attentato, molti delitti contro la personalità dello Stato, l’incolumità pubblica, la salute pubbliche, nonché quasi tutte le contravvenzioni.

La ragione dell’incremento dei reati di pericolo va ricercata nell’emersione di beni sopraindividuali o collettivi e nell’emergere di nuove forme di aggressione a beni tradizionali. Infatti, le attuali società tecnologicamente avanzate fanno emergere nuove attività che, sebbene utili, ampliano il rischio di eventi dannosi. Si tratta di fonti di pericolo particolarmente insidiose sia per la loro accentuata diffusità, sia per la difficoltà di reperire sufficienti mezzi di autodifesa; da qui l’esigenza di un controllo penale anticipato in grado di neutralizzare già all’origine i rischi della produzione di massa.

Per quanto riguarda la nozione di pericolo, in dottrina si è ormai abbandonata la concezione del pericolo-evento, del pericolo cioè come situazione ontologicamente esistente in rerum natura.

Si è, infatti, rilevato (Mantovani) che nel mondo degli accadimenti naturali il pericolo non esiste, e il fatto che l’evento non si sia verificato sta a dimostrare che non esistevano tutte le condizioni causali del suo verificarsi. Tuttavia, non tutti i fattori causali concretamente operanti sono conoscibili dall’uomo, e vi è quindi la necessità di ricorrere ad un giudizio di prevedibilità. Il giudizio sul pericolo, pertanto, implica una previsione sulle conseguenze derivabili da uno stato di fatto.

Si discute sia possibile il tentativo di un reato di pericolo: alcuni autori danno una risposta affermativa, altri al contrario negativa, in base all’argomentazione per cui non è concepibile il pericolo di un pericolo.

Dottrina e giurisprudenza distinguono tra reati di pericolo concreto e di pericolo presunto o astratto, utilizzando le ultime due espressioni come sinonimi.

Nei reati a pericolo concreto, il pericolo costituisce un elemento costitutivo della fattispecie e la sua esistenza deve quindi essere accertata dal giudice nel caso concreto.

Nei reati a pericolo astratto o presunto, il pericolo costituisce invece la ratio dell’incriminazione. È allora lo stesso legislatore che, sulla base di regole di esperienza, determina le ipotesi comportamentali pericolose per un bene giuridico, tipizzandole in una norma incriminatrice; pertanto, l’effettiva pericolosità della condotta non deve essere accertata dal giudice, bastando la semplice realizzazione del fatto tipico.

Mantovani opera invece una tripartizione nell’ambito dei reati di pericolo, distinguendo tra pericolo concreto, astratto e presunto. Nei reati a pericolo concreto il pericolo deve effettivamente esistere, costituendo elemento tipico espresso da accertare nel caso concreto. Nei reati di pericolo astratto il pericolo è implicito nella stessa condotta, ritenuta per comune esperienza pericolosa, sicché il giudice si limita a verificare la conformità di essa al tipo. Nei reati di pericolo presunto, invece, il pericolo non è implicito nella stessa condotta, poiché al momento della realizzazione della stessa è possibile controllare l’esistenza o meno delle condizioni necessarie per il verificarsi dell’evento lesivo, che è però presunto iuris et de iure. In sostanza, mentre nei reati di pericolo astratto vi è una potenzialità lesiva generica, i reati a pericolo presunto ammettono un’assenza totale di rischio.

Secondo questa impostazione, allora, sono proprio i reati di pericolo presunto a suscitare sospetti d’incostituzionalità. Infatti, i reati di pericolo presunto non ammettono alternative, data l’impossibilità di effettuazione di un controllo ex ante delle condizioni di verificabilità dell’evento lesivo (per es. gli atti osceni in luogo pubblico, perché non è dato sapere se sopraggiungeranno persone). Tale anomalia andrebbe superata o convertendo tali reati in reati a pericolo concreto; ovvero convertendoli in reati a pericolo relativamente presunto tramite inversione dell’onere della prova.

Secondo la consolidata giurisprudenza, invece, nei reati di pericolo astratto o presunto la sussistenza del pericolo non deve essere accertata in concreto. Si prescinde dall’indagine perché la minaccia all’interesse tutelato si ritiene avverata con la mera realizzazione del fatto tipico, al quale è estraneo il requisito dell’offesa.

Il problema maggiore relativamente a questi tipi di reato è dato dal rapporto con il principio di offensività, dal momento che l’impossibilità di fornire la prova dell’inesistenza del pericolo rende ben possibile che, nel caso concreto, si verifichi uno scarto tra conformità al tipo e offensività della condotta.

Secondo alcuni autori, il principio di offensività costituisce una mera direttiva che l’ordinamento ben può disattendere, sicché nessun problema si pone relativamente ai reati di pericolo anche nel caso di pericolo astratto, non essendo l’offensività dell’azione requisito necessario di ogni reato.

Altri autori, invece, attribuiscono al principio di offensività una diversa valenza: esso sarebbe un principio generale ed inderogabile da parte del Legislatore ordinario perché costituzionalizzato dall’art. 25 Cost. Pertanto, si pone il problema della conformità a Costituzione delle norme che incriminano fattispecie di pericolo presunto.

Altri ancora ritengono che il comportamento di chi viola una regola di obbedienza come quella disegnata dalle norme incriminatrici di reati di pericolo presunto, lasciando al più trasparire un certo grado di pericolosità sociale dell’agente, possa essere al massimo sanzionato con una misura di sicurezza e non con una pena.

Nell’ambito dei delitti contro l’economia pubblica ed il risparmio, considerando la valenza costituzionale di tali beni tutelati espressamente dall’art. 47 Cost., il Legislatore sempre più di frequente fa ricorso alla tecnica dell’anticipazione della soglia della tutela penale utilizzando le figure dei reati di pericolo.

In quest’ambito, particolarmente discussa è la natura della fattispecie della bancarotta documentale disciplinata dall’art. 217, R.D. 267/1942 che ricorre quando il fallito, nei tre anni antecedenti la dichiarazione di fallimento o dall’inizio dell’impresa se ha avuto una durata inferiore, ha omesso la tenuta dei libri e delle scritture contabili prescritti dalla legge (artt. 2214 ss. c.c.), ovvero ha tenuto gli stessi in modo irregolare o incompleto. La previsione di tale reato mira, da un lato, a scongiurare la commissione di reati nell’ambito dell’impresa, in quanto la regolare tenuta della contabilità rende molto più difficoltosa la realizzazione di condotte criminose, e, dall’altro, ad agevolare lo svolgimento della procedura concorsuale. Infatti, l’impossibilità di ricostruire il patrimonio del fallito ed il movimento degli affari mediante le scritture contabili determina inevitabilmente un ritardo nella procedura fallimentare con danno per i creditori del fallito. Sono penalmente rilevanti anche le manomissioni concernenti i libri facoltativi. I comportamenti incriminati consistono nella sottrazione, distruzione o falsificazione delle scritture contabili o nella loro tenuta in modo da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio e del volume degli affari. L’ultima ipotesi prevista si concreta in tutti quegli artifici contabili che possono essere usati per impedire il rilevamento della consistenza patrimoniale dell’impresa in base alle scritture contabili. Si è in presenza di un reato di danno riferito al contenuto sostanziale delle scritture, a differenza della bancarotta semplice documentale che è reato di pericolo presunto.

Inoltre, la cessazione dell’attività commerciale non fa venire meno l’obbligo della tenuta dei libri e delle scritture contabili quando vi siano passività insolute e siano quindi pendenti rapporti connessi con l’attività commerciale precedentemente svolta. Infatti, la tutela dei creditori impone che venga consentito ai medesimi di avere, tramite i libri e le scritture contabili, cognizione dell’attività svolta ovvero dell’inattività della società, per essere comunque aggiornati sulla situazione economica di questa. La bancarotta documentale sembrerebbe manifestarsi quale ipotesi di reato a pericolo astratto in cui il Legislatore anticipa la soglia della punibilità al fatto della mancata tenuta dei libri obbligatori o della non corretta tenuta di essi: e ciò a prescindere dalla valutazione della concreta ricostruibilità del patrimonio e dei movimenti d’affari del fallito (possibilità che invece rileva in riferimento al reato di bancarotta fraudolenta ex art. 216 L. Fallimentare, che è reato di danno).

La giurisprudenza ha evidenziato che le ragioni di tale anticipazione della soglia di rilevanza penale risiedono proprio nella necessità di evitare ostacoli all’attività di ricostruzione del patrimonio aziendale, in vista della tutela dell’interesse dei creditori alla conservazione della garanzia di cui all’art. 2740 c.c.

Ebbene, tale interpretazione, come evidenziato dalla più recente giurisprudenza, va in collisione con il principio di offensività perché delinea la bancarotta documentale come illecito di mera disobbedienza rispetto alle prescrizioni di legge sulla tenuta della contabilità. Si corre cioè il rischio di degenerare in un puro illecito di trasgressione burocratica inidoneo ad esprimere condotte dal disvalore sostanziale.

Nel tempo, la giurisprudenza ha mitigato tale contrasto con il principio di necessaria lesività, evidenziando che la natura di reato di pericolo astratto della bancarotta documentale non può comunque escludere la valutazione della concreta idoneità delle condotte incriminate ad incidere sull’interesse tutelato dall’art. 217, co. 2, R.D. 267/1942, quale è la c.d. “ostensibilità del patrimonio dell’imprenditore”.

Ne consegue che, in applicazione del principio di necessaria lesività, dovranno ritenersi idonee a porre in pericolo il bene giuridico tutelato dalla norma penale esclusivamente le condotte che, nel concreto contesto della contabilità aziendale, possano ostacolare la ricostruzione della vita economica e patrimoniale dell’impresa. La Corte di Cassazione ha di recente evidenziato che se l’irregolarità o lacunosità delle scritture è solo apparente o è comunque sanabile con semplici operazioni matematiche non potrà ritenersi integrata la condotta criminosa, stante la sua inoffensività. Il bene giuridico protetto dalla norma risulta essere, dunque, l’interesse dei creditori all’esatta conoscenza della consistenza del patrimonio aziendale su cui soddisfarsi ed il reato ricorrerà solo ove tale interesse sia stato messo in concreto pericolo. L’esistenza del reato dovrebbe esser esclusa quando la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari può essere attuata con il ricorso alla contabilità ufficiosa ed a documenti e dati provenienti dal fallito. Diverse, ma non meno importanti considerazioni valgono per il reato di furto archeologico. Il primo e più rilevante problema che si pone riguardo al reato di cui all’art. 176 del Codice dei beni culturali e ambientali, attiene all’individuazione del requisito della “culturalità” dei reperti stessi.

Nella Legge 1° giugno1939, n. 1089 (c.d. legge “Bottai”), ove per la prima volta venivano sanzionate condotte concernenti beni di antichità e d’arte caratterizzati dalla “culturalità”, considerati quali oggetti materiali della condotta (nei reati di furto, danneggiamento, esportazione) o presupposto della condotta stessa (nei reati di ricerche abusive, omessa denuncia di ritrovamento ecc.), il carattere della “culturalità” ovvero dell’interesse storico e artistico (elemento normativo della fattispecie), derivava talvolta direttamente dalla legge (cfr. art. 1, L. n. 1089 cit.: c.d. “culturalità oggettiva” o “reale”), talaltra da un apposito provvedimento amministrativo d’imposizione del vincolo (c.d. “culturalità dichiarata”). In particolare, la disciplina contenuta nella L. n. 1089, cit. distingueva tre fondamentali categorie di beni culturali: cose immobili e mobili caratterizzate da interesse storico, archeologico o etnografico, elencate nell’art. 1; cose immobili riconosciute d’interesse particolarmente importante a causa del riferimento con la storia politica, militare o con la storia della letteratura, dell’arte, della cultura in genere (art. 2); collezioni di oggetti contraddistinti come complesso da eccezionale interesse artistico o storico per tradizione, fama, e particolari caratteristiche ambientali (art. 5).

Tali beni erano assoggettati a diverso regime in ordine alla necessità di un provvedimento amministrativo d’imposizione del vincolo e di atti autorizzativi per la successiva disponibilità dei beni, a seconda che appartenessero allo Stato, alle province, ai comuni, ad enti o istituti legalmente riconosciuti ovvero a privati o enti ecclesiastici. Infatti, i beni muniti d’interesse artistico, storico, archeologico o etnografico appartenenti allo Stato o ad altri enti pubblici dovevano considerarsi tout court “culturali”; mentre i beni appartenenti a privati che presentassero un interesse artistico, storico, archeologico o etnografico, potevano rientrare tra i “beni culturali” solo se “notificati”, ossia resi oggetto del provvedimento amministrativo di dichiarazione attestante l’interesse particolarmente importante (artt. 2 e 3, co. 1, L. n. 1089 cit.)

Dunque, il sistema d’individuazione dei beni protetti era misto: in alcuni casi, la riconoscibilità del bene materiale cui era correlato l’interesse protetto emergeva dalle sue caratteristiche intrinseche, tale da farlo ritenere inseribile nel genus descritto dall’art. 1; in altri casi, il riconoscimento avveniva per acta, attraverso documenti, in quanto presupponente atti amministrativi d’imposizione del vincolo.

Il Testo unico del 1999 nulla ha innovato rispetto al passato.

Il Ministero dichiara l’interesse particolarmente importante delle cose indicate all’art. 2, co. 1, lett. b), t.u. (id est: le cose immobili d’interesse storico, militare, letterario e genericamente culturale), l’eccezionale interesse delle collezioni o serie di oggetti indicati nell’art. 2, co. 1, lett. c), e il notevole interesse storico dei beni indicati all’art. 2, co. 4, lett. c) (id est: archivi e singoli documenti appartenenti a privati).

È evidente che il testo unico, all’art. 88, non fa che ribadire quanto esposto in modo frammentario nell’art. 44, L. n. 1089 cit., ossia:

–    ‑‑che tutti i beni indicati nell’art. 2 da chiunque e in qualunque modo ritrovati appartengono allo Stato;

–    ‑che i beni caratterizzanti interesse artistico-storico, archeologico ecc. appartenenti a privati da epoca antecedente al 1939 sono soggetti alla procedura della dichiarazione dell’interesse particolarmente importante;

–    ‑che i beni caratterizzati dallo stesso interesse, di proprietà regionale, comunale, di altri enti pubblici nonché quelli rinvenuti in epoca successiva al 1939 e quindi appartenenti ipso iure allo Stato devono considerarsi culturali per il solo fatto di rientrare nelle categorie elencate dall’art. 2, presentando valore dichiarativo e non costitutivo l’eventuale atto amministrativo che ne attesti la sussistenza.

Di conseguenza, l’apprensione dal sottosuolo o dai fondali marini di un oggetto di antichità munito delle caratteristiche previste dalla legge integra di per sé il reato d’impossessamento, essendo la culturalità insita nella res (si parla di culturalità ope legis).

Invero, in contrasto con il costante orientamento esposto, la Suprema Corte, chiamata nel 2004 a pronunciarsi sulla sussistenza del fumus del reato di cui all’art. 125 testo unico, ha sostenuto essersi verificata una modificazione della disciplina a seguito dell’entrata in vigore del Codice dei beni culturali e ambientali, di modo che i beni culturali di cui all’art. 10, co. 3, potrebbero essere oggetto di “furto d’arte” solo allorquando siano stati qualificati come tali nel provvedimento formale dell’autorità amministrativa previsto dall’art. 13 dello stesso Codice. In particolare, si è rilevato che se è vero che l’art. 91 del medesimo testo unico attribuisce allo Stato le cose da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo o sui fondali marini, l’art. 10 individua i beni culturali utilizzando criteri discretivi che tengono conto anche della natura pubblica o privata del proprietario, ed in particolare il comma 3 classifica tra i beni culturali, quando sia intervenuta la dichiarazione prevista dell’art. 13, una serie di beni appartenenti a privati (diversi dalle persone giuridiche non aventi fini di lucro), tra i quali sono ricomprese le cose immobili o mobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico, o etnoantropologico particolarmente importante.

Orbene, anche in relazione a tale fattispecie il principio di necessaria lesività ha assunto rilievo pregnante ordine alla configurabilità del reato.

Benché buona parte della dottrina e della giurisprudenza ritengano che il furto d’arte sia un reato di danno e che il bene da esso protetto sia la salvaguardia dell’appartenenza allo Stato dei beni culturali non conosciuti e trovati fortuitamente, non si può negare che la tecnica normativa utilizzata dal legislatore per selezionare le condotte criminose rilevanti risulti discutibile dal momento che il legislatore si limita ad incriminare il mero impossessamento del bene, a prescindere da qualsiasi forma di aggressione con modalità sottrattive.

Parte della giurisprudenza ha supportato tale affermazione ritenendo che, ai fini della configurabilità del reato ex art. 176 C.B.C., non fosse necessaria la preesistenza di un provvedimento dichiarante l’interesse artistico, storico archeologico delle cose di cui il privato si era trovato in possesso, rientrando i beni ex art. 10 nel dominio dello Stato in base al semplice accertamento del loro interesse culturale.

Quindi, secondo l’opinione talvolta espressa dalla giurisprudenza della Cassazione, ai fini della configurabilità del reato d’impossessamento di beni culturali appartenenti ai privati (art. 176 C.B.C.), è necessario che i beni oggetto materiale del reato siano stati qualificati come tale da un formale provvedimento dell’autorità amministrativa competente, in quanto rivestano un oggettivo interesse che risulti eccezionale o particolarmente importante in relazione alla tipologia, localizzazione e rarità del bene medesimo. Pertanto, ove la condotta d’impossessamento cada su oggetti materiali non preventivamente riconosciuti d’interesse artistico qualificato, la condotta medesima dovrebbe considerarsi inoffensiva.

In seconda battuta, la giurisprudenza ha mitigato la suddetta presunzione coniando dei criteri d’individuazione dell’interesse culturale oggettivo quali le caratteristiche della res, la sua tipologia e rarità, la localizzazione di essa, prescindendo quindi dall’esistenza di un formale riconoscimento preventivo.

Inoltre, in ordine alle modalità dell’impossessamento, la Corte di Cassazione ha di recente specificato che la punibilità della condotta è subordinata al fatto che il detentore non dimostri il legittimo acquisto del bene vincendo quindi la presunzione d’illegittimità del possesso che accompagnerebbe tali beni considerati ab initio di proprietà dello Stato sin dalla loro scoperta ed il loro impossessamento, pertanto, costituisce reato sia che il bene provenga da scavo che da rinvenimento fortuito.

La giurisprudenza ha, da ultimo, escluso l’offensività della condotta nell’atteggiamento meramente passivo di acquisizione della disponibilità del bene da parte del soggetto che abbia ricevuto il bene per successione ereditaria, senza aver posto in essere una condotta d’impossessamento (spostando, per esempio, la res dall’originaria collocazione per porla sotto il proprio dominio esclusivo).

Guarda anche

  • Reato di atti persecutori e omicidio aggravato.

  • L’incidenza dei sistemi di videosorveglianza nei reati contro il patrimonio

  • CONTINUAZIONE DEL REATO: LA SUA COMPATIBILITA’ CON IL GIUDICATO, LA RECIDIVA E I REGIMI PROCESSUALI CHE IMPLICANO UNO SCONTO DI PENA

  • Natura giuridica dell’aggravante dell’agevolazione mafiosa